“È diventato il campionato più bello del mondo? No, lo è ritornato, come già era ai tempi di Nordhal, Liedholm, Wilkes, Nyers, gli Hansen, Martino, Praest. Noi della Juve siamo pronti, ma la concorrenza è terribile. E soprattutto…”
LA FIGURA DI BONIPERTI è stata tratteggiata mille volte in modo enfatico e ridondante, quando, addirittura, non se n’è approfittato per farne il simbolo di un sistema patronale che vieterebbe libera espressione o nella migliore delle ipotesi la condizionerebbe. Boniperti, in funzione di figura secondaria, anche se investita di poteri decisionali, se non altro sul piano tecnico e perfino su quello finanziario. Secondo me, il giornalismo sportivo traversa un momen-taccio in concomitanza agli arrivi stipati e frettolosi nella stazione centrale formativa del cronista, che non si può improvvisare; e noi dell’altra generazione sappiamo quel che ci è costato imparare il mestiere.
È diventato tutto tremendamente facile e molti scrivani (!?) d’oggidì, i quali si spartiscono la giornata tra lavoro giornalistico e lavoro effettivo, non so, impiegati municipali, bidelli, parrucchieri, tassisti e così via, ignorano spesso la storia del calcio nostro, che fu scritta anche da fior di cronisti negli anni antichi, su queste colonne da cui ho l’onore di scrivere, da campionissimi come Carlin, Slawitz, Brera, Rognoni, Biancardi, e in ultimo un Cucci prima di Bortolotti, i quali arrivarono alla pagina scritta in mezzo a fatiche e sofferenze di apprendistato. Non si trattava di virgolettare, ma di scrivere; bisognava sapere di sport; anche un Emilio Colombo sapeva di sport; per non dire, poi, un Bruno Roghi o un Emilio De Martino nei giorni che volgevano tumultuosamente verso la guerra. E proprio negli anni dopo il conflitto, che così tanto doveva segnare il modo di vivere e di pensare, cominciandosi e sventrare l’Italia, facendone un cantiere immane di autostrade e di grattacieli nell’inseguimento del mito America (ahimé le linee ferrate rimanevano sempre le stesse e ce ne accorgiamo oggi negli anni ottanta), spuntò il biondo alfiere della Juventus: Giampiero Boniperti di Barengo. Esordì quell’inverno del ’47 con una sconfitta casalinga; era un centravanti dal piede relativamente piccolo, ne abbiamo parlato recentemente per le strade di New York; aveva enorme facilità di calcio al volo e cominciò a segnare un sacco di gol. Dovevano essere 177 dopo 444 partite in serie A con la «sua» Juventus.
L’ALFIERE. Sono stato io stesso a sollecitare questo articolo al direttore, che giustamente l’ha approvato; e l’avverbio è usato per tutte le riflessioni che gli sono costate, di fare, cioè, del presidente della Juventus, l’alfiere contemporaneo del calcio. Un lungo tragitto, percorso pressoché in solitudine, non fidandosi di nessuno, lottando come un manager contro le insidie dell’ambiente che favorisce nettamente ogni forma di furboni e furbetti e la buona fede, il lealismo, il sentimentalismo, l’integrità, considera freddamente e cinicamente qualità negative.
È stato Umberto Agnelli, a New York, stadio dei Giganti, a definire ufficialmente Boniperti il presidente «ideale» della storia della Juventus, proprio lui, il figlio di Edoardo vincitore di cinque scudetti prima che il suo stesso amore per lo sport lo sottraesse prematuramente alla famiglia, con la testa scoperchiata da una elica di monoplano nella diga foranea di Genova dove ammarava insieme al suo idolo Arturo Ferrarin. Lo sport è male di famiglia, famiglia Agnelli.
Gianni l’avvocato è stato il presidente che ha riportato la Juventus ai fastigi attuali, acquistando, subito dopo quella accecante fiammata di Superga, John Hansen e Praest e ricostituendo una Juve imbattibile.
Umberto è stato il più giovane presidente della Juventus, in giorni socialmente tormentati recuperando la squadra suo amato bene alla gloria assoluta, con Sivori e Charles e dando prova di equilibrio politico-sportivo anche come presidente della Juventus. Personalmente, considero Umberto Agnelli meno umorale e più competente di Gianni; che ha tanta fantasia e resta fin troppo colpito dai singoli fuoriclasse. E la Juve ne ha avuti tanti. Ma io qui scrivo che il suo fuoriclasse più grande è stato Boniperti.
