Portiere della nazionale USA ai Mondiali 1950, guidò la squadra a una storica vittoria contro l’Inghilterra, cambiando il suo destino e la storia del calcio americano.
Nato nell’aprile del 1925 in una St. Louis brulicante di immigrati italiani, Frank Borghi non era destinato a diventare un eroe sportivo perché la sua vita sembrava già tracciata: un futuro nell’impresa di pompe funebri di famiglia, trasportando i feretri per le strade della città. Ma il ragazzo aveva altri piani. “Non voglio fare il becchino per tutta la vita“, disse alla madre quando chiese un permesso di tre settimane per partecipare ai Mondiali del 1950 in Brasile. Una decisione che avrebbe cambiato non solo la sua vita, ma anche la storia del calcio.
Cresciuto nel quartiere di The Hill, una roccaforte italiana di St. Louis, Borghi respirava l’aria di una comunità che, pur integrandosi nel tessuto americano, manteneva vive le proprie radici. Questo background gli conferì una miscela unica di tenacia italoamericana e pragmatismo statunitense, caratteristiche che si sarebbero rivelate cruciali nel suo futuro sportivo.
Dalle trincee al campo da gioco
Fino al 1950 Borghi poteva già dire di aver vissuto una vita intensa. Partecipò alla Seconda Guerra Mondiale come membro dell’équipe medica dell’esercito statunitense. Non solo salvò vite, ma si trovò anche in prima linea durante lo sbarco in Normandia, un’esperienza che forgiò il suo carattere e la sua determinazione.
Le sue mani, che un giorno avrebbero respinto in un mondiale di calcio i tiri degli attaccanti inglesi, in guerra si dedicarono a soccorrere e a confortare soldati feriti. Un’esperienza che gli diede una prospettiva unica sulla vita e sulla morte, insegnandogli il valore della resilienza e del lavoro di squadra in condizioni estreme.
Tornato dalla guerra, Borghi cercò nel mondo dello sport una via d’uscita dalla routine delle pompe funebri. Il suo primo amore fu il baseball, dove giocò come ricevitore nelle leghe minori. Nel 1946, vestì la maglia dei Carthage Cardinals, sognando di raggiungere le Major League. Ma quelle mani grandi e quei riflessi pronti si sarebbero rivelati cruciali in un altro sport, uno che all’epoca era considerato marginale negli Stati Uniti: il calcio.
Un portiere atipico
Il passaggio di Borghi dal baseball al calcio fu quasi casuale. Cercando un modo per mantenersi in forma durante i mesi invernali, si avvicinò a questo sport “straniero”, poco compreso e spesso disprezzato in America. Ma Borghi intravide nel ruolo del portiere una naturale estensione delle sue abilità di ricevitore.
Con un approccio unico, si affidava quasi esclusivamente alle sue mani, evitando il più possibile l’uso dei piedi. Questa tecnica non ortodossa lo portò a distinguersi nel St. Louis Simpkins-Ford Club, una squadra semiprofessionistica che sarebbe diventata poi la base della nazionale statunitense per i Mondiali del 1950.
Il suo stile di gioco era un riflesso della sua formazione nel baseball: agile, reattivo, con un’innata capacità di leggere le traiettorie della palla. Borghi compensava la sua mancanza di tecnica calcistica con un’incredibile abilità nel posizionamento e nelle prese. I suoi compagni di squadra presto impararono a fidarsi di lui come ultima linea di difesa, sapendo che quelle mani che un tempo avevano salvato vite in guerra ora salvavano partite sul campo da calcio.
Viaggio verso l’improbabile
La partecipazione degli Stati Uniti ai Mondiali del 1950 sembrava poco più di una formalità. La squadra, assemblata frettolosamente e con una sola partita di preparazione, era data per spacciata ancor prima di mettere piede in Brasile. Le quote dei bookmaker la davano a 500 contro 1 per la vittoria del torneo, un’impresa considerata talmente improbabile da rasentare il ridicolo.
L’indifferenza del pubblico americano era tale che un solo giornalista, Dent McSkimming, si pagò di tasca propria il viaggio per seguire la squadra in Brasile. Nessuno, nemmeno tra i giocatori stessi, si aspettava qualcosa di più di una rapida eliminazione e forse qualche momento di dignitosa resistenza.
La squadra americana era un miscuglio eclettico di giocatori semiprofessionisti. Oltre a Borghi, c’erano i suoi compagni di squadra del St. Louis Simpkins-Ford: Pariani, Frank ‘Pee Wee‘ Wallace e Charlie Colombo, soprannominato ‘The Gloves‘ perché giocava con i guanti. Questi “Italian Boys” formavano il nucleo di una squadra che aveva più cuore che tecnica, più determinazione che tattica.
La vigilia del miracolo
Arrivati in Brasile, gli americani si trovarono catapultati in un mondo calcistico che sembrava appartenere a un’altra galassia. Le grandi squadre sudamericane ed europee li guardavano con un misto di curiosità e condiscendenza. La prima partita contro la Spagna si concluse con una sconfitta per 3-1, un risultato che, paradossalmente, fu visto come incoraggiante, considerando le aspettative iniziali.
