POPESCU Virgil: Un viaggio inaspettato

Ci sono molti calciatori che hanno contribuito a creare legami tra Romania e Serbia. Tra questi, sicuramente meno famoso del celebrato Miodrag Belodedici, c’è Virgil Popescu. Questo rumeno, dimenticato dal tempo, si trasformò nel serbo Popesku. Per scelta politica e per amore della Serbia

Virgil Popescu ha vissuto con la guerra fin dalla sua nascita, avvenuta nel 1916 a Zlatna, un paesino vicino ad Alba Iulia, in Transilvania, una regione che sulla cartina geografica del tempo appartiene ancora all’Impero Austro-Ungarico e non alla Romania. La fine della prima guerra mondiale cambia il suo destino. A due anni, i suoi genitori lasciano la loro terra d’origine e si trasferiscono nel nuovo Regno di Serbi, Croati e Sloveni. La futura Jugoslavia.

Cresce a Novi Sad, in Vojvodina, ma perde i suoi genitori quando è ancora bambino. Un’altra svolta. Viene “allevato” dalla nazione e sviluppa un grande amore per il suo paese adottivo. Ed ha anche una grande fortuna: è bravo a giocare a calcio e cresce a Novi Sad, una delle capitali del calcio serbo tra le due guerre. In quel periodo, le grandi squadre di Belgrado non esistevano ancora e il Vojvodina Novi Sad era uno dei club più forti del paese. Fondato dagli studenti serbi a Praga e sostenuto dallo Slavia Praga, il FK Vojvodina era il primo club professionistico del paese, il primo a ingaggiare giocatori dall’estero. Vinse più volte il campionato regionale e si guadagnò il soprannome di The Millionaires. In questa squadra che sfidava i grandi BSK Bekgrade, Hajduk Split e Građanski Zagreb, Virgil Popescu inizia la sua carriera nel 1938, a 22 anni.

Tre anni dopo il suo debutto con il Vojvodina Novi Sad e dopo aver esordito anche in Nazionale con la Jugoslavia B, il futuro sembra tutto dalla parte di questo giovane difensore e studente all’Accademia di Commercio di Belgrado. Ma la sua carriera subisce una svolta drammatica con lo scoppio della seconda guerra mondiale e l’invasione della Jugoslavia da parte delle potenze dell’Asse, che interrompe il campionato nazionale.

Il 6 aprile 1941, quando l’esercito tedesco entra in Jugoslavia, Popescu è un sottotenente dell’esercito serbo e partecipa attivamente alla difesa di Belgrado. Una difesa inutile, perché il 12 aprile Belgrado cade nelle mani del nemico. Virgil Popescu continua a combattere per altri quattro giorni, prima di arrendersi. Per ironia della sorte, i tedeschi lo deportano in un campo di concentramento di un paese alleato dell’Asse… la Romania.

La Romania si era infatti alleata con la Germania nazista nei primi mesi del conflitto, sotto l’influenza della “Guardia di Ferro” e del suo capo, il maresciallo Ion Antonescu. Il suo “ritorno” in Romania avviene a Turnu Măgurele, nella contea di Teleorman, a sud-ovest di Bucarest, vicino al confine bulgaro. Qui, accanto ai macelli della città, la Wehrmacht ha appena aperto un campo di concentramento per i prigionieri di guerra serbi, a cui si aggiungeranno poi prigionieri sovietici, zingari, ebrei e polacchi.

Qui i prigionieri lavorano nei campi, in questa regione a forte vocazione agricola, e si occupano della manutenzione di strade e ferrovie. Tutto in un clima torrido d’estate e gelido d’inverno. Virgil Popescu rimane prigioniero per due anni. Nell’ottobre 1943 i tedeschi organizzano una nuova “ondata” di deportazioni. Diversi gruppi di prigionieri detenuti nei vari campi in Romania dovranno essere trasferiti in Moldavia, per essere impiegati come manodopera nelle varie fabbriche di Tighina. Fortunatamente, Virgil Popescu non è tra loro.