POCHI AMICI. Dico come dirigente, precisa emanazione del calciatore che era. Juventino, perciò ed in certo modo aspro, quasi inaccostabile, diffidente per principio di tutto e di tutti, sorridente a salvadanaio ma in fondo incapace di gesti spontanei. Egli è lastricato di calcio, direi perfino il sorriso. Ha pochi amici tra i giornalisti, che non ha mai amato. Diffida dei giornalisti assai più di se stesso. Cura infatti se stesso, al punto che non s’è più mescolato alla truppa dei calciatori, per quanto a New York lo abbia visto scendere in campo e allenarsi facendo muro per oltre mezz’ora: «Me l’ha insegnato Mazzola» mi gridava, cioè il padre di Sandro, l’imbattibile sulfureo navigatore dei campi e della vita, inviso a Pierone Rava, Valentino Mazzola. Che uomo sia Boniperti non è facile spiegare, il dirigente di calcio della Juventus nella sua storia è stato due persone, nessuno dei due protagonisti, se ci pensate bene, nemmeno Boniperti lo è o lo vuole essere.
La prima di queste due persone fu Giovanni Mazzonis, che non era nobile, ma si faceva chiamare conte (l’altra, il presidente Edoardo Agnelli). Quella era la Juve dei maggiordomi in guanti bianchi nella patrizia sede di piazza San Carlo; ed era la Juventus emblema del successo sociale; che a Muno Orsi, primo divo juventino, corrispondeva otto mila lire al mese e una auto Fiat, nonché una villa principesca e un maggiordomo. Sì dirà: altri giorni. Sicuro.
La Carta di Viareggio non definiva chiaramente i confini tra professionista e dilettante del gioco del calcio.
Il fuoriclassse veniva pagato ad libitum dal mecenate. E doveva essere proprio Gianni Agnelli ad intuire la svolta storica alla fine degli anni 60; lui decideva di richiamare Boniperti dopo un certo periodo formativo e di affidargli la società, rimandando l’umile e indecifrabile Giordanetti, uomo tuttavia onesto e fedele, a compiti secondari. L’apprendistato di «Boni» era stato anche duro. Aveva sbagliato alcuni acquisti; tra gli altri, quello di Nené preso come centravanti; e dello stesso Miranda; ma rientrava ambiguosamente, avvolto di tutto il suo mistero, come calciatore gli avevano affibbiato nomignoli anche ingiuriosi, lui che aveva sposato una creatura stupenda, una ragazza meravigliosa, di quelle che danno un senso a tutta la vita. Boniperti subentrava a Giordanetti in momenti di caduta della squadra; il caballero appassionato Carniglia aveva fatto ridere tutta l’Italia.
IL GRUPPO. «È difficile – dice oggi Boniperti – parlare del mio lavoro alla Juventus. Preferisco che siate voi a parlarne, voi giornalisti in buona fede, tu ad esempio. Io ho subito impostato i problemi secondo idee precise. Ho creato un gruppo, dal 1971 quando sono diventato presidente ad oggi, questo gruppo è rimasto compatto, salvo ringiovanirsi e potenziarsi come dettano i tempi. Abbiamo il medico a tempo pieno, credo che sia una delle poche società italiane ad averlo e se ne vedono i frutti positivi. Ma soprattutto collettivo in tutti i sensi e meglio ancora l’asso al servizio del collettivo».
Fu fin dal periodo da amministratore delegato, ancora nel ’70, che Boniperti lesse il suo proclama e cioè che la sua Juventus abdicava agli schemi del passato, per cui anche un Causio doveva aderire in pieno allo spirito cooperativistico.
La svolta delle società per azioni era destinata ad essere fumo, ma la Juventus da Catella a Boniperti cambiava drasticamente; da una parte, l’oratore piacevolmente dannunziano o gozzaniano, dall’altra, il manager passionale ma logico, tifoso dei colori ma incredibilmente neutro in tutti i rapporti di lavoro, convinto che una società funziona quando uno solo comanda, e pochi altri obbediscono.
Fin dal suo apparire come manager-presidente, Boniperti forgiava questa società modello dei tempi nuovi, con un organigramma essenziale: il presidente, il direttore generale, il medico, l’allenatore, il segretario amministrativo.
