Massimo Gramellini: Vialli, la spalla del Bomber

3 Luglio 1990: a Napoli, l’Argentina ha sconfitto l’Italia ai rigori e andrà in finale contro la Germania. Massimo Gramellini racconta la vicenda umana di Gianluca Vialli: quello che doveva essere il Messia azzurro si ritrova nel match decisivo a fare da comprimario tra le nuove stelle Schillaci e Baggio.

«E’ questa la stanza del più grande?» La risposta è un urlo compresso per troppi giorni in fondo alla gola. E’ mezzogiorno nell’albergo degli azzurri e l’amico in visita alla camera di Vialli si trova faccia a faccia con la Felicità. Il Gianduca è appena riemerso dalla doccia, dove cantava come un ragazzino. Era sceso un’ora prima per la colazione ma, invece delle brioches, aveva trovato il faccione prelatizio di Vicini, smanioso di concedergli un colloquio particolare: «Allora stasera giochi tu».

Sì, gioca il GianDuca. Sale sulla giostra al posto di Baggio e al fianco di Schillaci, il primattore al quale dovrà fare da umile spalla, passandogli la palla come Castellani le battute a quell’altro Totò. E’ un Vialli ridimensionato e proprio per questo migliore, finalmente libero dai malefici effetti della legge di Peters, quella per cui uno spazzino che fa bene lo spazzino viene promosso sovraintendente alla nettezza urbana, non ci capisce un’ acca e resta lì, per tutta la vita.

La parabola calcistica di Vialli è un’esemplare applicazione pratica di queste teorie. Bravura e presunzione lo hanno indotto a rifiutare i panni dell’attaccante universale che la natura gli aveva cucito addosso. Per anni ha preteso di recitar da Schillaci senza esserlo. Adesso Totò ha rimesso le cose a posto e Vialli può tornare a fare il Vialli, per la soddisfazione di tutti.

La prima inquadratura televisiva lo coglie con le spalle appoggiate al muro degli spogliatoi, proprio come tre sere fa nell’imminenza di Italia-Eire. Ma stavolta non ha la faccia abbattuta dello sconfitto ma quella pallida di un esordiente. I compagni sfilano verso la scaletta: restano con lui Zenga e Schillaci, che in mezzo a quei due amiconi veste i panni dell’intruso. Infatti il portiere gli dà una pacca sulle spalle invitandolo ad incamminarsi: nessuno può interporsi fra i due vecchi «boss» dello spogliatoio azzurro.

Eccoli sbucare insieme davanti alla folla del San Paolo, schierarsi gomito a gomito all’estremo lembo della squadra, allungata sul campo per l’esecuzione degli inni nazionali. A quello italiano, Vialli e Zenga si prendono per mano e cominciano a cantare, imitati da De Napoli. Sembra un ritorno al passato, ma alla fine dell’inno comincia la partita e si capisce subito che nel clan Italia la musica è cambiata. Schillaci si muove sul fronte d’attacco con l’autorità del proprietario. Vialli gli corre al fianco ma più spesso dietro.

Bellissimo a vedersi, il GianDuca, con quel polsino bianco vezzosamente indossato per garantirsi una patente di unicità. All’avvio, comunque, si rivede il vecchio Vialli: sgobbone con eleganza, cattivo con stile. Un eccesso di umiltà gli suggerisce sfiancanti scatti a ritroso, all’inseguimento di terzini che non gli competono e di palloni che riconquista troppo lontano dalla porta argentina per poter far altro che un innocuo passaggino di tre metri, il massimo della mortificazione per un tipo come lui. Il dodicesimo minuto battezza la prima escursione di Vialli nell’area di rigore avversaria: è uno sprint coraggioso e inutile, che va ad infrangersi sul corpo del portiere Goychoechea.

GianDuca si arrabbia alla sua maniera, con atteggiamenti così freddi da apparire studiati: alza la testa dall’erba, cerca gli occhi dell’arbitro, sbatte i suoi per invocare un fallo che non c’è. Poi, vistosi trascurato, solleva il pollice come dire «tutto okay», stira la lingua in una smorfia di disappunto e chiude la soffice sceneggiata con uno sbattimenti da palpebre da diva del muto. La rabbia che gli cova dentro da due settimane almeno, trova modo di esprimersi nell’azione del gol. Assist intelligente a Giannini, balzo coraggioso nel cuore dell’area per chiudere il «triangolo» con un tiro al volo, incurante della gamba argentina che piomba minacciosa sulla sua. Potrebbe essere il momento del riscatto, ma Goychoechea sta anche lui dalla parte di Schillaci: vola sulla palla-gol di Vialli e la respinge addosso a Totò, che la mette in rete e si prende i meriti altrimenti tutti del GianDuca.

Dopo aver contribuito a cementare la gloria dell’uomo che ha oscurato la sua, Vialli comincia a demoralizzarsi. Corre sempre, ma sempre più a vuoto. La gente lo ignora, gridando «Totò, Totò». La gente smette di ignorarlo e dopo il pareggio di Caniggia grida «Baggio, Baggio» al posto suo, naturalmente. E quando Serena si alzerà dalla panchina, a liberare una sedia per il GianDuca, occhi famelici in tribuna-stampa attendono un gesto di disappunto, restandone delusi: Vialli è un attore gelido e perfetto: s’inginocchia fino a toccare la terra, fa il segno della croce e se ne va, correndo verso la panchina azzurra senza guardare nessuno, neppure la gente che applaude Schillaci, l’Italia, Maradona, il nuovo entrato, insomma tutti. Tranne lui.

  • di Massimo Gramellini