GIORGIO CHINAGLIA – maggio 1975

Chinaglia praticamente “padrone” della Lazio. Ecco come il boss, che partirà poi per l’America e i Cosmos, traccia le sue linee guida…

Intervista Guerin Sportivo maggio 1975

ROMA – «Chinaglia parla troppo». «Chinaglia mette in ridicolo la società». «Chinaglia insulta i dirigenti e dà un cattivo esempio».
Chinaglia, sempre Chinaglia, non c’è che lui e che parli molto non c’è dubbio, ma che sbagli nel farlo è da dimostrare. E chi lo censura, non lo ha certo dimostrato. Eppure Giorgio ha ancora molto da dire, basta prendere il discorso da lontano, portarlo docilmente ad affrontare alcuni argomenti che ha sì investito con fermezza, ma con troppa fretta.

— Se non ti agiti tu — gli diciamo — per la Lazio sono guai. C’è il pericolo dell’immobilismo ed è un grosso pericolo.
Chinaglia annuisce sbirciando il suo «maggiolino» giallo, con motore riveduto e corretto da un meccanico suo amico: «Ma c’è poco da aggiungere…», dice quasi tra sé. Però è il primo a non esserne convinto e lo si intuisce chiaramente.

Non è vero — insistiamo — ci sono da aggiungere molte cose. Ad esempio è vero che il presidente Lenzini ti ha garantito che non lascerai mai la Lazio e ti ha confidato, in segreto, che gli hai reso un gran servizio togliendo la maschera ai dirigenti che non cacciano una lira?
«E’ vero solo in parte. Cominciamo dalla garanzia di restare alla Lazio. Ebbene, su questo punto non ci sono alternative ed il presidente, che lo ha sempre saputo, ne ha di nuovo preso atto. Io non sono un burattino e se ho detto che per nessun motivo al mondo accetterei il trasferimento, si sa che lo farei per davvero. Tra l’altro, non sarebbe la fine del mondo perché la vita continuerebbe. Dice: ma tu rinunceresti a guadagnare centinaia di milioni per capriccio? Rispondo: non è un capriccio, ma la difesa della mia dignità e della mia parola. Quanto ai quattrini, non credo che ne perderei molti visto che negli Stati Uniti potrei continuare a giocare».

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– Non pensi di stancare con questa ricorrente minaccia di piantare tutto e tutti e di trasferirti negli Stati Uniti.
«Non è una minaccia e mi spiace se qualcuno la prende per tale. Io mi limito a ripetere: o resto alla Lazio o tolgo le tende. Chi vuol capire capisce e Lenzini infatti ha capito».

– Ma per la Lazio sei un capitale e se una società non può manovrare un capitale, è come se non l’avesse!
«Non sono un mucchietto di azioni ma un essere umano, con le mie debolezze, le mie idee ed i miei principi. Certo, se la Lazio ritiene di avere potenzialmente un miliardo pensando di cedermi, si sbaglia, ma in tal caso è tutto il principio che è sbagliato. Tra l’altro io gioco sulla mia pelle nel senso che sono deciso a lasciare il calcio pur di non andar via dalla Lazio. Ed a parte questo, mi si dimostri che il sottoscritto non rappresenta per la Lazio un capitale restando a Roma. Perché non si chiede ai tifosi che portano miliardi nelle casse sociali, quello che pensano?».

— E gli insulti ai dirigenti?
«Niente insulti, solo parole chiare, brusche forse ma chiare, come si deve fare tra uomini. La Lazio del resto ha perduto lo scudetto perché la squadra non ha avuto alle spalle una società come si deve. Colpa del presidente? Lenzini ha le sue responsabilità, non c’è dubbio, ma ne hanno anche i dirigenti che fanno solo chiacchiere. E perché dovrei starmene zitto? Nossignori, parlo e dico le cose come stanno anche perché sono un uomo libero e non uno schiavo. Un dirigente che mette fuori quaranta milioni non può arrogarsi il diritto di censurare, di fare programmi, di avanzare richieste. Un anno fa c’erano dirigenti che facevano la fila per farsi fotografare con noi che avevamo vinto lo scudetto; oggi gli stessi dirigenti si sentono offesi perché si parla loro chiaro, pretendono rispetto, minacciano multe!».