Uomini che tutti conoscono. Pietro Giuliano, fatto perfino a somiglianza di Boniperti, appena un po’ più cordiale; Francesco La Neve, lanciato giovanissimo nell’avventura come medico sportivo a tempo pieno (il primo d’Italia); disavventure ed anche tragedie tolsero ad Armando Picchi il bastone del comando; attraverso il fidato Vycpalek e il cavallo di ritorno Parola, si doveva arrivare all’allenatore ideale, cioè a Trapattoni; e la scelta del segretario amministrativo doveva precedere quella del direttore sportivo; cioè il bancario Sergio Secco, affilato messere che ha l’hobby della montagna oltre a quello dei numeri, e Ciccio Morini l’ex stopper che come direttore sportivo per moltissimi motivi, giustamente, è stato preferito al più popolare, un po’ mefistofelico José Altafini.
TERRIBILE. Boniperti è un dirigente terribile; l’aggettivo vuol rappresentare le sue virtù di dirigente che sono eccelse. E un uomo nato nel calcio, stratificato di calcio. Mi rivedo con lui a Catanzaro, dopo quello scudetto strappato all’ultima giornata alla concorrenza di una fierissima Fiorentina; l’ex presidente del Catanzaro di nome Merlo si era presentato agli ingressi inalberando una cravatta viola; e ai suoi giocatori aveva tenuto un fiero discorso spronandoli a fargli dono esclusivo e personale di quel successo. Vinse la Juventus, giocando una partita autoctona, come i bianconeri sono abituati a giocare, oggi con Scirea capitano come ieri con Furino capitano; una partita autoctona, da professionisti che non si fanno illusioni e per i quali la Juventus è tutto. Se un Platini e un Boniek sono stati assorbiti è perché il nucleo respira questo clima; Scirea è il seguito di Furino e la testimonianza del buon lavoro di Boniperti.
Boniperti non si fida di nessuno. Viaggiamo per New York nell’auto di un singolare cronista statunitense che è di origini greche; Giampiero si lascia andare a molte confidenze; alcune figurano in questo articolo; ma non ci dice che Paolo Rossi aveva già firmato perché attendeva di dirlo a «tutti» i cronisti, senza parzialità.
La Juve si è preparata a questo campionato «anche» con questa tournée americana, per motivi di scaramanzia, perché Boniperti è superstizioso in modo esagerato, nonché cattolico. Io sapevo di trovarlo alla mattina nella chiesa vicina all’albergo dove alloggiava la squadra e immancabilmente ce lo trovavo. Cattolico, apostolico, romano, come un italiano di tempi andati ormai raminghi; nemmeno le città di allora esistono più; ma Boniperti è contadino; è tradizionale; non cambia mai; ha pochi amici; diffida dell’ombra sua; gli piace parlare di calcio, ma non ufficialmente.
L’INTER FA PAURA. Se poi lo fa, in questi giorni in cui il campionato più spettacolare forse della sua storia a girone unico rinasce, con i più forti stranieri del mazzo, lo fa con queste testuali parole;
«Noi come Juventus siamo pronti, lo abbiamo dimostrato. Anche le amichevoli e la Coppa Italia ci incoraggiano a sperare in risultati all’altezza della tradizione. Io direi che abbiamo coperto bene tutti i ruoli, Favero e Pioli, di questo ragazzo sentirete tutti parlare, tu l’hai paragonato a Giaroli che è stato un grande terzino e hai fatto bene, provvedono ai reparti arretrati; poi un gran cursore come Limido; e poi Briaschi. Le nostre scelte sono sempre ispirate dal tecnico e tu sai quanta fiducia abbiamo tutti noi nel lavoro e nella serietà di Trapattoni».
– Ma davvero Giampiero le altre squadre si sono potenziate? O non è tutto fumo d’estate?
«Altro che fumo! Si sono potenziate, oggi il nostro campionato è davvero il più bello del mondo. Cioè lo è tornato, perché ai miei tempi di giocatore lo era già, tu ricordi, hai pochi anni meno di me, i giorni di Nordhal, Liedholm, Wilkes, Nyers, i nostri John Hansen, Praest, Karl Hansen, Martino; e poi Soerensen, è praticamente un ritorno al passato. Agli italiani piace il bel calcio».
– Per la Juve sarà dunque più dura rivincere lo scudetto?
