Iniesta, il silenzio e la maglietta del saluto

“In quel momento ho sentito il suono del silenzio. So perfettamente che sembra qualcosa di contraddittorio. Ma è così… è stato così”.

Andrés Iniesta non è uno che esagera con le parole o che ama ricamare storie attorno all’abito che da anni ha cucito addosso. Quello del calciatore è semplice e perfetto come solo la semplicità dei grandi sa essere. Il suono del silenzio è quello che Andrés percepisce negli attimi che passano attorno al 116esimo minuto della finale di Johannesburg, Sudafrica, Mondiale 2010, contro l’Olanda, l’undici luglio.

Sono frazioni di secondo interminabili tra il passaggio di Fabregas dopo una respinta corta di Van der Vaart e il pallone che sta arrivando verso casa, libero, tranquillo come un bambino.

Tocca al maestro Iniesta prenderlo per mano e portarlo sul tetto del mondo per fargli fare sogni d’oro. La Spagna è campione del mondo per la prima volta nella sua storia, e il gol di un’intera generazione di giocatori meravigliosi lo segna il più grande di tutti, Andrésito.

Il gol, quel gol, non è quello che si vede in televisione. Gli assomiglia, però non è la stessa cosa…” annota Iniesta nella sua autobiografia che si intitola “La jugada de mi vida” e che purtroppo in italiano non è stata ancora tradotta.

“Quello è il gol che vede la gente, ma da dove stavo io la prospettiva era un’altra, la sensazione lì sul campo…. irripetibile. Voglio dire che è un gol molto mio, che solo io ho segnato e per una volta sola nella vita. Non so come spiegarlo, mi risulta molto complicato descriverlo perché non trovo le parole. Tutto quello che stava attorno a me è rimasto come congelato per alcuni secondi. E’ stato lì, in quel momento, che ho sentito il silenzio”.

Un attimo prima, mosso da un istinto primordiale di sopravvivenza e da una lucidità esemplare all’ultimo secondo di un Mondiale intenso per tutti ma per lui ancora di più, Iniesta fa un passo indietro per non inciampare sulla linea immaginaria del fuorigioco e aspettare l’arrivo del pallone.

Bisogna aspettare il momento giusto per accompagnare bene la palla, in quel momento comandi tu e in quel momento comandavo solo io” scrive Iniesta nell’autobiografia. “Il pallone è la mela di Newton e io di conseguenza sono Newton. Devo solo aspettare che la legge di gravità faccia bene il suo lavoro. In quel silenzio sono l’unico che può dominare tutto: il controllo del movimento, la velocità del pallone, l’altezza della gamba. La mia intenzione è quella di tirare più angolato perché ovviamente il portiere non ci possa arrivare. Invece ne esce un tiro un po più centrale, ma almeno è forte, questo sì. Non penso molto a quello che sto per fare perché quando penso perdo decimi di secondo che mi appesantiscono. Se pensi troppo, alla fine sbagli“.

Il tiro, più centrale del previsto, viene toccato dalla mano destra del portiere olandese Stekelenburg, che però non riesce a respingerlo. Iniesta guarda istintivamente l’assistente dell’arbitro sperando che non commetta alcun errore, alcuna ingiustizia dopo un’azione corale di tutta la Spagna partita da un contropiede di Navas e impreziosita anche da uno splendido ed essenziale colpo di tacco a centrocampo di Don Andrés.

E chi se no. E’ l’hombre del partido, che per essere lì in quel momento fondante della storia del calcio spagnolo aveva sofferto rischiando di non esserci. Non una, ma più volte.

I compagni più importanti nel tortuoso avvicinamento al Mondiale di Don Andrés si chiamano Emily e Raul, ma l’ex numero 7 del Real Madrid e della Roja in questo caso non c’entra nulla. Emily Ricard, motivatore factotum, e Raul Martinez, fisioterapista dalle mani magiche, non sono ovviamente in campo in quell’azione corale della Spagna che termina con il gol di Iniesta e che fa esplodere di gioia persino Vicente Del Bosque in panchina. Ma è come se lo fossero, perché nessuno più di loro ha contribuito alla rinascita fisica e mentale di Andrés.

Il 13 aprile sembra quasi più fuori che dentro dalla squadra che sarebbe andata poi in Sudafrica. Quel giorno Iniesta non trattiene le lacrime mentre viene trasportato fuori dal campo d’allenamento. “Tutto andrà bene, tutto andrà bene“, gli ripete Puyol, “ma parla con Raul” E Raul in effetti rimette in piedi il campione con un recupero record.

Il cervello del Barcellona però si inceppa anche nell’ultima amichevole prima di partire per il Mondiale, contro la Polonia. E poi, una volta recuperato in tutta fretta, fa crac anche al debutto con la Svizzera.

La Spagna inizia il Mondiale con una sconfitta e perde Iniesta per la sfida contro l’Honduras. Lo ha perso così tante volte negli ultimi mesi che deve pensare a come fare a meno di lui. Ma Andrés ritorna nella partita decisiva del girone contro il Cile e segna il gol della qualificazione. Un diagonale di piatto su imbucata di Xavi: semplice, efficace, risolutivo.

