L’esclusione di tutti i campioni dei rossoblù scudettati dalla formazione azzurra scatenò la rabbia di un’isola intera, e al Sant’Elia andò in scena una clamorosa rivolta contro la Nazionale.
Il Sant’Elia brillava come non mai sotto il sole di febbraio del 1971. Era molto più di un semplice stadio: rappresentava il coronamento di un sogno, il tempio di una squadra che aveva riscritto la geografia del calcio italiano. Per la prima volta nella storia, lo scudetto era emigrato su un’isola. Il Cagliari di Scopigno aveva compiuto l’impresa l’anno precedente, dominando il campionato con un calcio spettacolare e concreto.
Ma il 1970 non aveva portato solo lo scudetto. Quella stessa estate, cinque giocatori del Cagliari avevano vissuto l’avventura mondiale in Messico. Albertosi tra i pali, sicuro e autoritario. Cera, il libero elegante, Niccolai, stopper ruvido ma efficace e Domenghini, l’ala veloce e tecnica. E poi lui, Gigi Riva, il bomber che faceva tremare le difese di tutta Europa.
La città viveva un momento magico. Il nuovo stadio era il simbolo tangibile di questo periodo d’oro: moderno, capiente, degno di una grande squadra europea. Le tribune del Sant’Elia avevano accolto il pubblico delle grandi occasioni in quella stagione, con i tifosi che accorrevano da tutta l’isola per vedere i propri beniamini difendere il tricolore.
La frattura

L’incubo si materializzò in una serata d’autunno al Prater di Vienna. Il 31 ottobre 1970, durante un’amichevole contro l’Austria, Riva si accasciò al suolo dopo uno scontro. La diagnosi fu impietosa: frattura di tibia e perone. Per il bomber sardo era un déjà vu terribile: già nel marzo del ’67, durante Italia-Portogallo a Roma, aveva subito lo stesso infortunio.
Questa volta, però, il dramma aveva un sapore ancora più amaro. Il Cagliari stava volando in campionato, sembrava lanciato verso uno storico scudetto-bis. Riva era nel momento migliore della sua carriera, reduce dal Mondiale messicano dove aveva incantato il mondo con le sue prodezze. L’infortunio non spezzò solo la sua gamba, ma anche i sogni di un’intera isola.
La squadra accusò il colpo. Senza il suo trascinatore, il Cagliari perse progressivamente terreno in campionato. I tifosi non potevano fare a meno di pensare che, ancora una volta, era stata la maglia azzurra a “rubare” il loro campione nel momento decisivo.
Un regalo avvelenato

Artemio Franchi, presidente della Federcalcio, era un uomo navigato. Capiva che bisognava fare qualcosa per ricucire lo strappo con Cagliari. La scelta cadde su un’amichevole di lusso: Italia-Spagna da giocarsi proprio al Sant’Elia. Sulla carta, sembrava l’occasione perfetta: una partita prestigiosa, un buon incasso garantito, la possibilità di riappacificare l’ambiente.
La Federcalcio aveva preparato tutto nei minimi dettagli. Due gettoni d’oro attendevano Riva, un omaggio simbolico per ringraziarlo dei sacrifici fatti per la maglia azzurra. Franchi in persona voleva consegnarglieli. Ma il bomber aveva altri piani e quando la nazionale si radunò a Santa Margherita di Pula, suggestivo borgo marino a pochi chilometri da Cagliari, di Riva non c’era traccia.
Il suo silenzio era eloquente. L’assenza dal ritiro, più che un gesto di protesta, sembrava un modo per evitare di trovarsi in una situazione scomoda. Riva era un uomo di poche parole, ma i suoi gesti parlavano chiaro. Il “regalo” della Federcalcio stava già mostrando le prime crepe.
La miccia si accende

Ma furono le decisioni di Ferruccio Valcareggi ad innescare la bomba. Il commissario tecnico, forse sottovalutando il contesto o forse seguendo rigidamente le sue convinzioni tecniche, decise di escludere dall’undici titolare tutti i giocatori del Cagliari. Non uno, non due, ma tutti: Albertosi, Niccolai, Domenghini, Gori, relegati in panchina come comparse.
La notizia esplose come un fulmine a ciel sereno due giorni prima della partita. I giornali locali si scatenarono. L’Unione Sarda titolò a tutta pagina “Schiaffo al Cagliari“. La città si mobilitò in un modo mai visto prima. I negozi di articoli sportivi registrarono un fenomeno curioso: mentre i biglietti per la partita restavano invenduti, i fischietti andavano a ruba. Cinquemila pezzi, uno dopo l’altro, come se la città si stesse preparando a una manifestazione di protesta più che a una partita di calcio.
Le radio locali divennero il megafono del malcontento. I tifosi chiamavano per esprimere la loro indignazione. Gli ex giocatori del Cagliari venivano intervistati e, pur con diplomazia, non nascondevano il loro disappunto. La tensione saliva ora dopo ora.
Il giorno della protesta