Il destino si presenta solo pochi giorni prima della partenza, sotto forma di un omonimo: Cezar Popescu. Ingegnere di professione, Cezar Popescu è soprattutto il presidente della Juventus Bucarest, una squadra di calcio fondata negli anni ’20 da impiegati della banca italo-romena Romcomit, e vincitrice del campionato rumeno nel 1930. Prima di diventare Petrolul Ploiești per volere delle autorità comuniste dopo la guerra, la Juventus Bucarest è stata una delle protagoniste del calcio rumeno tra le due guerre mondiali.

Durante i suoi due anni di prigionia, Virgil Popescu si è fatto notare, soprattutto dalle guardie. Così Cezar Popescu viene a sapere che un ex calciatore del campionato jugoslavo, anche internazionale, fa meraviglie al Campo 8 di Turnu Magurele. E ha pure lo stesso cognome, Popescu! Quindi è rumeno!

Cezar Popescu impiega sei giorni per risolvere la questione. Sei giorni in cui deve convincere i tedeschi dell’impossibile: il loro detenuto serbo è in realtà un romeno rinchiuso nel suo stesso paese. Un romeno, il cui paese è alleato dei tedeschi, non può restare prigioniero dei suoi stessi amici…

E il piano funziona: Virgil Popescu viene liberato dai tedeschi e torna, a 27 anni, sui campi di calcio con la maglia della Juventus Bucarest. E infatti il 6 ottobre 1943, quando iniziano i trasferimenti dei prigionieri dal Campo 8 alla Moldavia, Popescu è in campo per la sua prima partita in Romania, contro l’Universitatea Craiova. Nonostante due anni di internamento, l’ex solido difensore non ha perso nulla del suo talento. E la Juventus, che “ha dominato per 75 dei 90 minuti di gioco” secondo la Gazeta Sporturilor il giorno dopo, pareggia 1-1 contro la squadra dove milita il futuro mito Angelo Niculescu.

Ma Virgil Popescu non si sente legato alla Juventus Bucarest, la squadra che lo ha liberato dal campo di concentramento dove era prigioniero di guerra. In realtà la sua avventura a Bucarest dura poco, solo sette partite. Sette brevi apparizioni in cui Popescu stupisce per la sua eleganza in campo, guadagnandosi il soprannome di “Caprioară” (il Cervo) per il suo modo di correre. Purtroppo, un infortunio mette fine alla sua esperienza nella capitale rumena.

Privato della sua terra, Popescu non ha più motivi per restare in Romania. Perché il suo cuore è in Serbia, dove intanto si continua a combattere. Antifascista convinto fin dall’inizio del conflitto, non vuole rimanere a guardare. Poco dopo il suo infortunio, Virgil Popescu va a parlare con i suoi dirigenti e in assenza del presidente Cezar Popescu, entra con decisione nell’ufficio del vicepresidente Traian Ionescu: “Non posso più restare qui. Devo tornare a Belgrado. Devo combattere! Combatterò per la Jugoslavia. Questo è il mio paese adottivo, il Maresciallo Tito ha bisogno di me!” La sua folle determinazione convince i vertici della Juventus, che lo lasciano andare senza opporre resistenza, accompagnandolo persino sulle rive del Danubio, al confine tra Romania e Serbia.

E così il “viaggio inaspettato” di Virgil Popescu continua. Ora si trova a Belgrado alla fine della seconda guerra mondiale. Ha seguito Tito e si è unito ai partigiani che combattevano contro i nazisti. Ha cambiato il suo nome, abbandonando quello di battesimo Virgil per adottare lo slavo Stanislav e slavizzando il cognome in Popesku.