— I compagni sono dalla tua parte?
«Lo sai, sono un istintivo, se faccio una cosa credo di farla nell’interesse della società e quindi della squadra e dei compagni. Se poi qualche mio compagno non è d’accordo, non so che farci. Del resto mi assumo sempre tutte le responsabilità di quello che dico».

— Giorgio, credi che per la Lazio lo scudetto sia stato un traguardo occasionale?
«Dipende dal presidente ed in parte da quelli che gli stanno intorno e che fanno troppe chiacchiere. Intanto siamo arrivati al quarto posto ed è traguardo rispettabile con tutte le disgrazie che abbiamo avuto, non ultima la malattia di Maestrelli. Inoltre, la squadra è sempre valida, ci bastano un paio di rinforzi e possiamo competere di nuovo per lo scudetto e strapazzare la Roma. Il calcio si è livellato, la stessa Juventus ha meritato il titolo, ma non ha fatto niente di trascendentale e lo scudetto poteva benissimo vincerlo il Napoli. E poi, scusa, dove sono finiti in classifica Milan, Inter e Torino? Dietro di noi, appunto».

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— Quali rinforzi servono alla Lazio?
«Uno soprattutto e si chiama: idee chiare, per dare un volto alla società, per farcì rispettare a tutti i livelli a cominciare da quello federale naturalmente; ci servono anche due o tre giocatori, ma nomi non ne faccio. Già mi accusano di passare i limiti, figurati cosa mi direbbero se mi mettessi a fare dei nomi».

—Perché prima te la prendi con Lenzini e poi ti fai fotografare abbracciato con lui?
«Io con Lenzini non ce l’ho mai avuta. Ha fatto tanto per la Lazio che sarebbe assurdo avercela. Ho solo cercato di spronare il presidente ad agire e gli ho fatto capire le necessità della società…».

— E la lite per i quattrini a che punto è?
«Forse ci accorderemo, forse no. Comunque sono affari nostri, dico di noi giocatori e del presidente. Prima dell’ultima partita di campionato abbiamo fatto il muso duro perché Lenzini ci ha sfuggiti e questo non era simpatico. Il presidente è stato il primo a capirlo».

– Chinaglia, ti accusano di guadagnare troppo e malgrado ciò di lamentarti. E’ esatto?
«Io vengo pagato né più né meno di quanto sono pagati altri giocatori di spicco. Però il sottoscritto si batte anche per i compagni che non hanno un grosso nome. Sai cosa ho detto al presidente? Presidente, diminuisca l’ingaggio a me, ma non a Franzoni o a Moriggi, sarebbe assurdo».

— Attento, ti potrebbero accusare di demagogia.
«E sbaglierebbero di nuovo. Chiedi ai giocatori della Lazio che guadagnano meno, quante volte mi sono battuto in loro favore. E questo, detto per inciso, dovrebbe essere una battaglia da portare avanti anche in sede di associazione calciatori».

— Sei dunque dalla parte di Rivera?
«Se vuoi saperlo, a me di Rivera importa poco o niente. A parte il fatto che non sono d’accordo con Gianni su molte cose, io sono Chinaglia e lui è Rivera».

— Sai cosa dicono i cronisti romani quando sono a corto di novità?
«Lo so bene. Dicono: andiamo da Chinaglia perché ci scappa fuori la sparata e quindi il titolo a sette colonne, se non a nove!».

— E non ti dispiace?
«No, perché parlo ed agisco in buona fede nell’interesse della Lazio, solo della Lazio. Sbaglierò ad essere laziale in questo modo, sbaglierò a prendermela tanto calda, ma non ne posso proprio fare a meno».

— Un’ultima domanda: pensi di conservare la maglia azzurra?
«Io, la nazionale l’ho riconquistata sul campo dopo che, secondo il parere di molti, l’avevo perduta per sempre. Non ho quindi nulla da temere, perché ciò che ottengo è frutto di una dura conquista e di sacrifici. E chi non mi vuole credere, non mi creda, non me ne frega un fico secco».