ELKJAER Preben Larsen

Quel gol segnato il 14 ottobre del 1984 contro la Juventus, senza scarpa, dopo aver sfrecciato per metà campo verso la porta avversaria su passaggio di Tricella, fece entrare Preben Elkjaer Larsen nell’olimpo del calcio italiano ed europeo. Attaccante prolifico e molto agile, Preben surclassò Romeo e Giulietta e anche Cenerentola, con quella segnatura senza scarpa ancor prima che scattasse una ipotetica mezzanotte del pallone, un piedone che sorreggeva 1,83 cm di muscoli dal ginocchio in su e che portò in Italia tutto l’estro e la possenza della Danimarca, dai Vichinghi ad Amleto.
Scattante, schioccante e devastante sotto porta, Elkjaer gettò un’aura vitale nel mondo del calcio divenendo ben presto un punto di partenza per tutti gli attaccanti di stampo moderno dagli anni ’90 in poi.

Preben Larsen Elkjaer nasce l’11 settembre 1957 a Kaneoex ed è un bambino quando il padre Soerling si decide a portarlo dal medico perchè cresce troppo. La diagnosi dello specialista a conclusione della visita è degna di Woody Alien: «Complimenti, stiamo preparando un corazziere per la regina.»
Preben riprende a scazzottarsi, ad andare in bici nell’agglomerato urbano di Copenaghen. I suoi pugni sono la cassetta di pronto soccorso a favore degli amici deboli vessati dai violenti. Preben studia controvoglia all’istituto tecnico e segue con affetto il fratello Fleming, centravanti promettente.

A forza di guardar sfide di livello giovanile, gli viene voglia di provare. A 15 anni dopo un’esperienza disastrosa con la squadra del quartiere entra nel vivaio del Copenaghen F.B.: riserva, aiuto magazziniere, inserviente che aiuta a tagliar l’erba del campo, a pulire le scarpe dei più importanti.
Non si sente bello e difatti non lo è: ha il fisico curioso; si muove goffo alla apparenza: è senza collo; ha capelli che tirano al castano chiaro contrariamente ai biondissimi fratelli vichinghi. Si fermerà al metro e ottantatré di statura: un altro dei misteri che è capace di spiegare, considerata la partenza da ipersviluppato

«Fortunatamente – rievoca – mi trasformo col pallone tra i piedi. Non è vero che si nasce grandi calciatori. Quando ho iniziato, in partita non sapevo né leggere né scrivere. Spedivo cannonate sull’autostrada; non centravo mai lo specchio della porta. Credo di aver fatto disperare il primo allenatore con cui sono capitato. Poi d’improvviso, ho aggiustato la mira, un miracolo…».

Copenaghen è il santuario di partenza. I tedeschi del Colonia lo acquistano per quattro soldi: Hannes Weisweiler vuole provare il bisonte d’area che a tradimento sfreccia con la velocità della renna. È il 1975. Addio ai dilettanti della «Dansk Boldspil-Union»: il «brigante» che nessuna nazionale del suo Paese ha finora preso in considerazione, accoglie la proposta professionistica senza rimpianti. Non ha però il miraggio di quattrini; ha solo la prospettiva emozionante di vivere lontano da casa, di andare a donne, di bere whisky, evitando i rimproveri e le punizioni di papà Soerling.
Calcoli completamente sbagliati perchè Weisweiler è il suo più prezioso implacabile torturatore.

Litigano spesso: Elkjaer non è abituato alla disciplina, ai sistemi che voleva imporre.
«Una volta gli spifferano d’avermi sorpreso al night alle ore piccole con la solita bionda accanto e davanti ad una bottiglia di whisky completamente vuota. Weisweiler mi chiama a rapporto, è furibondo. Dice: Ho saputo che la scorsa notte hai bevuto whisky come una spugna. No, neghi? Candidamente replico: mister non è vero niente: era vodka, non whisky…».
Un comportamento che istintivamente lo fa accostare al Chinaglia della Lazio del boom, dell’indimenticabile Maestrelli.

Nella Bundesliga resiste due stagioni, passate tra ammonizioni e squalifiche varie. E’ il 1978 quando in Belgio, esattamente al Lokeren, Preben Larsen Elkjaer piomba con la rabbia in corpo. Innamorarsi dei suoi assoli travolgenti è inevitabile. Mai visto da quelle parti un tipo da «saloon» che sradica palloni con tanta determinazione e si butta in picchiata, lampeggia negli uno-due, chiude il triangolo con bordate da applausi. Il presidente del club lo difende in qualsiasi circostanza, anche quando i tecnici vorrebbero punirlo per certe stranezze, per la solita insofferenza a rispettare le regole del gruppo.

Spesso si presenta agli allenamenti a cavallo e sono scene da «C’era una volta il West». Si giustifica spiegando che preferisce i cavalli agli aerei, alle macchine, a qualsiasi moderno mezzo di trasporto. Gli imprevisti non mancano: in un paio d’occasioni arriva nello spogliatoio, quando i compagni e avversari sono in campo, ad una manciata di secondi dall’inizio della partita.
Coi gol ottiene inevitabilmente il perdono, nel campionato belga firma su 200 partite cento reti in cinque anni. Il Presidente lo adora e non lo cederebbe per nessuna ragione al mondo.