Il 20 febbraio 1971 il Sant’Elia si trasformò in un teatro dell’assurdo. Già ore prima del fischio d’inizio, l’atmosfera era elettrica. I tifosi arrivavano a gruppi, fischietti al collo e cartelli sotto il braccio. “Viva España” si leggeva su alcuni. “Valcareggi vattene” su altri. La curva nord, solitamente il cuore del tifo rossoblù, era un mare di bandiere spagnole.
Quando le squadre scesero in campo per il riscaldamento, si capì che non sarebbe stata una serata normale. I giocatori della Spagna furono accolti da applausi, quelli dell’Italia da una bordata di fischi. Ma il momento più surreale doveva ancora arrivare. All’inno nazionale, tradizionalmente un momento di unità e rispetto, il Sant’Elia rispose con un assordante concerto di fischietti. Mai, nella storia del calcio italiano, si era vista una cosa del genere.
Il trionfo degli ospiti

In campo, la Spagna di Kubala sembrava giocare in casa. Iribar, Amancio e Pirri, stelle del Real Madrid, si muovevano con la sicurezza di chi sa di avere il pubblico dalla propria parte. La difesa italiana, invece, appariva nervosa, distratta. Al 35′ arrivò il primo colpo: un’azione orchestrata magnificamente da Claramunt, trovò Pirri con un passaggio illuminante. La difesa azzurra venne presa in contropiede, Burgnich e Bertini sembravano due fantasmi mentre Zoff, brancolando a mezz’aria, non poté far nulla nel vedere Pirri scodellare il pallone in rete.
Il pubblico esplose in un boato, ma non di disappunto. Anzi, iniziò a scandire ritmicamente “due, due”, come se volesse spingere gli spagnoli a infliggere una punizione ancora più severa agli azzurri. E la Spagna non si fece pregare. Dopo appena cinque minuti, Claramunt innescò nuovamente l’azione: questa volta trovò Churruca, che con una finta mandò al bar Rivera. Il pallone arrivò a Uriarte che, lanciato come un bisonte, scaraventò la palla nel “sette”. Il Sant’Elia esplose di gioia, come se avesse segnato il Cagliari. Il gol della bandiera di De Sisti, arrivato nel finale dopo una mischia confusa, fu accolto quasi con fastidio dal pubblico.
Le voci del dopo partita

Negli spogliatoi, l’atmosfera era pesante. Albertosi, dalla panchina, aveva vissuto una serata surreale: “Non mi aspettavo una manifestazione di simili proporzioni“, confessò ai giornalisti. “Credevo che a un certo punto la gente avrebbe fatto il tifo per l’Italia. Mi dispiace soprattutto per Zoff.”
Domenghini sembrava il più turbato: “Ero seduto in panchina e mi sentivo in colpa. Non sono mai stato invocato tanto dai tifosi. Mi spiace per Mazzola, avrei voluto chiedergli scusa.” Il suo disagio era palpabile: essere lì, in panchina, mentre il pubblico scandiva il suo nome come un’accusa verso Valcareggi.
Manlio Scopigno, il “filosofo” allenatore del Cagliari, analizzò la situazione con la sua solita lucidità: “La reazione del pubblico all’esclusione di Domenghini è stata logica. Sarebbe accaduto in qualsiasi altra città italiana.” Era il suo modo di dire che Valcareggi aveva commesso un errore di valutazione imperdonabile.
L’epilogo amaro

I giornali spagnoli si divertirono a raccontare quella serata surreale. “La Spagna ha vinto la partita delle arance“, titolarono a Madrid, riferendosi ai frutti lanciati contro gli azzurri a fine partita. Ma oltre l’aneddoto, c’era una frattura profonda che si era consumata quella sera.
La Federcalcio reagì nel modo peggiore possibile: cancellò Cagliari dalla mappa delle città che avrebbero ospitato la nazionale. Una decisione miope che non faceva altro che confermare quanto i sardi pensavano: che il potere centrale non capiva o non voleva capire le ragioni profonde di quella protesta.
Riva, con la sua proverbiale riservatezza, aveva seguito la partita alla radio nella sede del club. Il suo commento fu minimale ma significativo: “Il calcio c’è chi lo segue in un modo e chi in un altro. Noi siamo fatti così. La reazione dei nostri tifosi è comprensibile, umana.” In quelle poche parole c’era tutto: l’orgoglio di un popolo, il senso di appartenenza, la dignità ferita.
La fine dell’esilio

Diciotto anni. Tanto ci volle perché la ferita si rimarginasse, perché la Nazionale trovasse il coraggio di tornare in quella terra che l’aveva così clamorosamente respinta. Era il 21 dicembre 1989 quando il Sant’Elia riaprì le sue porte agli Azzurri, in una serata che sapeva di riconciliazione.
Non era una partita qualunque. Di fronte c’era l’Argentina di Diego Armando Maradona, campione del mondo in carica. L’Italia di Azeglio Vicini si stava preparando per Italia ’90, il Mondiale in casa, e quella sfida rappresentava un test importante. Ma al di là dell’aspetto tecnico, la scelta dell’avversario non era casuale: serviva una partita di prestigio per sancire la pace.
Lo zero a zero finale racconta poco di quella serata. Fu una partita scialba, senza grandi emozioni, come spesso accade nelle amichevoli di fine anno. Ma il vero risultato non era sul campo: era sugli spalti, dove i tifosi sardi dimostrarono che il tempo può curare anche le ferite più profonde. Questa volta non ci furono fischi, non ci furono proteste. E soprattutto, come notarono con sollievo i cronisti dell’epoca, non volarono arance.