Il Football e la Prima Guerra Mondiale

La maggioranza dei combattenti italiani era composta da contadini, dai giovani dell’Italia rurale che era rimasta del tutto estranea al mondo del calcio. La trincea tenne a balia i primi vagiti della cultura di massa, da cui il calcio trasse un incalcolabile beneficio


Lo scoppio delle ostilità che il 28 luglio 1914 vide schierati gli imperi centrali contro la Francia, la Gran Bretagna e l’impero russo gettò riflessi minacciosi sul mondo dello sport. E non tanto perché la guerra travolgeva i principi dell’internazionalismo sportivo: l’ombra della bandiera olimpica non aveva attenuato le tensioni esplose in seno al CIO alla vigilia del conflitto; ma perché l’inizio delle ostilità colpiva lo sport nel suo stesso tessuto generazionale.

Ci si trovò allora per la prima volta nella storia di fronte a una guerra che gettava nella sua macchina di morte intere generazioni. Le mobilitazioni generali, che sottraevano alla vita civile le fasce più giovani della popolazione, avevano determinato la sospensione delle competizioni di football in gran parte dei paesi in guerra: in Germania, in Inghilterra, in Ungheria, in Boemia. Solo nei territori austriaci dell’impero asburgico si continuò a giocare. In Francia e in Russia non si disputava ancora il campionato federale.

Paradossalmente, se la guerra aveva sospeso il calcio al di qua dei fronti di battaglia, era la stessa guerra a produrre forme nuove di vitalità sportiva. Le vecchie patrie del football non furono del tutto sommerse dal conflitto. Il calcio sopravvisse tenacemente tra i soldati degli imperi centrali, schierati sui fronti più lontani, mentre sul versante opposto le autorità militari britanniche incoraggiarono il football e il rugby, praticati nelle retrovie e persino sulla stessa linea di battaglia del fronte francese.
Il football fu un motivo insistente nella propaganda di guerra britannica. «Giocate il grande gioco, e arruolatevi nel battaglione Football»: si leggeva in un manifesto inglese di arruolamento.

Il football continuava intanto il suo processo di crescita nei paesi neutrali e in particolare nell’America Latina. Il Brasile, l’Argentina e l’Uruguay videro moltiplicarsi i loro club e si resero per tecnica e per concezione di gioco del tutto indipendenti dalla matrice britannica. Nel 1916 venne fondata la Confederación Sudamericana de Fútbal e si disputò il primo campionato tra Uruguay, Argentina, Brasile e Cile.

Lo sport di guerra riceveva un nuovo impulso dopo l’intervento degli Stati Uniti. Gli americani nel 1917 inviarono i loro corpi di istruttori sportivi al seguito delle truppe e in quell’occasione gli yankees portarono per la prima volta in Europa il baseball, largamente praticato dai soldati USA in Francia.

La guerra diede in Italia un colpo definitivo alla roccaforte delle concezioni nazionalistiche della cultura fisica. La ginnastica, fino ad allora legittimata dalle finalità militari, faceva posto al ciclismo e all’automobilismo di guerra, al cimento dell’impresa aeronautica, mentre i giochi sportivi soprattutto dopo la svolta nella condotta psicologica della guerra, seguita alla rotta di Caporetto si affermavano tra le pratiche ricreative di guerra.

Dal 1917 non fu infrequente vedere le autorità militari italiane spianare i terreni delle zone di operazione per la costruzione di campi da gioco. Persino tra i soldati italiani prigionieri in Germania la passione sportiva non si spense. Nel campo di Mathausen si erano costituiti nell’estate 1917 numerosi club di football. Ciò non significa che i riflessi della guerra risparmiarono il calcio italiano.

Il sacrificio dei caduti decimò gli effettivi delle società sportive: nei soli primi tre mesi di guerra morirono 27 giocatori; durante il conflitto il Milan perse 12 dei suoi uomini tra calciatori e dirigenti; l’Internazionale commemorava alla fine della guerra i suoi 26 morti. Più della metà dei giocatori dell’Udinese e dell’Hellas di Verona non fece ritorno. La Juventus perse in guerra il suo primo presidente: Enrico Canfari. Non vi fu squadra di calcio che non ebbe i suoi caduti, ai quali risalgono molti dei nomi degli stadi italiani.

Ciò nonostante, gli anni della guerra non videro la cessazione completa delle attività sportive nella penisola. Interrotto il massimo campionato di calcio, esso fu sostituito dalle coppe regionali, mentre si svolsero regolarmente i tornei minori. A Torino, nel 1915, nacque il primo periodico italiano di club: «Hurrà!», come baldanzoso grido di guerra dei supporters della Juventus. Significativo che il 28 ottobre 1917, quando erano passati appena quattro giorni dalla rotta di Caporetto e il paese attraversava i momenti più tragici del conflitto, si giocasse a Milano tra il Milan e l’Unione Sportiva Milanese una partita valida per la Coppa Mauro e nello stesso giorno si disputassero nella penisola altri dodici incontri dei campionati minori.

