Gianni Brera: Peppìn Meazza era il “Fòlber”

Agosto 1979: si spegne nel silenzio il più grande calciatore italiano di tutti i tempi.

E’ morto a Lissone Peppìn Meazza. Se n’è andato in silenzio, vergognoso di morire come si dice dei gatti, alla cui specie sorniona apparteneva. Era da tempo malato. Un chirurgo amico, Minolo Pizzagalli, gli aveva dovuto asportare mezzo pancreas e mal volentieri parlava, poi, della sua sorte più o meno vicina.

Oltre a quello, soffriva di disturbi circolatori. Sulla sua faccia gonfia affioravano vene di color rosso plumbeo. Gli occhi grandi, bovini, parevano costantemente assonnati. Pesanti palpebre calavano le lunghe ciglia a proteggere lo sguardo non timido ma talora impacciato e sfuggente. La voce gli si rompeva in gola come se una spossatezza greve negasse d’improvviso il fiato necessario ad alimentarla. Insomma, faceva tanta pena da indurre gli amici a ribellioni di puerile insofferenza e perfino di rabbia. Perché vederlo sfiorire a quel modo era come dover riflettere sui nostri anni perduti, sulla fine più o meno vicina di tutti. E non c’è nulla al mondo che dispiaccia di più alle povere ciolle che noi siamo.

Ora il Peppìn e morto. Se n’è andato in silenzio, sapendo benissimo perché la moglie lo aveva portato a Rapallo in primavera. Dovevo preparargli per tempo il “coccodrillo” e non avevo cuore. Con il dovuto cinismo gli ho telefonato a Monza: mi ha risposto già dalla tomba: “Sto ben, sto ben (come se indignato domandasse: chi te l’ha detto che muoio?): propi incoeu vo a Rapallo”. E ancora una volta gli fui grato di una notizia che mi risparmiava l’odiosa incombenza di caragnare in anticipo. Nulla di più imbarazzante, nulla di più vile. Al diavolo voi che vorreste chiudere le pagine ancor prima che siano scritte! Ma ora Peppìn è morto per davvero, e ricordarlo bisogna, dire chi era, che cosa ha fatto, e cercar di non piangere perché sarebbe falso: nessuno crederebbe che piangi per lui. Contela giusta, Gioânn: col Peppìn e passata la tua vita.

E allora, via, parliamone come di un fenomeno che poco poco ha inciso sul nostro costume. Personalmente, ho finito addirittura per giocare con lui, ormai facevamo ridere entrambi; ma chiunque, ragazzino, abbia pedatato negli anni trenta, almeno per un istante, un’ora, un anno ha provato a mitizzare se stesso nel suo nome. Perché Peppìn Meazza e il football, anzi “el folber” per tutti gli italiani. Grandi giocatori esistevano al mondo, magari più tosti e continui di lui, pero non pareva a noi che si potesse andar oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario.

Era nato nel 1910, di fine agosto, a Porta Vittoria, non so in quale via. Sua madre aveva nome Ersilia e veniva da Mediglia, nella Bassa di Lodi. Faceva la verduratta, che era allora povero mestiere: lo chiamava “Peppino”, secondo l’italiano storpiato dai lombardi: e tutti gli altri, Peppìn, e magari anche “Pepp”, che è tanto bello e veloce, ma screditato ormai dalle pochades d’osteria. Porta Vittoria non finiva già al monumento delle Cinque Giornate, proseguiva per la campagna ricca di fossi e di fontanili. Quando si preparava il cantiere per una case nuova, si faceva sgombro uno spiazzo e in quello giocavano al folber i fiolett della zona. Peppìn ha dato subito la misura del suo carattere e del suo stile pretendendosi centro mediano, che nel beato calcio di quei giorni era padrone e donno del gioco (una ricerca sull’indole e poi sul carattere dei grandi campioni consentirebbe di precisare che al loro esordio hanno tutti giocato da centro mediano, center half in inglese).

Peppìn ragazzetto era gracile e denutrito. Aveva le spallucce cadenti e le ginocchia vaccine. Sottoposto a visita scolastica, e stato trovato debole di polmoni e accolto al Trotter, che era ed e l’avveniristica scuola all’aperto dei milanesi. Egli era dunque un esempio del nostro entozoo disastrato e tuttavia gagliardo, con dentro tanto nerbo da strabiliare chiunque lo sottovaluti (anche oggi, che aderiscono al calcio i soli rampolli del quarto e del quinto stato, di gran lunga i più numerosi a livello professionistico sono i lombardi).

