Dopo aver vinto tutto, alle Olimpiadi del 1948 il mitico CT cadde in una sottile trappola preparata dalla Federazione.
Nel ventennio che va dal 1929 al 1948 Vittorio Pozzo aveva vinto tutto: due campionati del mondo (Roma 1934; Parigi 1938), un’Olimpiade (Berlino 1936), vantava un incredibile serie di 87 partite con 60 vittorie (!), 16 pareggi, soltanto 11 sconfitte. Eppure bastò che perdesse contro la Danimarca alle Olimpiadi 1948 e fu il benservito. Una sconfitta bene accetta, diciamo pure gradita ai “soloni” della Federcalcio dell’epoca. Spieghiamo il perché.
Pozzo aveva un carattere difficile. Piemontese tutto d’un pezzo; ufficiale degli Alpini; uomo d’altri tempi, dalle collere rapide e tumultuose, così come capace dei più caldi atti di generosa bontà. Insomma, non era facile vivergli accanto. E lavorare al suo fianco. Così il Presidente Federale Ottorino Barassi, gran politico e uomo di innegabili doti, non vedeva l’ora di potersi sbarazzare (salvando la faccia) di quel «rompiscatole» che non accettava un consiglio, che non si piegava ai potenti, che faceva sempre e soltanto di testa sua (grosse similitudini con un certo Enzo Bearzot…).
Ma come fare a dirgli di andarsene, col mito che lo avvolgeva, resistendo all’usura del tempo? Semplice: bastava aspettare una sconfitta, particolarmente bruciante, e il giochetto sarebbe stato fatto. Pozzo, che aveva vinto a Berlino nel 1936, non voleva iscrivere l’Italia all’Olimpiade londinese del 1948. Rileggendo una sua relazione al Consiglio Federale di allora si intuiscono i motivi:
«Tutto e tutti hanno sofferto nel corso della guerra, ma il calcio, esposto com’era materialmente e moralmente, ha subito ma vera e propria devastazione… La massa delle grandi e piccole squadre tira avanti avvalendosi di giocatori anziani o semi-anziani… Dietro di loro c’è il vuoto… Comparire sui campi da gioco voleva dire farsi rastrellare e deportare nei lager: così i giovani sui vent’anni hanno disertato, tutti, la pratica del calcio… L’efficienza del calcio è stata dunque gravemente intaccata dalla guerra. Il livello è sceso di parecchi gradini ».
Così relazionava Vittorio Pozzo nel 1947 e l’anno dopo la Federcalcio, contro il suo parere, decideva di accettare l’invito e partecipare alla XIV Olimpiade, dovendo gli azzurri sostituire la rinunciataria Ungheria nella fase finale dei Giochi. Il segretario del CONI, Zauli, disse subito di sì, imponendo a Pozzo la formula di «squadra universitaria» che già aveva avuto tanto successo a Berlino nel 1936. Barassi è soddisfatto: se Pozzo perde (e deve perdere, non ci sono alternative possibili) finalmente potrà dargli il benservito. Per nominare al suo posto Ferruccio Novo, il creatore del grande Torino, da tempo ambiziosamente alla caccia del posto di Commissario Unico degli azzurri.
SCATTA LA TRAPPOLA
Si comincia negando a Pozzo i giocatori più forti sui quali potesse contare: i granata Bacigalupo, Martelli e Rigamonti, autorizzati a recarsi in Sud America con il Torino per una tournée amichevole. A Pozzo viene promesso che sarebbero ritornati in tempo per giocare a Londra ma successivamente Barassi concesse al Torino di trattenerli oltreoceano fino alla fine della tournée. Poi, c’è Boniperti. E’ già a Cuneo, in ritiro con gli altri, la Juve lo richiede per alcune amichevoli, Pozzo dice di no, la Federcalcio ovviamente dice di sì, e Boniperti parte (facile la scusa: si è detto sì a quelli del Torino, come dire no alla Juventus?). E oltretutto, in Scandinavia, Boniperti si infortuna gravemente ad una gamba, rientra con l’arto ingessato, Londra addio.
