PICCHI Armando: libero euromondiale

E’ stato il capitano della grande Inter euromondiale: aveva un rapporto difficile con Herrera ma era amatissimo da Moratti e dai tifosi. Il dramma della morte precoce.

PROLOGO. Accadde alle 16 del 26 maggio 1971. «Non voleva mai perdere, lo ha sconfitto la morte» scrisse poi il grande Gino Palumbo sul «Corriere della Sera». A Sanremo quel giorno si spense Armando Picchi, da pochi mesi approdato sulla panchina della Juventus dopo aver legato il proprio nome, da calciatore, ai successi euromondiali dell’Inter di Angelo Moratti e Helenio Herrera. Picchi non aveva ancora 36 anni, aveva smesso di giocare da due ed era sposato da meno di tre con la modella genovese Francesca Fusco che gli aveva dato due figli. A sconfiggerlo fu il più crudele e incurabile dei mali, un tumore alla colonna vertebrale.

La leggenda di Armando Picchi, il campione che per primo ha interpretato magistralmente il ruolo del battitore libero, nacque quando lui non era più giovanissimo. Al calcio si era avvicinato seguendo le orme del fratello maggiore Leo, che accanto alla laurea di farmacista poteva esibire un passato in serie A nel Torino del dopo-Superga. Armando giocava nel Livorno, che frequentava più spesso la serie C della B (e che nel 1981 gli intitolerà lo stadio dell’Ardenza).

Picchi con la moglie Francesca Fusco

Attaccante e mediano, soprattutto. Ad arretrarlo in difesa provvide Mario Magnozzi. Picchi aveva già 24 anni quando finì sul taccuino di Paolo Mazza, geniale scopritore di talenti e mitico presidente della Spal, che annotava: «Terzino molto scattante, ottimo nel destro, più debole nel sinistro, un po’ scarso nel gioco di testa. Ha tendenza a portarsi in avanti. Prenderlo subito». In cambio di 24 milioni Picchi arrivò a Ferrara, dove il suo esordio in serie A risale al 20 settembre 1959. Il miglior campionato nella storia della Spal si concluse con un quinto posto che mise in vetrina alcuni dei gioielli di Mazza: Bozzao e Picchi in testa.

Mentre Bozzao approderà alla Juve, per 120 milioni (metà in contanti e metà in contropartita) Picchi si trasferì all’Inter, dove Angelo Moratti aveva appena strappato al Barcellona un rivoluzionario e pittoresco allenatore argentino di nome Helenio Herrera.
Ancora due stagioni da terzino destro, poi Armando si trasforma in battitore libero. Fu la mossa felice che regalò una proverbiale solidità a un reparto completato dai terzini Burgnich e Facchetti e dallo stopper Guarneri, davanti ai quali furoreggiano la regia di Suarez, l’estro di Corso e la rapidità di Mazzola e Jair.

Picchi diventò anche capitano perché nessuno come lui possedeva la voglia di lottare e la capacità di trascinare i compagni. Tre scudetti, due Coppe dei Campioni e altrettante Intercontinentali furono il magico bottino delle sette stagioni all’Inter di capitan Picchi, al quale la nazionale del ct Fabbri spalancò le porte nel novembre 1964.

In Nazionale con i 3 compagni dell’Inter: Corso, Facchetti e Burgnich

L’interpretazione che Armando fornì del ruolo di «libero» fu esemplare ma discussa. Era lui l’ultima barriera davanti al portiere, era lui che non sguarniva mai la difesa, era lui che calamitava ogni pallone anche senza essere un fenomeno nel gioco aereo (era alto soltanto 171 centimetri). Tra chi contestava il rigido difensivismo praticato da Picchi c’era anche Rivera, che al ritorno da una trasferta azzurra in Polonia sottolineò l’inutilità di un «libero» che squilibrava la consistenza numerica del centrocampo. Rivera era un pupillo di Fabbri e la polemica costò il posto in nazionale ad Armando.

Intanto nell’Inter la dirompente personalità del difensore livornese si scontrò inevitabilmente e sempre più spesso con la ferrea disciplina pretesa di Herrera. Ogni estate la scena si ripeteva. L’allenatore collocava Picchi in cima alla lista dei giocatori da cedere e il presidente cancellava regolarmente il nome di quello che era uno dei suoi campioni prediletti. Andò avanti così sino al 1967, allorché Moratti dovette arrendersi al perentorio ultimatum del Mago argentino. «O vi lui o via io».

Armando aveva già 32 anni e il presidente nerazzurro lo congedò commosso prima di consegnarlo al Varese, da dove Picchi indirizzò frequenti frecciate a Herrera. «Se l’Inter deve qualcosa al Mago, quanto deve il Mago a noi giocatori? Molto, forse moltissimo».

Picchi con Helenio Herrera

Il ritorno in nazionale sotto la gestione Valcareggi fece felice Picchi, ma gli costò virtualmente la carriera. Accadde dopo meno di mezz’ora della partita che l’Italia perse contro la Bulgaria a Sofia nel 1968, allorché Armando uscì malconcio da uno scontro. «Frattura del pube». La diagnosi è spietata, l’operazione difficile, la convalescenza lunga, il ritorno all’attività improbabile. «Peccato, avrei voluto proseguire sino al ’70 per partecipare al Mondiale» commentò sconsolato Picchi, che accettò di guidare il Varese dalla panchina, prima di tornare a Livorno per salvare la squadra della sua città dalla retrocessione in serie C.

Le capacità del Picchi allenatore colpirono Boniperti, che lo scelse a sorpresa per intraprendere il ringiovanimento e il rilancio della Juve. «Era un uomo intelligente e preparato, possedeva carisma, personalità, capacità persuasive e spiccate attitudini al comando. Sarebbe sicuramente diventato uno dei migliori allenatori d’Italia».

Pochi mesi alla guida della Juve, dove erano appena arrivati Bettega, Causio, Capello e Spinosi, poi i primi dolori alla schiena, inizialmente attribuiti a un reuma provocato dal freddo. L’ultima apparizione di Picchi in panchina era datata 7 febbraio 1971, allorché i bianconeri persero a Bologna e lui si fece espellere dall’arbitro per proteste. Esami più accurati rivelarono la presenza di una piccola macchia nella colonna vertebrale. L’esito della biopsia fu agghiacciante: si trattava di una forma aggressiva e incurabile di tumore. Poco più di tre mesi dopo, la tragica fine.