Giocando da “fasso-tuto-mi” come in effetti consentiva il ruolo di centro mediano, Peppin teneva spesso la palla e quindi aveva modo di adeguare sempre meglio i suoi strani piedi e soprattutto i ginocchi alle necessita di controllo e di tocco. Si muoveva sornione e qualche volta ingobbiva: che era il sintomo dello scatto imminente: allora, di botto, saltava tutti a sorpresa, con tanta felicita di tempo e di gesti che subito si pensava alla miracolosa trasformazione operate dal gioco su quello scorfano apparentemente negato.

Non altro era il segreto della sue fortune calcistica: ma quando lo presero all’Inter, si invitarono i soci a ospitarlo il più frequentemente possibile per la bistecca, della quale in case non aveva abbondanza. Esordi in prima squadra al torneo primaverile di Como: l’autunno seguente, a diciassette anni appena compiuti, era già tanto bravo che venne retrocesso Bernardini a centrocampo, cosi che era l’asso patentato (o molto pagato) a dover servire il pivello più dotato di genio.

L’Inter non vinceva il campionato dal lontano 1920: ed era questo – si badi – il secondo scudetto della sua storia: il primo, avendolo arraffato nel 1910 ai ragazzi della Pro Vercelli. I1 calcio italiano soffriva tuttora di rozze e scomposte paturnie provinciali. I campi di gioco erano malvagi per ignoranza e per effettiva povertà di mezzi (hai, troppo spesso le due disgrazie si assommano). Gente che sapesse toccar palla con decenza ve n’era assai poca. Pedatori danubiani del vecchio mondo asburgico venivano a colonizzarci, ma l’insufficienza dei campi era pari all’incultura di quasi tutti, che è mancanza di tecnica e insieme di civiltà.

I favoriti del primo campionato a girone unico (29-30) non erano i milanesi dell’Inter: molto si parlava di Bologna, di Torino, di Juventus, di Genoa. L’Inter si era appena fusa con l’Unione Milanese: aveva ereditato Viani, sostituto di Bernardini, e Visentin, ala destra. Allenatore era l’ungherese Weiss, che del Peppìn era stato il primo a intuire il grosso talento. A leggere la critica del tempo, niente o quasi si capisce di quanto avveniva sui campi, non di marcature si parlava, non di spazi. Il modulo tecnico-tattico andava stentatamente adeguandosi alle nuove norme del fuori gioco. Consisteva soprattutto quel povero calcio di lunghe e grossolane respinte, di furbi intercettamenti, di lenti e sempiterni cross dall’ala. Cosi, il Peppìn, agile acrobata, ne venne subito esaltato.

Grevi terzini con la testa fasciata dal fazzoletto avanzavano risucchiati – cosi si diceva – dal resto della squadra in manovra di attacco: bastava dunque la lunga respinta dei difensori amici per fare ingobbire il Peppìn fra i suoi goffi custodi: i quali, per la fulminea rapidità del suo scatto, giungevano talora ad inzuccarsi comicamente. Intanto la folla, se capiss, balzava in piedi a urlare; e lui, quello scorfano incredibilmente trasformato dal brio e dalla ispirazione, caracollava a render grami gli ultimi disperati gesti del portiere, ormai condannato a subire il gol. Dice che lo chiamava addirittura fuori, neanche si fosse giunti anche nel calcio all'”haja toro!”: e poi, con sorniona finta, toccava di piatto destro o sinistro nell’angolino più a tiro: un vero clamoroso cippirimerlo.

Era questa, in effetti, la clamorosa condanna di un arcaico e grossolano concetto tattico: la “metà campo da vendere”. Chi pretendeva esaltarsi di quella illusione, fatalmente incappava nel Peppìn. La sottovalutata Inter, priva di grossi nomi e dunque sfavorita all’avvio, aveva istintivamente scelto il contropiede per il suo ragazzino prodigio, enfaticamente chiamato con il soprannome di moda, quello di un piccolo teppista genovese, “o Balilla”. L’Inter rivinse il campionato in circostanze drammatiche, per la caduta delle tribune in via Goldoni. I1 solo a non impressionarsi per tanta rovina era stato l’abulico Peppìn e infatti, lui e non altri aveva pareggiato alla ripresa i tre gol con i quali stava già trionfando l’imprevidente Genoa di Levratto!

