Suarez all’Inter

La straordinaria avventura di Luisito con i nerazzurri ricostruita attraverso i racconti dei principali protagonisti dell’epoca.

Per oltre un mese, Italo Allodi si impegnò a sfondare le resistenze del Barcellona. L’elegante manager mantovano, ingaggiato da Angelo Moratti come segretario generale dell’Inter, non era uno che si arrendeva facilmente di fronte a un rifiuto: sembrava che in gioco ci fosse il suo destino. In realtà, grazie al suo fiuto eccezionale, Allodi aveva capito quanto fosse fondamentale soddisfare le richieste di Helenio Herrera e portargli il calciatore che desiderava, un galiziano dallo sguardo triste che in Catalogna si era già fatto un nome.

Luisito Suarez, il galiziano che il «mago» Herrera aveva trasformato in un campione al Barcellona, era il sogno proibito dell’allenatore argentino quando approdò all’Inter. Gli spagnoli adoravano Suarez per la sua capacità di dirigere il gioco e con lui avevano vinto due campionati, due coppe di Spagna e due coppe delle Fiere. Il presidente del club catalano, un ricco editore, non era certo uno sprovveduto e aveva investito molto su quel galiziano malinconico, arrivando anche a mandarlo a fare boxe per aumentarne la grinta: non era disposto a lasciarlo andare facilmente.

«Mi sembrava di avere un abbonamento aereo per la tratta Milano-Barcellona — racconta Allodi Il mago sosteneva che era il miglior regista del mondo, che avrebbe portato l’Inter a livelli internazionali straordinari. Non mi interessava vederlo giocare: volevo conoscerlo, diventare suo amico. Andavamo a cena insieme in un ristorante di Calle Casa Nueva, “El Guria”. Alla fine trovammo un accordo personale: lui mi disse quanto voleva guadagnare se il Barcellona lo avesse venduto e in cambio promise che non avrebbe accettato nessun’altra squadra se non l’Inter».

Maggio 1961: finalmente Suarez firma il contratto con l’Inter

Era la primavera del ’61 e don Helenio, a Milano, aveva già cambiato le sue idee iniziali dopo una sconfitta memorabile subita dal Padova di Rocco, adottando un calcio meno spregiudicato e più cauto: era lo stile italiano di allora. Ma per rendere più efficace il suo sistema, per segnare più gol oltre a subirne pochi, gli serviva un pezzo fondamentale che conosceva bene: Luisito Suarez, appunto.

Chi è stato il primo, l’uovo o la gallina? La strategia vincente della grande Inter era già nella mente di Helenio Herrera prima che arrivassero Picchi, Facchetti, Suarez e Jair o furono questi calciatori straordinari e adatti a suggerire al «mago» la tattica furba della difesa compatta e del lancio lungo per il contropiede rapido?

«Quella strategia l’ho voluta io — assicurava Herrera —: Suarez l’avevo avuto al Barcellona e conoscevo bene le sue qualità tecniche». Ma poi aggiungeva che «bisogna saper adattare la strategia ai calciatori». Certo, con quei campioni seppe costruire una squadra di calcio micidiale, capace di ottenere trionfi in serie. E Suarez ne divenne il fulcro.

«Era il motore della squadra — ricorda Herrera, uno dei maggiori artefici della grande Inter. — Con lui gli avversari non avevano il tempo di chiudersi. Al Barcellona soffriva della concorrenza con Kubala, che aveva il sostegno dei tifosi; era normale che volesse andarsene. Poi, vedendo quanto vinceva anche da noi, dissero che glielo avevamo sottratto».

Infatti l’assedio durato tutta la primavera ’61 si concluse finalmente con il successo: il prezioso Luisito divenne interista. «Andammo a Berna — racconta ancora Allodi —, dove il Barcellona disputava la finale di Coppa dei Campioni. Vinse il Benfica 4-3, ma Suarez fu il migliore in campo. Lui era abituato a giocare con Rubala, Kocsis, Czibor, pretendeva una squadra al suo livello. Gli parlai di Bicicli e Morbello, assicurando che più o meno eravamo lì… A Catania l’Inter giocava l’ultima partita di campionato: lo portai a vederla».

Fu sicuramente un’esperienza insolita: stanca e demoralizzata, l’Inter fu battuta per 2-0. «Va bene — disse Suarez al suo accompagnatore —, questa sarà la Squadra Riserve; ma la Prima Squadra quando me la fate vedere?».

L’Inter con lui cambiò davvero faccia. Ancora Allodi: «Era il leader della squadra. Quando uno era in difficoltà, gli passava la palla e lui risolveva il problema. I suoi lanci lunghi erano perfetti per Jair. Non lo vidi mai fare una partita sbagliata. Era il primo ad arrivare all’allenamento, l’ultimo a partire. Dava consigli a tutti e nella vita privata era serissimo». Infatti si arrabbiò molto, una delle poche volte, quando sul Guerin Sportivo Bruno Slawitz scrisse di una notte al night con ragazze facili: si incontrarono all’aeroporto e finì con due ceffoni.