Si trattava, come si è detto, delle coppe regionali, a cui si aggiungevano i campionati di terza categoria. Da Torino a Messina a Foggia, negli anni della guerra, 55 piccoli sodalizi si unirono ai maggiori nello svolgimento di intense stagioni calcistiche. Una manifestazione come la Coppa Albini, promossa nel 1917 tra le società milanesi non federate, raccolse l’adesione di dieci club, che schierarono in campo duecento giocatori, così come furono numerosi gli incontri che a Torino diedero vita nel novembre 1917 al torneo Don Bosco. Si trattava di squadre di calciatori che non avevano più di 16-17 anni: l’ultima classe chiamata alle armi nel 1917 fu quella dei nati nel 1900.

Questo lievitare di giovanissime promesse fu forse il maggiore beneficio che il calcio italiano trasse dalla sventura della guerra. Beninteso, non tutto il calcio di guerra fu storia di ragazzi. Furono numerose le partite tra le formazioni dei diversi corpi militari, né mancarono gli incontri tra squadre dei paesi alleati.

Nel marzo 1918 una rappresentativa di giocatori azzurri in servizio presso il XX autoparco di Modena incontrò una squadra di militari belgi guidati dal capitano Louis Van Haege, ex giocatore del Milan, che un referendum del 1911 aveva giudicato il miglior giocatore in Italia.
Fu uno dei pochi pionieri internazionali del calcio rivisti sui nostri campi; gli altri erano tornati nelle loro patrie agli inizi delle ostilità e molti di essi perirono in guerra. James R. Spensley, il fondatore del calcio genovese, ferito a La Bessée, era morto il 10 novembre 1915 nell’ospedale di Magonza.

L’incontro tra giovani di diverse culture e sensibilità, costretti a condividere un’esperienza di morte, aveva intanto favorito un più rapido diffondersi di abitudini e di linguaggi fino ad allora rimasti esclusivi di alcune aree geografiche o sociali. Si pensi che la maggioranza dei combattenti italiani era composta da contadini, dai giovani dell’Italia rurale che era rimasta del tutto estranea al mondo del calcio. La trincea tenne a balia i primi vagiti della cultura di massa, da cui il calcio trasse un incalcolabile beneficio.

Fonte: A. PAPA, G. PANICO – Storia sociale del calcio in Italia


DALLE ANDE AL CARSO
Un racconto di Dario Voltolini

Anno 1914. In Europa cominciano gli ultimi giorni dell’umanità, per dirla con Kraus. La Guerra. Comincia a sfigurarsi il volto già grottesco del nostro continente, comincia a prendere quel ghigno terribile che farà del Novecento un secolo di orrori. Il volto orrendo dell’Europa, e del Mondo, che ancora oggi latra dietro gli angoli, cova nella cenere, digrigna i denti sui confini. Ma il Toro intanto è in Brasile, in tournée dall’altra parte dell’oceano e l’Italia non è ancora in guerra. Affronta l’Internacional il 9 settembre. Sei pere, brasiliani al mittente. Poi è la volta di una specie di Nazionale o Selezione brasiliana, ma data la scissione tra legalitari e ribelli va considerata come una squadra non del tutto rappresentativa. In ogni caso il Toro vince per 5 a 1. Non contenti, quelli chiedono la rivincita. Toro 7, Selezione 1.

A San Paolo c’è una colonia portoghese. Hanno una squadra di calcio, si chiama Lusitano. Contro i granata non segnano, in compenso he prendono solo tre. Ora tocca al Corinthias, nato due anni prima. Dalle Ande al Carso Stessa cosa, tre griglie a zero. Incauti anche loro chiedono la rivincita. Gli va meglio. Perdono per 2 a 1. Il calcio brasihano: in realtà non esiste ancora. Comincerà a esistere, come noi lo conosciamo – e fortemente amiamo – solo nel 1917. Capiterà questo, che negri, meticci, mulatti, caffè, cacao, caramello, terracotta, rame, bronzo, catrame e altre varietà di vita vivente faranno il loro ingresso in campo. La palla, chi la vedrà più?