Su quell’inizio, la gloria. E noi crapottoni lombardi a gemere, urlare, sbavare per quel nostro paìs miracolosamente portato a pedata con tanto imprevedibile genio. Fu lui a sollevare il nostro calcio su effettivi livelli europei: lui a trasformarsi in regista inventore di gioco per dare prima la Coppa Internazionale e poi il campionato del mondo all’Italia.

Dalla generosa e gnocca Milano veniva considerato alla stregua di un prodigioso Kean vernacolo. Lucido di brillantina, gli occhi assonnati, il sorriso bullo, l’automobile (che ben pochi avevano), i quattrini facili, i balli, il gioco, le veglie presso le Maisons Tellier di mezzo mondo, il trionfante Peppin vendicava le angustie degli umili antenati e di tutti noi poveracci suoi pari, passando per un genio al quale era consentita qualsiasi stravaganza.

In realtà, giocava d’impegno – per l’Inter – soltanto se qualcuno gli mostrava a tempo giusto l’orecchio di una banconota. Si alzava dal letto quando gli altri avevano già finito di allenarsi. Faceva il gol come e quando voleva, ma solo se capiva di essere in debito, anzi in colpa con i tifosi. Era in effetti l’unico italiano a reggere il confronto con i sensazionali prestipedatori argentini e brasiliani. Amava riamato Raimundo Orsi, che sempre lo secondava, e detestava il truculento Monti, che invece lo angariava.

Ho sentito io stesso Viani accusarlo di paura (“fuffuori casa gioggiocavamo sempre in diddieci”). In verità, lo massacravano tutti con la cinica insolenza dei mediocri che non volevano farsi beffare. E come i favori del pubblico erano tutti per lui, i dirigenti lo pagavano e sopportavano a denti stretti. “Grand peintre du football” lo definirono i francesi (pensa l’ingegno) quando lo videro trionfare ai mondiali di casa loro (1938). Un embolo maledetto salvò poi l’Inter da quell’idolo divenuto ormai intoccabile e persino ingombrante. Gli si era gelato il piede destro, così si scriveva: e dopo quasi un anno di inutili cure gli venne squarciato dal malleolo all’alluce, finché nella vena ostruita non riprese a fluire il sangue.

Logoro per aver molto abusato di sé e per le non poche tare somatiche contro le quali aveva dovuto battersi in tutti quegli anni, il fenomenale Peppin chiuse non ancora trentenne la sue folgorante carriera di asso. Nel Milan (orrore!) lo vedemmo anfanare cianotico in volto come uno che stesse per crepare da un momento all’altro. E tanto più ingroppiva il saperlo cosi menomato, quanto più vivido era il ricordo delle sue prodezze passate.

Non è vero pero, come asseriscono alcuni, che fosse tanto modesto e schivo. Pensava a se come ad un eroe mitico, a un irripetibile e grande inventore di calcio ad alto livello. Parlava di se con l’ingenua vibrazione dell’egoista troppo tempo osannato per non ritenersi alla lunga l’unico. Quasi tutti gli ex campioni soffrono di queste ubbie e neanche lui, povero Peppin, poteva dirsene immune. Troppi, tuttavia, ne sottovalutavano l’intelligenza: parlava italiano ad orecchio, e quindi non poteva esprimere in lingua l’arguzia che per solito lo animava parlando milanese. Certo, non era un sapiens, e la informe culture gli impediva di figurare tra i tecnici del suo sport. Allenò l’Inter e qualche altra squadra minore. Venne scritturato a Istanbul e ne tornò quasi subito, lamentando la mancanza delle campane e del bitter al selz. Fece l’aiuto di Carlino Beretta in nazionale e fu, come lui, un disastro. Da ultimo, per non lasciarlo senza pane, gli diedero da istruire i ragazzi dell’Inter: ma lui, istintivamente, cercava l’ombra delle tribune.

Ormai avanti con gli anni, venne rilanciato come uomo simbolo per gli Inter club. Sbatteva le palpebre, sentendosi acclamare, e con un sorriso triste annuiva, assai poco convinto in cuor suo che quella vita meschina meritasse più di venire vissuta. Infatti, senza darlo troppo a vedere, si è dignitosamente levato di mezzo. E avendo io a lungo delirato per lui, mi dico oggi che gli eroi quelli veri, andrebbero per tempo rapiti in cielo, cosi come usava una volta, che non debbano restare fra noi a morire accorati e offesi della loro ingiustissima sorte.

Gianni Brera