Nel frattempo con la maglia della Danimarca Elkjaer trova la consacrazione negli europei francesi del 1984 di cui la Danimarca è indubbiamente la grande sorpresa. La nazionale bianca e rossa infatti, che si ritiene già soddisfatta per la sola presenza alla fase finale, trascinata da autentici campioni quali Simonsen (pallone d’oro nel 1977) e il giovanissimo Michael Laudrup, stupisce tutti riuscendo prima ad umiliare la Jugoslavia (5-0), poi a sconfiggere il Belgio (3-2) ed infine ad impensierire seriamente la Spagna alla quale deve arrendersi in semifinale solo in seguito ai calci di rigore. Elkjaer, autore di due gol, al ritorno in patria viene accolto come un eroe dai suoi connazionali e la sua popolarità cresce a tal punto che la sua effigie comincia a comparire anche sulle scatole di cioccolatini.

Anche nei taccuini degli osservatori di mezza Europa il suo nome diventa molto popolare tanto che due prestigiosi club quali il Milan e il Real Madrid sembrano ormai sul punto di chiudere la trattativa, ma vengono sorprendentemente beffati dal Verona che grazie al blitz dell’amministratore Rangogni riesce ad assicurarsi l’asso danese.
L’ambientamento è rapidissimo e Preben diventa subito il terrore delle difese italiane e con le sue furiose galoppate a rete trascina gli scaligeri allo storico scudetto 1984/85. Il suo bottino di gol non è stratosferico (8 gol), ma il suo carisma, l’abilità nel creare spazi per i compagni, l’esplosiva potenza fisica e la sua determinazione risultano fondamentali per la conquista del tricolore e facendolo diventare il simbolo e l’idolo di quella magnifica squadra.

Questi i suoi bellissimi ricordi: «Io, il Verona non sapevo nemmeno cosa fosse. O meglio, sapevo che Verona è una città italiana e potevo immaginarmi che ci fosse anche una squadra di calcio, che la rappresentasse. Ma era solo un’intuizione. Perciò rimasi un pò perplesso quando, durante i campionati europei del 1984 in Francia, mi venne fatta la proposta di andare a giocare nell’Hellas Verona… Giunsi a Verona insieme ad Hans Peter Briegel e alle nostre rispettive consorti. Il primo impegno fu quello di sottoporci alle visite di rito. Il secondo di cercare casa. Andammo sul lago di Garda. Ne avevamo sentito parlare e volevamo vederlo di persona. Ci bastò un attimo. Mia moglie, con fare piuttosto autoritario, mi disse: “Preben, noi vivremo qui”..
Il giorno del primo allenamento, prendo l’auto assieme a Peter e vengo a Verona. Mi presentano Bagnoli e lui mi dice: “Ciao”. Un attimo di silenzio e mi porge una domanda: “Dove giochi?”. “In attacco”, risposi. Io non sapevo l’italiano, però quella parola l’avevo imparata. I dialoghi con il nostro allenatore non sono mai stati particolarmente entusiasmanti. Bagnoli è un uomo tranquillo, forse anche un pò timido, e ha sempre parlato molto poco. Lo faceva solo se le circostanze rendevano necessario un suo intervento. Ma il nostro rapporto è stato stupendo. Ci capivamo con uno sguardo…
La fiducia ci venne strada facendo. Dopo tre partite avevo già capito che eravamo fortissimi e che avremmo potuto dire la nostra contro tutte le avversarie…
Alla quinta giornata battiamo la Juventus per 2-0. Segno il famoso gol senza scarpa e da quel momento divento l’idolo della tifoseria gialloblu. Fu un gol strepitoso, il tipico gol che uno sogna di realizzare fin da quando, ancora bambino, comincia a tirare i primi calci ad un pallone».

Per altri tre anni Elkjaer delizia le platee gialloblù garantendo al club scaligero due salvezze tranquille, un prestigioso quarto posto ed altre giornate memorabili (epiche le sfide con Juve e Napoli). In ambito europeo invece le sue ambizioni si infrangono contro lo scandaloso arbitraggio di Wurz che con le sue discusse decisioni regala la qualificazione alla Juventus nella coppa Campioni 1985-86.

Elkjaer tuttavia ha modo di riscattarsi l’estate successiva. Infatti la nazionale danese è protagonista di un’altra splendida avventura, ai mondiali messicani del 1986 (dove erano presenti anche altri gialloblù come Briegel, Di Gennaro, Galderisi e Tricella). I vichinghi iniziano la manifestazione in modo travolgente sconfissero Scozia (1-0), Uruguay (6-1) e Germania (2-0) con Elkjaer che realizza quattro gol in tre partite. I sogni di gloria tuttavia vengono ancora una volta spenti dalla Spagna che si impone negli ottavi con un secco 5-1. A Preben rimane la soddisfazione del quarto posto in classifica cannonieri che si aggiunge ai precedenti riconoscimenti dati rispettivamente dal terzo e secondo posto nel pallone d’oro del 1984 e del 1985.

Nel 1988 all’età di 31 anni Elkjaer a causa dei problemi finanziari della società veneta è costretto a lasciare l’Italia per tornare a giocare in patria nel Vejle, dove termins la propria esperienza in nazionale con all’attivo 69 presenze e 38 gol e dove nel giro di pochi anni appende le scarpe al chiodo.
Esemplare per la grinta e lo spirito di squadra, quando era lanciato poteva travolgere qualsiasi ostacolo tanto era potente. La sua imponente statura fisica ben si completava con l’agilità del piccolo Nanu Galderisi ed, infatti, i due formarono una coppia quasi perfetta. Lo stile di gioco era sgraziato anche se si era addolcito con il tempo e proprio questo modo abbastanza goffo di correre unito però ad una forza di volontà incredibile erano il simbolo di un gruppo di giocatori non molto dotati tecnicamente ma che grazie alla determinazione e la voglia riuscì a raggiungere traguardi impossibili.