«È sempre dura, ogni scudetto è tanto lavoro, tanta sofferenza, soprattutto per me. Io non ho mai scelto uno scudetto ad un altro. Ne ho vinti parecchi, sia da giocatore che da presidente».
– Cinque da giocatore e otto da presidente, così che Umberto Agnelli ti definisce il presidente ideale della Juventus. Ma il punto non è parlare del passato ma del futuro, cioè del prossimo scudetto.
«Il campionato si è fatto più incerto. Ma la squadra lo sa. Siamo pronti».
– Quale squadra si è veramente potenziata?
«Sono diverse, nelle bocche di tutti. Inter, Fiorentina, Verona e Napoli, ma io dico che la coppia di stranieri che più fa paura è quella dell’Inter, cioè Brady-Rummenigge…».
– Perché?
«Perché Brady lo conosco bene, ha tanto orgoglio… E perché il tedesco non lo scopro io, è un fenomeno».
JULINHO E PLATINI. Così parla Boniperti, esaminando il campionato che va a cominciare, zeppo di interrogativi e di fascino. E dice tante altre cose, in relazione alla classe che nel suo concetto è connubio di stile e rendimento, per cui elegge Platini tra i campioni più straordinari mai visti giocare, anche se non si sente di formulare una squadra ideale, come io domandavo.
Dice testualmente: «Sia da giocatore che poi da dirigente ho visto tanti campionissimi. I giornali hanno le loro esigenze, ma noi dirigenti dobbiamo sforzarci di essere equilibrati in ogni risposta, parlando meno che si può. Io, come sai. concedo poche interviste. Non amo chiacchierare. E poi, come farei a darti gli undici migliori della mia vita? Per necessità di cose, per motivi anche affettivi, dovrei inserire taluni giocatori e tralasciarne altri. Ma io ti dico che uno Julinho è tra i più grandi fuoriclasse che ho mai visto giocare, solo che i mass media negli anni cinquanta non funzionavano bene come funzionano oggi. E allora? Preferisco non fare nomi. Ma tu insisti e ti dirò quel che penso di Platini. È un fenomeno. Michel sa fare tutto in modo perfetto. Sa fare il gol e sa fare l’assist. Tu dici che non ha continuità, che ha bisogno di pause, ma quale asso non ha avuto bisogno di pause, nessuno escluso? Platini segna anche di testa come ho visto fare a pochi. Quel suo gol al Torino nel derby l’anno scorso l’ho visto fare a pochissimi, per non dire ad uno solo… spero che insieme a Boniek e al gruppo ci regali finalmente la Coppa Campioni».
IL FUTURO. Tutti sanno che Boniperti considera Valentino Mazzola il più grande asso mai avuto dai calcio italiano. Nella nicchia di nostalgie e di sentimenti che è il cuore di questo piemontese dagli occhi chiari, così amico degli umili e così diffidente con i supponenti e i teorici, c’è posto per tante cose; il cuore di un uomo è insondabile come l’oceano.
Tanto più nel caso di un prototipo che ha costruito la sua vita in modo rettilineo, senza quasi mai sgarrare, la gioia della famiglia ed il sentimento della fede, l’amore per la stessa donna, la ripetizione di gesti fatti mille volte.
Boniperti è anche una gran bella famiglia, lungamente attesa, due maschi e una femmina; qualcuno opina che il regno dei campioni-manager stia per finire ora che i Pellegrini e Farina sembrano oscurare i Mazzola e Rivera e che nuovi assi stranieri intervengono a modificare piani e prospettive. Ma per me il problema è sempre quello di registrare una società nel respiro dei tempi, nel rispetto del pubblico, risparmiando e non dilapidando. Il calcio nostro è stato sempre ammalato di elefantiasi, oggi più che ieri. E non so proprio predire il futuro di chi è subentrato a fior di galantuomini con idee più moderne e portafogli imbottito.
La Juventus rimane la società modello di un paese che in troppe cose non lo è; forse perché nel suo andare rettilineo non ha mai inseguito vacue chimere. Negli Anni Trenta, Giovanni Mazzonis che si fingeva conte era modernista come lo è Boniperti oggi e personalmente non gli vedo eredi; a meno di voler stracciare il progresso come si fa con la carta straccia. E gli Agnelli amano la Juventus come la pupilla dei loro occhi…