Pippo e la rivoluzione del Diavolo

Stagione 1976/77: Nella centrifuga milanese Pippo Marchioro finisce mescolato con tre ingredienti: Beethoven, la zona e la maglia numero 7 di Gianni Rivera.

Riavvolgiamo il nastro fino a quella calda estate 1976. In cima alla piramide del Milan c’è più che mai Gianni Rivera. Chiusa da vincitore la battaglia con l’ex presidente Buticchi, il Golden Boy è riuscito a fare piazza pulita: impone come nuovo patron il sessantenne Vittorio Duina (detto “il presidente del tubo” per via del settore merceologico della sua industria), un nuovo direttore sportivo, Sandro Vitali, e, appunto, un nuovo allenatore.

E’ Pippo Marchioro, che ha appena tagliato un traguardo storico portando il piccolo Cesena in Europa. E qui entra Beethoven, perché per regalare serenità ai propri giocatori in Romagna aveva iniziato a far ascoltare musica classica negli spogliatoi. Poi la zona: modernista convinto, Marchioro ha già tentato qualche esperimento a Cesena, e nel Milan ha carta bianca per lanciare la tattica che va per la maggiore all’estero.

Il Presidente Duina con Marchioro e Rivera

Di mezzo c’è, però, anche la campagna acquisti. Arrivano parecchi giocatori nuovi, ma la chiave di tutto sta in due cessioni decisamente pesanti: il panzer Benetti alla Juve in cambio di Fabio Capello, regista trentenne considerato fondamentale per l’equilibrio che può assicurare ai reparti; e l’ala Chiarugi, al Napoli in cambio dell’attaccante Braglia e del mediano Giorgio Morini. In più, dal “suo” Como (portato in A prima di Cesena) Marchioro ha prelevato il portiere Rigamonti, noto per calciare i rigori, e il terzino d’attacco Boldini.

E Rivera? Il Gianni nazionale ha tutt’altro che voglia di mettersi dietro una scrivania e cosi si ritrova in campo, con una curiosa maglia numero 7: quella che da ragazzino rifiutava in Nazionale per il timore di venire emarginato sulla corsia laterale (a favore prima di Sivori e poi del rivale Mazzola). Una scelta che, sussurrano i soliti beninformati, basta a far iscrivere subito il tecnico nella “lista nera” del Capitano. In realtà, anni dopo, nel rievocare la disgraziata stagione, Marchioro preciserà:

«Rivera con me fu leale e corretto fin dal primo momento. E anche quella stona del numero sette. Chiariamo: fu lui a chiedermi quel numero».

Marchioro e il Direttore Sportivo Vitali

Dopo qualche esperimento estivo certe intenzioni originarie (Maldera interno, Boldini terzino sinistro) vengono accantonate, anche se permangono le perplessità su Capello, arrivato dalla Juve con un ginocchio cigolante (infortunio a Mosca in Nazionale), i cui problemi vengono ufficialmente ricondotti a una contrattura muscolare.

Marchioro è giovane, sposa la zona e lancia uno slogan facile a trasformarsi in boomerang:

«voglio un Milan socialista, nel senso sportivo e agonistico. Non mi piacciono le squadre anarchiche, sperequate, esigo il gioco collettivo e la collaborazione».

Per dare coipo ai propri progetti, disegna la “sua” squadra da scudetto: Albertosi in porta, Bet e Turone difensori centrali, il giovane Collovati, poi Anquilletti o Sabadini terzino destro, Maldera sulla corsa di sinistra. A centrocampo, sulla destra Morini con il raffinato Biasiolo in alternativa, e Bigon sull’altro versante, rifinitore decentrato. Al centro, i due “cervelli”, l’equilibratore Capello e il genio Rivera. In avanti, il centravanti Calloni e il piccolo Silva, due attaccanti, specie il secondo, non all’altezza.

Si parla di due quadrilateri: quello tra i due terzini e i due laterali di centrocampo, e quello, più piccolo, con i due stopper e i due registi. Da Trieste il tradizionalista Nereo Rocco, consigliere del Milan con mandato triennale ma mai consultato dall’impegnatissimo Duina, non riesce a trattenere qualche frecciata.

Quando il campo è chiamato a dare un giudizio, la squadra naufraga. Bet e Turone, non rapidissimi, fanno fatica a recepire i nuovi sincronismi. A centrocampo Capello e Rivera hanno entrambi il passo lento e vengono facilmente sopraffatti. In avanti la carenza di qualità e di doti realizzative chiude il cerchio dell’impotenza. Marchioro arriva a mangiare il panettone, ma l’ambiente è scontento.

A fine gennaio la crisi è consolidata. Il 7 febbraio 1977, all’indomani dello scialbo pari interno col Cesena (beffa del destino), con la squadra in undicesima posizione, il tecnico viene esonerato e al suo posto arriva, immancabilmente, Nereo Rocco. Che subito proclama: «Da oggi niente zona: si gioca a calcio».

Ma i suoi calcoli si riveleranno sbagliati: la “normalizzazione” procura altri guasti in un corpo tecnico-tattico allo sbando. Alla fine è di nuovo zona: quella salvezza, per un Milan che alla fine chiude al decimo posto, rifacendosi poi parzialmente conquistando la Coppa Italia in finale sull’Inter. Ricorderà Marchioro:

«Ero molto giovane, volevo fare il precursore. Al Milan c’era stato Rocco e io pretesi di fare la rivoluzione e di adottare la zona quando i tempi evidentemente non erano ancora maturi. La squadra non andava nemmeno male, ma i dirigenti non vollero darmi tempo. E così il presidente Duina dopo una ventina di partite mi chiamò e mi disse che forse era il caso di riproporre per l’opinione pubblica il vecchio Rocco. Lei vada tranquillo, Rocco farà il direttore tecnico soprattutto per la stampa e per i tifosi, mi disse. Risposi che non avrei avuto problemi a farmi da parte. Loro dovevano solo continuare a corrispondermi lo stipendio e si prendessero pure uno, dieci, venti o cento Rocco».