La trappola è pronta, scatterà in Inghilterra. L’Italia, raffazzonata alla belle e meglio con giocatori raccogliticci (Casari; il bolognese Guglielmo Giovannini; il padovano Stellin; il triestino Presca, i bustocchi Cavigioli e Turconi; Caprile del Legnano…) batte facilmente gli Stati Uniti, ma toppa di brutto contro la grandissima Danimarca di Pilmark e Jensen, di Praest, John e Karl Hansen, di Ploeger: 3-5.
Lo «scandalo» percuote il nostro calcio fino alle fondamenta, Pozzo viene bruscamente e ingloriosamente esonerato. Ottorino Barassi piange con metà faccia e ride con l’altra metà: finalmente può affidare la Nazionale a Ferruccio Novo, gli azzurri vanno incontro ad una lunga serie di umilianti rovesci fino all’eliminazione precoce ai Mondiali 1950.
MOLTE ANALOGIE
Risultati a parte, saltano all’occhio le analogie fra Pozzo e Bearzot, l’uomo che riporterà il titolo mondiale in Italia nel 1982. Il carattere chiuso ed orgoglioso. La repulsione ad ogni compromesso politico. La fiducia in se stesso e nelle proprie idee. La fedeltà, spinta fino al sacrificio personale, nei propri uomini che con Pozzo e con Bearzot si “sentivano” protetti forse al di là del lecito. Pozzo, tuttavia, era più malleabile di Bearzot alle novità imposte dai fatti. Dicono che fosse un cocciuto conservatore, chiuso agli esperimenti, poco amante del nuovo. Niente di più scandalosamente sbagliato.
E ancora: molti dicevano che Pozzo non era un tecnico, ma un semplice animatore. Faceva cantare il «Piave» negli spogliatoi e mandava in campo gli azzurri nel nome della Patria. Niente di più falso. Più volte uno dei suoi uomini, il bolognese Amedeo Biavati, campione del mondo nel 1938, un testimone diretto quindi, smentì così queste bugie:
«Pozzo non ci fece mai cantare il Piave, né gli Inni della Patria. Pozzo ci galvanizzava parlandoci della partita, dei prossimi avversari, spiegandoci i compiti tattici ad uno a uno, chiarendo cosa voleva da noi. E facendoci giurare che sul campo avremmo dato tutto. Ma per carità non coltiviamo la leggenda del Piave cantato a squarciagola dagli azzurri! Pozzo era un profondo conoscitore del gioco, un tecnico abilissimo, conoscitore unico al mondo del calcio internazionale, amico di tutti i CU e di tutti i giocatori di qualsiasi Nazione, vera enciclopedia vivente del calcio. Pozzo, chi lo ha conosciuto non potrà dimenticarlo mai».
Bene, il “conservatore” Vittorio Pozzo sapete cosa fece in pieno mondiale del 1938? Dopo la prima partita della fase finale (Marsiglia, Italia-Norvegia 2-1 ai supplementari) cambiò tre uomini, azzardando perfino un esordiente in azzurro (Biavati) per giocare pochi giorni dopo a Parigi contro la Francia! Fuori Monzeglio, Pasinati, Ferraris II e dentro Foni, Biavati e Colaussi. E vinse trionfalmente la Coppa Rimet.
Che aveva già vinto quattro anni prima a Roma, con una squadra completamente diversa. Perché, dei campioni del 1934, in Francia erano rimasti soltanto i due interni, Peppino Meazza e Gioanin Ferrari. Mentre Combi, lo stesso Monzeglio, Allemandi, Ferraris IV, Monti, Bertolini, Guaita, Orsi, Schiavio avevano dovuto cedere il posto ai più giovani colleghi. Combi e Schiavio lasciarono spontaneamente per ritirarsi in pieno fulgore atletico col titolo di campione del mondo. Ma gli altri furono via via rimpiazzati da Pozzo, con una serie di innesti ragionati e preziosi, che portarono l’Italia al secondo titolo mondiale.