Nomi granata: Morando, Capra, Backmann, Valombra, Peterlì, Lovati, De Bernardi, Mosso I, Mosso III, Tommaselli, Tirone, Arione II, Arione III. La squadra era laggiù con Pozzo. La squadra è ora che torni in Patria. Ma non può farlo, c’è la Guerra. Resta un po’ in Sudamerica, scende fino in Argentina, per giocare. L’assurdo è che stanno aspettando che la Guerra finisca, mentre invece il macello è appena cominciato. Quando riescono a imbarcarsi, sul «Duca degli Abruzzi», e a partire per il viaggio di ritorno, devono fare tutto in fretta. C’è quell’imbarco. Prendere o lasciare. Prendono, partono. Destinazione Genova.

Ma i mari sono intanto solcati dalle navi da guerra, i rapporti internazionali sono impazziti. Gli inglesi stanno dando la caccia ai tedeschi. Fermano in mare il «Duca degli Abruzzi», il viaggio di ritorno comincia a complicarsi, come Omero ha stabilito una volta per tutte per la cultura occidentale. Gli inglesi arrestano i riservisti tedeschi. Il viaggio riprende. Ora, mettiamoci nei panni degli atleti granata. Viaggiano nell’oceano, non vedono che mare, mare e orizzonte. Il cielo che si schiarisce, il sole, il cielo che imbrunisce. E poi di nuovo, fino a quando un giorno laggiù tremolano nell’aria le sagome di una costa, la terraferma.

E ancora mare e l’acqua dell’oceano si scalda e diventa l’acqua del Mediterraneo, cambiano i colori, i giorni sono passati e all’altro capo della linea immaginaria che parte dalla prua e si tende in avanti, là in fondo, là c’è dovrebbe esserci – il porto di Genova. Gli odori di Genova, il salmastro che satura l’aria carica di basilico così profumato da coprire l’aglio con cui domare l’afrore del pesce che sa di salmastro. La giostra degli odori di Genova quando il vento che cozza sulle colline resta fermo per un breve minuto, a terra, stordito.

E l’immagine si avvicina, diventa nitida e grande. Si vedono i moli, le altre imbarcazioni ferme nel porto. Il «Duca degli Abruzzi» comincia quelle manovre che sembrano mosse di un gioco, quegli scodinzolamenti che le navi fanno quando arrivano al porto dopo la traversata, sembrano cani davanti al padrone, ma le riprese sono al rallentatore. Altri dettagli appaiono via via più nitidamente. Movimento nel porto. Da lontano non si vede, da qui invece cominciamo a scorgere addirittura alcune figure umane, persone che si muovono. Il porto è in realtà un organismo brulicante: dal largo non si vede, sembra solo un luogo naturale, una situazione geografica. Guarda invece che vita, guarda come la terraferma non è per niente ferma e si muove sull’acqua. Guarda la schiuma bianca lasciata dalla nave.

C’è gente sul molo dove il «Duca degli Abruzzi» va ad attraccare. Una folla di persone. E’ tutto un muoversi di colori. La cosa che sempre sorprende chi arriva dal mare è il suono che la terra fa e che si sente a un certo punto, non prima. Capita allora che ci si accorga di essere animali di terra, perché tutto ritorna come prima di imbarcarsi, tutto il mondo, facendo rumore, reclama la nostra presenza. Il mare, che faceva il suo verso respirando regolare, viene cancellato: urla, fischi, nomi gridati, voci. Siamo a casa. Sul molo ci sono i parenti, come a casa. Sventolano fazzoletti colorati. Sembrano fazzoletti, no? Guarda che festa, guarda che allegria. Sono fazzoletti, vero? Si fa così, quando si parte e quando si ritorna. Nel primo caso con gesti languidi e mesti, in silenzio. Nel secondo caso urlando e saltando e dimenandosi. Sono più adeguati al ritorno, i fazzoletti colorati. Per le partenze va meglio il bianco, il grigio, il gesto del polso, non di tutto il corpo.

Ma quelli sono fazzoletti? Il «Duca degli Abruzzi» si svuota. Le navi si svuotano in modo diverso dai treni, o degli autobus, o degli aerei. Si svuotano con sollievo: la linea dell’acqua restituisce più fiancata all’aria. La nave si sente leggera. Però. Tutto quel vociare sul molo non è più così allegro. Non erano fazzoletti. Erano le cartoline di richiamo alle armi. Ricorda Pozzo: «Verdi per gli alpini, granata per i bersaglieri, gialli per gli artiglieri». La Guerra incombe. Lo sport, che è il risultato preziosissimo di un processo inelligente, superiore, alto e raffinato di riscrittura simbolica delle passioni d’aggressione, soccombe contro il suo nemico principale, la Guerra. cioè il trionfo della bestia, il desiderio di uccidere, che è il desiderio di morire. Mentre lo sport, lo sport è piacere.