I ricordi mondiali di Riccardo Carapellese (1922-1995), indimenticato attaccante di Milan, Torino e Juventus
1950: la Coppa Rimet ritorna dopo un’assenza di dodici anni. Viene assegnata al Brasile, perché l’Europa è ancora distrutta dalla guerra e laggiù, tra i protagonisti ci fu Riccardo Carapellese. Il “Carappa” era un’ala imprendibile di gran talento, dallo scatto bruciante e dalla serpentina ubriacante. Aveva colpi di classe cristallina, ottima tecnica, un controllo di palla finissimo ed una notevole facilità di realizzazione.
Questa sua testimonianza dell’avventura brasiliana risale al 1978.
«Quei mondiali furono un’avventura. Partimmo in nave da Genova con la ”Sises” perché, dopo la tragedia di Superga, ben pochi se la sentivano di viaggiare in aereo. I dirigenti fecero un referendum: eccetto cinque, tutti gli altri optarono per la nave, così si rispettò la volontà della maggioranza».
Il viaggio fu lunghissimo, non vi poteste allenare, e foste eliminati al primo turno.
«Verissimo, ma il discorso non è così semplice. Il viaggio durò esattamente 18 giorni, però tutte le mattine facevamo ginnastica sulla tolda agli ordini di Sperone. E ci fermammo pure a Las Palmas, nelle isole Canarie, per disputare una partitella (durante la quale si fece male Lorenzi che non potè poi essere utilizzato in Brasile). Comunque in Brasile non fummo eliminati per il viaggio, semmai per il clima e soprattutto perché i tecnici sbagliarono la formazione».
Chi comandava esattamente?
«Ti dico la verità: non l’ho mai capito. Lo staff era composto da Ferruccio Novo, creatore del “Grande Torino” e vicepresidente della FIGC, dal giornalista Aldo Bardelli che era dirigente del Livorno e consigliere federale, dal dirigente del Torino Roberto Copernico e dall’allenatore Mario Sperone. Lo staff del Torino era al completo, ma Sperone si limitava a prepararci o meglio a urlare le sue celebri frasi che sono passate alla storia del calcio italiano, cioè “Su le maniche e vadi come vadi” e “Palle lunghe e pedalare”. Copernico aveva molto ascendente su Novo che era troppo signore per fare la voce grossa. Penso che la formazione venisse fuori da una serie di compromessi tra Copernico e Bardelli».
Incontraste la Svezia, perdeste per 3-2 e in pratica usciste dalla scena, mentre gli svedesi vennero tutti in Italia.
«Però noi non dovevamo perdere. La Svezia non era forte, il Milan aveva già saccheggiato il trio Gren-Nordhal-Liedholm, era una squadra di giovani. Giocammo a San Paolo, la più italiana delle città del Brasile, c’era un tifo d’inferno per noi. Parteggiavano per noi pure i brasiliani, anche in ricordo del grande Torino che era andato in tournée in Sud America, poco prima della scomparsa. Ho visto più foto del Grande Torino in Brasile che in Italia. Il clima ci aveva tagliato le gambe, si sudava anche in camera, però perdemmo per la formazione sbagliata, io e Muccinelli, ad esempio, nonostante il clima e il viaggio, corremmo come matti».
Come andò esattamente?
«Male. Campatelli sulla nave aveva detto di essere venuto in gita turistica (credo che l’avesse imposto Mauro, che era suo grande amico) invece ce lo trovammo in campo. Come terzino sinistro esordì Furiassi della Lazio e tutti pensammo che doveva avere grosse aderenze perché non era certo un giocatore da Nazionale (difatti dopo quelle due partite in Brasile scomparve dal giro). In porta, Sentimenti IV venne preferito a Moro, che era un semplice e aveva il torto di dire in faccia alla gente quello che pensava. E’ stato un grande portiere anche Sentimenti IV, ma non ci vedeva e così, mentre era imbattibile sui tiri da corta distanza, beccava gol da quaranta metri. Io ero scatenato: poche ore prima della partita, mia moglie Costanza mi aveva telefonato dall’Italia che era nato mio figlio Massimo. Entrai in campo deciso a spaccare tutto e dopo sette minuti avevo già segnate. Ubriacai il terzino Samuelsson. Ma segnò Jeppson, poi Anderson e ancora Jeppson, così ci trovammo sull’uno a tre. Feci un passaggio gol a Muccinelli ed accorciammo le distanze Ma non riuscimmo a pareggiare, perché la squadra non funzionava. Tuttavia sfiorai il miracolo proprio all’ultimo minuto. La palla rimbalzò sotto la traversa e rimase sulla linea. Arrivò in corsa Muccinelli e la mandò fuori. Segno che era destino».
Vi rifaceste battendo il Paraguay per 2-0, ma fu una vittoria platonica.
«Perché Svezia e Paraguay pareggiarono 3-3 e io ebbi l’impressione che si fossero messi d’accordo, insomma ne uscì una torta ai nostri danni. Perché il Paraguay era molto più forte della Svezia. Come al solito noi ci lasciammo incantare dalle apparenze e portammo in Italia tutti gli svedesi eccetto il portiere e i terzini. L’Atalanta prese Jeppson e Kurt Nordahl, il fratello di Gunnar; l’Inter, Skoglund; la Roma, Andersson e Sundqvist; il Genoa, Nilsson; la Sampdoria, Gaerd; il Legnano, Palmer. Ma ti garantisco che aveva giocatori più bravi il Paraguay. Noi contro il Paraguay vincemmo perché Bardelli e Copernico capirono gli errori e schierarono la formazione giusta, inserendo i gladiatori Blason e Remondini che esordirono assieme a Pandolfini, che segnò un gol e fu il sottoscritto a farglielo segnare. E in precedenza avevo segnato la prima rete».