Le mani di Raul e le terapie riabilitative riconsegnano a Iniesta una macchina capace di portare il motore a giri molto alti senza rischiare il sovraccarico. E questo è fondamentale. Ma anche la testa, per sua stessa ammissione, è ripulita perché ogni sera in ritiro Andrés prima passa dal meccanico del corpo nella sua stanzetta creata appositamente, e poi utilizza gli strumenti che gli ha lasciato in dote il meccanico della mente, come fosse il Padre Nostro che da piccolo recitava prima di dormire a Fuentealbilla. Uno dei giocatori più forti della propria generazione si attacca ogni sera a un video motivazionale. Lo ha creato un certo Pep Guardiola, qualche mese prima, per rimontare l’Inter di Mourinho. Non ha portato bene, è vero, ma ha colto nel segno.

Quel video dura quattro minuti. Ci sono grandi vittorie e grandi sconfitte. Ci sono Roger Federer e Fernando Alonso, il gol di Iniesta al Chelsea e quello di Messi nella finale contro lo United a Roma, ci sono sofferenze inaspettate e momenti di euforia esplosiva. C’è una miccia, insomma, neanche tanto metaforica, che accende ogni sera l’animo di Andreas che è sempre più carico e si sente in missione per conto di un Paese intero.

La Spagna batte anche il Portogallo e il Paraguay, ancora con un solo gol di scarto. E si ritrova in semifinale contro la Germania. Decide un gol di Puyol di testa su angolo di Xavi. Un’irruzione aerea più che un gol, un’esibizione muscolare contro l’avversario giusto per la Spagna di Del Bosque.

Ti rendi conto che hai segnato il gol più importante della storia del calcio spagnolo?“, dicono due compagni al capitano del Barcellona seduto a tavola. “Speriamo che lo sia solo fino a domenica” risponde svelto il difensore e poco più in là si alza una voce che sorprende tutti. “Tranquillo Carles, a questo ci penso io, non ti preoccupare“. E’ Iniesta, uno che parla poco. Uno che si espone poco ma quando parla e si espone non lo fa mai per caso.

E’ il segnale che Andrés ci crede. Sa che la vecchia e furiosa Spagna di un tempo, quella delle Furie Rosse appunto, adesso assomiglia all’Olanda del 1974 e che questa Olanda che aspetta la Roja in finale non è la Germania di Beckenbauer e Gerd Muller. Ma prima di entrare in campo a Soccer City per completare l’opera c’è un’altra cosa che Iniesta deve assolutamente fare. C’è una memoria che deve onorare, un ricordo che deve riaccendere davanti a tutto il mondo. Gli servono una maglietta bianca e un pennarello.

A migliaia di chilometri di distanza da Johannesburg, a Barcellona, c’è una televisione che quella sera dovrebbe essere spenta. E’ quella di Jessica, la moglie di Daniel Jarque, capitano dell’Espanyol morto un anno prima mentre era nel ritiro in Italia con la sua squadra. Vedere gli amici di Daniel giocarsi il trofeo più importante del mondo sarebbe una sofferenza troppo grande per lei, con in braccio la figlia Martina di dieci mesi nata dopo la morte del marito. Ma Jessica quella sera sente che sta per succedere qualcosa.

Sente che il legame con i compagni e i colleghi di Daniel è qualcosa di potente e accende la televisione, “Era impossibile godersela, ma sentivo che dovevo vedere la partita, che qualcosa sarebbe successo” ha raccontato Jessica nell’autobiografia di Andrés. “Pochi secondi prima del gol di Andrés ho avuto un presentimento e sono scoppiata a piangere prima che la palla entrasse in rete. Quando il gol è diventato realtà mi sono tappata gli occhi, non ho visto nulla, ma mia madre accanto a me urlava guarda, guarda, guarda la maglietta. Ma io non volevo guardare. Andrés poteva dedicare il gol a chi voleva, a sua moglie, ai suoi figli, a tanta gente. Invece aveva dedicato il gol più importante della sua vita al mio Daniel. Credo che questo dica più di tutto chi è Iniesta. Ma anche chi era mio marito“.

Scrive ancora Iniesta: “Quando segno, non penso alla maglietta che ho sotto, quella che avevo preparato col pennarello di Hugo il massaggiatore. Mi tolgo d’istinto la maglietta di gioco, non si impiglia anche se sto correndo. Sembra la scena di un film da quanto perfetta mi viene… Daniel lo conoscevo dai tempi delle nazionali giovanili, avevamo molto rispetto l’uno per l’altro e avevamo caratteri molto simili. Sarebbe stato il futuro regista della Spagna e io non smetto di ricordarlo con una grande nostalgia“.

Quel gol e quella esultanza hanno reso immortali Iniesta e il suo vecchio amico come un incrocio del destino. Ma destino per Andrés è una parola troppo complessa. La semplicità è la sua unità di misura. “Dovevo essere lì in quel momento per buttare dentro quel pallone. Ed ero lì“.

Era lì per la Spagna, per Daniel, per Jessica e per una generazione di campioni che ha vinto e rivinto segnando un’epoca, e non ha ancora finito di stupire. Come Andrésito.

testo di Paolo Tomaselli