Superga e i soldi spariti

L’argomento dei risarcimenti ai parenti delle vittime delle tragedie sportive è di solito pudicamente omesso nelle celebrazioni, eppure degno di grande interesse. Prendiamo spunto da un’intervista, di suggestiva bellezza, apparsa sul “Corriere dello Sport-Stadio” del 15 agosto 1999, che il giornalista Franco Recanatesi realizzò con il compianto Ferruccio Mazzola, figlio minore del grande Valentino, morto a Superga nel 1949.

Da grande giornalista, Recanatesi non mancò di far risaltare, sia pure con il tatto dovuto, anche questo aspetto della tragedia:

«E i guadagni di Valentino? Ferruccio mi mostra il testamento del capitano granata: lasciò tutto ai figli e alla sua donna, niente alla moglie. Tutto cosa? “Non abbiamo trovato più niente, nè conti correnti nè immobili: niente”. Nella corposa documentazione che Mazzola ha raccolto, c’è anche la cifra (tra ingaggio e premi-partita) guadagnata da Valentino nel campionato 1948-49: 109 milioni. Una cifra enorme se rapportata ad oggi. E solo nell’ultimo anno».

Per la cronaca, indici Istat del 2020 alla mano, si tratta di poco più di 2 milioni di euro di oggi. Poi c’è il libro, una meraviglia — per gli intenti benefici e i contenuti — realizzata con il coordinamento di un altro grande giornalista, Gian Paolo Ormezzano. Si chiama “Il Toro e il Giglio” e contiene documenti eccezionali, tratti dai carteggi intrattenuti dai parenti delle vittime di Superga con un legale fiorentino, l’avvocato Luigi Pilli, che si occupò di tutte le pratiche relative a risarcimenti e quant’altro di finanziariamente rilevante restava in luogo di chi era perito.

Alcune testimonianze sono struggenti. Per esempio, la lettera della madre di Loik, scritta all’Aeritalia, la compagnia del tragico volo, per ricevere aiuto economico quattro anni dopo la disgrazia, quando andavano esaurendosi i primi aiuti ricevuti, tramite la segreteria dell’onorevole Giulio Andreotti.

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La valigia di Valentino Mazzola

Oppure la risentita e dolente lettera della madre di Danilo Martelli, che riproduce all’avvocato copia della lettera con cui il Coni, il 17 aprile 1950, le ha assegnato, in via sbrigativamente ultimativa, la somma di un milione di lire, tratta dal fondo istituito nel dicembre 1949 dal governo presso lo stesso Coni:

«Tutti i quattrini raccolti da elargizioni di enti e di privati, ricavato di partite, Totocalcio ecc. ecc. sono compresi in questa somma che pare abbia carattere liquidativo? Di quale entità globale è questa somma, di grazia, se è lecito saperlo? Su che cosa si sono basati per assegnare a me la somma di un milione? Chi può sapere meglio di me l’enorme entità della perdita di mio figlio che oltre a essere stato un atleta, stava laureandosi in medicina? Io, da tempo vedova e con modestissimi mezzi, l’ho fatto studiare… e ora questi dovrebbero essere i frutti di tante ansie e sacrifici?».

Non sono che esempi, che confermano quanto fragili si dimostrino il cordoglio e la partecipazione delle istituzioni nel momento di tradurli in valori economici destinati ad alleviare il dolore di chi è rimasto. Insomma, è doloroso dirlo, ma non è molto diversa l’Italia del 1949 da quella di oggi. Anche allora i giocatori erano dei privilegiati, economicamente parlando, specie nel caso di campioni assoluti come i componenti del Grande Torino: Valentino Mazzola guadagnava più di tutti, essendo i suoi premi, con l’accordo generale dei compagni, doppi per il suo riconosciuto ruolo di capitano trascinatore.

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L’entrata in campo degli eroi

Ma anche gli altri vivevano nell’agiatezza e lo si comprende anche dalle meticolose ricostruzioni del contenuto del bagaglio personale al momento della tragedia che i familiari dovettero compilare. Orologi di lusso, catene d’oro, forti somme in contanti. Il libro non indulge al sensazionalismo nè supera mai i confini del rispetto per i caduti. E forse proprio per questo risulta prezioso per capire certi aspetti del calcio e dell’Italia di allora: ne sono testimoni le riproduzioni dei foglietti volanti su cui il presidente Ferruccio Novo annotava gli accordi per ingaggi e premi raggiunti con i singoli giocatori.

Ma è soprattutto un malinconico aspetto a emergere dal seguito dell’immane tragedia; lo sintetizza nel suo asciutto ed emozionante intervento Giorgio Tosatti, che aveva undici anni quando suo padre, il giornalista Renato, perì assieme ai calciatori:

«Dei molti amici e colleghi di mio padre ce ne restarono accanto un paio; nessuno ci aiutò a sopravvivere, a evitare umiliazioni e miseria. Per le famiglie di chi morì a Superga la tragedia più insopportabile non fu quella del 4 maggio, ma i molti anni a seguire, l’abbandono e gli stenti, la solitudine e troppe vite coventrizzate. Ricordo che ci ritrovammo in parecchi una decina d’anni fa a Tolentino. Bastò guardarci negli occhi per commuoverci, riconoscendo negli sguardi altrui il comune calvario».