I Moratti lo conoscevano poco, ma ne rimasero subito affascinati. «Fu papà il primo a credere nel suo talento — racconta Massimo Moratti — Il nostro regista era stato fino a quel momento lo svedese Lindskog, un buon giocatore che copriva tutto il campo. Quando Luisito lo rimpiazzò, sembrò all’inizio che facesse molto meno, invece in cinque minuti ci fece capire il calcio: lui faceva correre la palla. Tra l’altro alla sua prima partita colpì due volte la traversa. Quando poi arrivò Jair, al terzo anno di Herrera, saltare il centrocampo avversario diventò facilissimo, con quel centrocampista che da 60 metri metteva la palla sul piede del compagno in corsa. E con lui Corso, che aveva un grande talento, imparò a fare lo stesso».

Quanto imparò Mario Corso da Suarez? Tanto, dicono tutti. «Aveva un gioco corto, cortissimo — spiega Herrera —: imparò anche lui a giocare lungo». Mariolino, detto Mandrake, ricordava: «Per me è stato tra i due o tre stranieri più forti che siano venuti in Italia, un punto di riferimento per tutti noi. Lo avevamo visto solo qualche volta in tv, ma si integrò subito senza problemi: aveva grandi doti e grande personalità, ha fatto la fortuna dell’Inter. In un certo senso ci siamo completati, lui e io, in mezzo al campo. Ma anche fuori ci trovavamo bene, eravamo spesso insieme. Come definirlo tecnicamente? Era un grandissimo regista, eccezionale per tecnica e visione di gioco, sempre al posto giusto, e sapeva far girare alla grande tutta la squadra».

Nonostante la sua bravura, Luisito non vinse lo scudetto nel suo primo anno all’Inter. In Coppa delle Fiere era capitato di incontrare Karl-Heinz Schnellinger, che allora giocava nel Colonia, e ne era uscito con il menisco rotto. «Dovette essere operato — racconta Massimo Moratti —, ma in due mesi si riprese come prima; grazie anche a un nostro amico di famiglia, il commendator Quarta, che si occupò della sua alimentazione nel periodo della convalescenza. Certo, con lui in campo sempre, forse quello scudetto non lo avremmo perso nel girone di ritorno. Ma per me, capirete, sono tanti gli scudetti che avremmo potuto avere in più, a partire da quello perso nello spareggio col Bologna».

Quello dello spareggio era il campionato 1963-64. L’Inter di Herrera, che aveva ormai promosso Sandrino Mazzola come titolare fisso (30 partite in quella stagione), aveva già vinto lo scudetto e il 27 maggio conquistava a Vienna contro il leggendario Real Madrid la sua prima coppa Campioni.

«Era un giocatore straordinario — è la volta di Mazzola —, dotato di tecnica, qualità e quantità, un modello per noi giovani, un professionista al massimo livello per dedizione negli allenamenti e fame di vittoria. Quando feci al 40’ il primo gol della finale lo celebrati con una capriola. Luisito mi fece i complimenti, ma mi disse: “Non pensare che sia finita, la partita vera inizia ora”. Era un leader e un motivatore. Si arrabbiava anche, se le cose in campo non andavano bene, e gridava come un pazzo. A ragione, naturalmente. Sapeva farsi rispettare, con le buone o con le brutte».

Arrivarono la seconda coppa Campioni, i due trofei intercontinentali, altri due scudetti, e Luisito Suarez sembrava non invecchiare mai. «La sua caratteristica principale — ricordava il dottor Angelo Quarenghi, medico della grande Inter — era l’equilibrio fisico e la coordinazione, come correva e calciava, una gestualità perfetta, la precisione, la prontezza di riflessi, tutto un muoversi e agire in funzione di una sensibilità atletica eccezionale. In più aveva la capacità di gestirsi come atleta, di adattare l’allenamento alle sue condizioni, un’autogestione da grande professionista. Poi sapeva pensare e comportarsi di conseguenza: era un signore, un uomo che agiva con stile, qualità molto apprezzata dal presidente Moratti. Ero felicissimo che avesse intrapreso la carriera di allenatore e sono convinto che possa dare ancora molto ora che ha raggiunto la piena maturità».

Il medico ricorda le riunioni improvvisate negli spogliatoi, la base delle grandi vittorie con la squadra unita attorno ai suoi leader, Picchi e Suarez soprattutto, poi Facchetti e Burgnich e Sandro Mazzola. Nella sua stagione più bella (1966-67) quell’Inter non vinse niente: tradita da un errore del portiere Sarti nell’ultima partita di campionato a Mantova, una settimana prima era stata sconfitta dal Celtic nella finale di coppa Campioni a Lisbona, giocata «senza Suarez, Peirò e Jair», come sottolineava Herrera. «Assenze pesanti — conferma Massimo Moratti —, specie quella di Suarez, che aveva saputo mantenere fisicamente integro, in grado di giocare ancora, a centrocampo o libero, dopo il ritiro della mia famiglia, nell’Inter e nella Samp». Indimenticabile e rimpianto sempre, come i grandi campioni.