Incantasti i tecnici di tutto il mondo. E’ vero che ti volevano far rimanere in Brasile?
«E’ verissimo. Perché avevo il dribbling dei sudamericani e la grinta degli europei. Ricordo che il terzino del Paraguay, Gonzalito, mi massacrò per tutta la partita, ma io non sentivo nemmeno i cazzotti, in Brasile l’Italia segnò quattro gol; due li segnai io e gli altri due li feci segnare a Muccinelli e Pandolfini. Venne da me il presidente del Bangu di Rio de Janeiro che era il club dei milionari. Mi offrì 12 milioni l’anno, con un contratto biennale. lo, al Torino, guadagnavo 700.000 lire l’anno. Andai subito da Novo che era il mio presidente, feci intervenire il presidente della Federazione, l’ing. Ottorino Barassi, li supplicai in ginocchio spiegando che con quell’offerta mi sistemavo per tutta la vita. Ma non ci fu verso di avere il cartellino. Dovetti tornarmene in Italia».
Come tornaste, in nave o in aereo?
«Io e Lorenzi, assieme a Bardelli che era il più allergico ai voli tornammo con la nave, una nave francese che scricchiolava da tutte le parti. Attraversando l’oceano ci venne più volte da pensare che da un momento all’altro saremmo finiti in pasto ai pesci. Poi leggemmo che quello era l’ultimo viaggio dell’imbarcazione, che all’arrivo in Francia venne subito destinata al cimitero delle navi. Lorenzi, per tutta la traversata, imprecò con i compagni che all’andata avevano preferito la nave con la scusa della paura, ma che poi, per andare in vacanza, avevano accettato l’aereo».
E’ vero che fu durante la prima traversata con la «Sises» che a Lorenzi venne in mente di battezzare Boniperti col nome di «Marisa»?
«Fu proprio in quell’occasione. Al passaggio dall’Equatore, l’equipaggio organizzò la solita festa sulla nave. Ci facemmo a vicenda scherzi di ogni genere. E a Boniperti toccò, da “Veleno”, quell’appellativo che rimbalzò anche in Italia e si portò poi appresso su tutti i campi. Credo che non l’abbia gradito molto. Perché Boniperti ha dei nervi d’acciaio e sa controllarsi come se fosse un inglese. Ma una volta che il coro di “Marisa! Marisa!” era divenuto troppo insistente, perse il self control e mostrò i suoi attributi».
Ci fu anche una polemica politica. Caprile vi fece firmare un appello per la pace all’insegna della colomba, di Picasso, le vostre firme finirono su «L’Unità»: ne venne fuori uno scandalo; non si era ancora in tempi di compromesso storico.
«E penso che l’ala sinistra Caprile, che infatti non venne mai impiegato, fosse stato aggregato alla comitiva appunto per i suoi meriti politici. Allora tutto questo era possibile. Gli unici a non comandare erano i giocatori, io, Muccinelli, Lorenzi, criticammo le decisioni dei tecnici, ma, tra di noi, non ci saremmo mai permessi di fare polemiche sui giornali. La contestazione non era ancora di moda».
L’Italia era andata in Brasile campione del mondo. Per gli italiani fu una grossa delusione.
«Ma non c’era più Vittorio Pozzo sulla panchina e non c’era più il Grande Torino. La squadra di Mazzola più Parola e il sottoscritto avrebbe stravinto anche in Brasile, dove doveva fare la riserva anche un fuoriclasse del calibro di Boniperti. Pozzo poi, parlando da alpino del Piave e della Patria, ci dava una carica entusiasmante. Negli spogliatoi, mentre ci consegnava la maglia azzurra, ci commuoveva sino alle lacrime. Quando esordii a Vienna nel ’47 entrai in campo come se dovessi andare a un assalto alla baionetta. Poi ne pigliammo cinque. Ma anche quando l’Austria vinceva per 5-0, mi sentivo un leone. Presi la palla dal portiere, Franzosi, attraversai tutto il compo e andai a segnare, così perdemmo per cinque a uno, cioè salvai l’onore. Ripeto: senza la tragedia di Superga non sarebbe andata a finire così in Brasile. Per me fu uno choc tremendo, perché dovevo far parte anch’io del Torino, Novo voleva in maglia granata tutti i migliori giocatori. Ma il Milan rifiutò di cedermi e io litigai pure col presidente Trabattoni. Quando il Torino andò a Lisbona per incontrare il Benfica, noi ci recammo in Spagna per un’amichevole con il Real Madrid e ci incontrammo all’aeroporto di Barcellona. Tutti, da capitan Mazzola ai giornalisti Casalbore e Tosatti mi dissero: dai che l’anno prossimo sei con noi. Dopo la partita, mentre eravamo al banchetto, arrivò la notizia che il Torino si era schiantato nel cielo di Superga. Quella mancata cessione mi aveva salvato la vita».