Nel 1945, dopo quasi un anno di battaglie, i partigiani liberano la Jugoslavia dai tedeschi. In seguito a questa vittoria, Popesku firma, insieme ai generali dell’esercito, l’atto di nascita dell’FK Partizan Belgrado. Oltre a essere uno dei fondatori del nuovo club di Belgrado, Stanislav Popesku torna addirittura in campo con la maglia bianconera. Un’esperienza che dura due anni, in cui gioca 65 partite. All’inizio solo amichevoli, poi il campionato riprende.

Insieme a famosi compagni di squadra, tra cui il portiere Franjo Glaser la cui carriera politica è molto diversa dalla sua! – Popesku disputa 17 partite ufficiali nel nuovo campionato jugoslavo. Basta per vincere il titolo nella prima stagione del dopoguerra, nel 1946-47. E per fare il bis con la Coppa di Jugoslavia dello stesso anno.

Prima foto ufficiale del Partizan Belgrado. Virgil Popescu è sotto la freccia

Stanislav Popesku è stato un protagonista della storia del Partizan, sia come giocatore che come dirigente. Fu uno dei fondatori del club e partecipò alla prima partita di campionato della sua squadra nel ruolo di terzino sinistro. Si ritira dal calcio giocato nel 1948, a 32 anni, ma rimane legato alla sua squadra del cuore come responsabile della sezione calcio. Vent’anni dopo, farà ancora parlare di sé come direttore sportivo del Partizan, che sotto la sua guida e quella dell’allenatore Abdulah Gegić, arriverà fino alla finale di Coppa dei Campioni nel 1966. Dopo aver eliminato Nantes, Werder Bremen, Sparta Praga e Manchester United, il Partizan perderà poi la finale contro la corrazzata Real Madrid, nonostante il gol di Velibor Vasović.

Notevole anche il suo fiuto per i talenti. Fu lui a scoprire e allenare il futuro ct della nazionale croata Miroslav Blažević quando giocava al Rijeka nella stagione 1963-64. Fu lui anche a notare un ragazzino di 12 anni che palleggiava per strada e a portarlo al Partizan, prima di cederlo al Rijeka. Ma quando Popesku lasciò il club croato, il giovane finì nelle file della Stella Rossa Belgrado, la rivale storica del Partizan. Fu così che, suo malgrado, Popesku lanciò la carriera di una leggenda dello Zvezda e del calcio jugoslavo: Stanislav Karasi. “Onestamente non sapevo nemmeno che fosse rumeno, lo consideravo un serbo”, racconterà quest’ultimo alla Gazeta Sporturilor qualche anno fa. “Stanislav, o Virgil, mi ha aiutato molto. Sapeva che andavo ad allenarmi a stomaco vuoto, così mi preparava un panino e uno yogurt. Quando se ne andò, abbandonai il calcio per l’hockey su prato. Sei mesi dopo tornai a giocare a calcio, ma alla Stella Rossa.”

Il Partizan 1965/66 finalista di Coppa dei Campioni

Popesku all’inizio degli anni sessanta decide di provare anche esperienze all’estero. Prima di ritornare al Partizan per la storica avventura europea del 1966, allena il Legia Varsavia per una stagione e vince la Coppa di Polonia nel 1964 contro il Polonia Bytom. Poi si trasferisce al San Gallo in Svizzera e successivamente va in Africa per contribuire allo sviluppo del calcio. Dal 1968 al 1970 è l’allenatore della nazionale olimpica del Marocco, ma non partecipa alle Olimpiadi di Città del Messico, poichè la sua squadra subisce il boicottaggio della federazione marocchina, né a quelle di Monaco del 1972, per le quali si qualifica anche se lui se n’è già andato. Popesku resta comunque in Marocco e guida il Kenitra AC per due anni, fino al 1972. L’ultima squadra che allena è il JS Kabylie, nella stagione 1972-73. Un’ultima esperienza ricca di successi, che si conclude con la vittoria del campionato algerino.

Virgil Stanislav Popescu si ritira quindi dal mondo del calcio. Il suo “viaggio inaspettato” si conclude nel 1989, quando muore all’età di 73 anni.