Ma era la partita successiva che avrebbe cambiato tutto. L’avversario era l’Inghilterra, la patria del calcio, alla sua prima partecipazione a un Mondiale. Gli inglesi si presentavano con un record impressionante: dal 1945, avevano collezionato 23 vittorie, 4 sconfitte e 3 pareggi. Erano così sicuri della vittoria che avevano persino lasciato in panchina il loro asso Stanley Matthews, risparmiandolo per partite che credevano più impegnative.
La notte prima della partita, Borghi e i suoi compagni di squadra si riunirono nella loro modesta stanza d’albergo. Non c’erano grandi discorsi motivazionali o strategie elaborate. C’era solo la consapevolezza di essere sul punto di affrontare una delle squadre più forti del mondo. “Pensavo che avremmo preso 5 o 6 gol“, avrebbe ricordato Borghi anni dopo. Ma in quella stanza, tra quei giocatori sottovalutati, nacque una determinazione silenziosa che avrebbe scosso il mondo del calcio.
L’impresa del secolo
29 giugno 1950, Belo Horizonte: sono il giorno e il luogo di una partita che sarebbe entrata nella leggenda. Lo stadio Independência ospitava poco più di 10.000 spettatori, la maggior parte dei quali brasiliani curiosi di vedere all’opera i maestri inglesi. Nessuno prestava molta attenzione a quegli americani in maglia bianca, con Borghi che si preparava tra i pali.
Fin dal fischio d’inizio, fu chiaro che gli inglesi avrebbero dominato il gioco. L’attaccante Roy Bentley, stella del Chelsea, guidava un assalto dopo l’altro verso la porta americana. Ma Borghi sembrava posseduto da uno spirito sovrannaturale. Le sue mani respingevano ogni tiro, il suo posizionamento era impeccabile. E quando non ci arrivava lui, ci pensavano i pali a salvare gli Stati Uniti.
Minuto dopo minuto, la frustrazione inglese cresceva. La squadra che si aspettava di segnare a raffica si trovava incredibilmente bloccata da un portiere che nella vita di tutti i giorni guidava carri funebri. E poi, al 37° minuto, accadde l’incredibile: in una delle rare sortite offensive americane, Joe Gaetjens, un attaccante haitiano che per vivere faceva il lavapiatti, deviò in rete un tiro di Walter Bahr. 1-0 per gli Stati Uniti.
Il secondo tempo fu un assedio alla porta di Borghi. L’Inghilterra attaccava con furia crescente, incredula di trovarsi in svantaggio contro quella che considerava poco più di una squadra amatoriale. Ma Borghi e i suoi compagni resistettero con ogni mezzo. Placcaggi da rugby, difesa disperata e le parate miracolose del portiere italo americano tennero a bada l’assalto inglese.
Ogni minuto che passava sembrava un’eternità. Il portiere volava da un palo all’altro, respingendo tiri, uscendo sui cross, dirigendo la sua difesa con la voce rotta dalla fatica e dall’emozione. I suoi compagni di squadra lottavano come leoni, gettandosi su ogni pallone con la disperazione di chi sa di essere sul punto di compiere l’impossibile.
Quando l’arbitro fischiò la fine, gli spettatori, per lo più brasiliani, invasero il campo portando in trionfo quei giocatori semisconosciuti che avevano compiuto l’impossibile. L’Inghilterra era fuori dal Mondiale, sconfitta da un gruppo di dilettanti guidati da un becchino part-time.
La notizia fu talmente incredibile che molti giornali inglesi, pensando a un errore di trasmissione, pubblicarono il risultato di 10-1 per l’Inghilterra. La realtà, però, era ben diversa: Borghi e i suoi compagni avevano scritto una delle pagine più sorprendenti della storia del calcio.
Negli Stati Uniti, la notizia fu accolta con una miscela di sorpresa e indifferenza. Il calcio era ancora uno sport marginale, e molti americani faticavano a comprendere la portata dell’impresa. Tuttavia, per quei pochi appassionati, quella vittoria rappresentava un momento di orgoglio nazionale, la prova che gli Stati Uniti potevano competere anche in uno sport dominato da altre nazioni.
Il ritorno alla normalità
Nonostante la successiva sconfitta per 5-0 contro il Cile, che pose fine all’avventura americana ai Mondiali, l’impresa contro l’Inghilterra rimase nella memoria collettiva come uno dei più grandi upset nella storia dello sport.
Tornato negli Stati Uniti, Borghi riprese la sua vita normale. Continuò a giocare fino al 1954, collezionando in totale nove presenze con la nazionale. Ma quel pomeriggio in Brasile lo aveva consegnato all’immortalità sportiva.
Alla fine, il portiere italo americano tornò all’impresa di pompe funebri che aveva cercato di evitare da giovane. Ma lo fece da eroe, da uomo che aveva realizzato il sogno di ogni atleta: lasciare un segno nella storia. Fino alla sua morte nel 2015, Borghi portò con sé il ricordo di quel giorno a Belo Horizonte, un momento di gloria che aveva cambiato non solo la sua vita, ma anche la percezione del calcio negli Stati Uniti.
La sua storia fu immortalata nel film “The Game of Their Lives” del 2005, con Gerard Butler nel ruolo del portiere-becchino, regalando così la sua impresa a una nuova generazione di appassionati.