A Germania 74 l’Italia dei mostri sacri si presentò con la difesa più forte del mondo: nessuno aveva violato la porta azzurra da oltre un anno. L’impresa che non era riuscita a brasiliani, tedeschi e inglesi fu realizzata dal centravanti di Haiti.
«…Facchetti cercò di passare la palla a Riva, ma il passaggio fu intercettato da un nostro difensore in direzione di Philippe Vorbe, il regista di Haiti, e lui mi ha lanciato in profondità verso la porta di Dino Zoff. È stato un duello di velocità e di forza fa me e Spinosi, che cercava di trattenermi per la maglia: gli sono andato via, mi sono presentato davanti a Zoff, l’ho dribblato fintando il tiro e facendo rotolare la palla in rete. In quel magico istante, la mia vita ha preso un altro corso…».
Emmanuel Sanon si illuminava sempre ricordando quel gol, ma non cedette mai alla tentazione della retorica. Eppure persino “France Football” lo inserì nei “Cento eroi della Coppa del Mondo”, definendo semplicemente “il più grande attaccante del football haitiano”. Una definizione strameritata, ma che non sarebbe servita a molto se i suoi gol non avessero portato la poverissima, dimenticata repubblica di Haiti, all’epoca conosciuta solo per la ferocia dei suoi dittatori (Duvalier padre e figlio “Papa Doc” e “Baby Doc”) e dei loro miliziani (i “tontons macoutes”), alla più importante vetrina del mondo moderno, i mondiali di calcio.
L’anno di svolta è il 1973. Un anno trionfale per la nazionale italiana di Ferruccio Valcareggi e per Dino Zoff: nessun gol subito, qualificazione ai mondiali, vittorie prestigiose contro il Brasile campione in carica e l’Inghilterra. Dopo la mitica prima vittoria italiana a Wembley (1-0, gol di Capello), SuperDino avrà addirittura una copertina su “Newsweek”: è il miglior portiere del mondo, arriva terzo al “Pallone d’oro” vinto da Cruijff, è campione d’Italia con la Juventus (il primo scudetto all’età di 31 anni!).
Ma il ’73 è anche l’anno di Haiti e del suo cannoniere ventiduenne, Emmanuel Sanon: la più “africana” di tutte le squadre della Concacaf (il gruppo nordamericano e caraibico) vince il torneo di qualificazione ai mondiali disputato a Port au Prince, nello stadio “Sylvio Cator” sempre traboccante di folla. Un Natale di delirio collettivo (il torneo si era svolto a dicembre) per gli haitiani, che si sentivano i più forti della zona già quattro anni prima, quando la nazionale mancò di un soffio la qualificazione all’ultima coppa Rimet (in Messico andò El Salvador).
Sanon era solo un ragazzo molto promettente a quei tempi, e i senatori della squadra lo trattavano come una recluta: volevano addirittura che lucidasse le loro scarpe. Lui se ne stava in disparte, aspettando la sua occasione, ma già sognava di trovarsi in campo contro Pelé, Rivelino, Jairzinho, Gerson, il leggendario Brasile che trionfò all’Azteca.
In un paese come Haiti, il passaggio dal sogno alla realtà poteva essere molto breve per un calciatore: Sanon era la star dei tornei scolastici, e continuava a studiare quando diventò la punta di diamante del “Don Bosco”, una squadra creata dal nulla da un missionario olandese, padre Diebels, che si impose – a sorpresa nel campionato ’70-71.
Nel giro di pochi mesi Sanon era passato dai campetti di periferia alla nazionale: non c’è da stupirsi se il padre era triste quando “Manno” venne convocato per la prima volta dal commissario tecnico Antoine Tassy. «Ho fatto di tutto per impedirti di giocare a pallone» disse. «Mi sono sacrificato per farti studiare, ma ormai hai preso la tua strada. Non c’è futuro nel calcio. Tu sai che anche i più grandi giocatori di questo paese finiscono in miseria».
Ma Emmanuel era un giovane tanto semplice quanto sicuro dei suoi mezzi: la velocità, il tiro di sinistro, il gioco in acrobazia, tutto il repertorio di una punta di razza. «Un goleador deve essere soprattutto coraggioso, lucido, perfino egoista» spiegava Sanon. «Appena si trova in una situazione interessante sente una voce che dice “lo puoi fare”, anche se c’è una soluzione più facile e migliaia di persone ti osservano…».
Nessuna concessione all’emozione: il vero attaccante castiga i portieri nei tornei di strada e nei più grandi stadi del mondo. Così era Emmanuel Sanon: gol a Pètionville, nelle rabbiose periferie haitiane, gol contro difensori più grossi e più esperti, che puntualmente minacciavano di rompergli una gamba; gol in barba ai vecchi della nazionale che lo trattavano come uno sguattero; gol per difendersi dalle minacce dei farabutti della Federazione haitiana, che promettevano galera o esecuzioni sommarie in caso di sconfitta.
E alla vigilia di Monaco, dell’esordio nella Storia, nell’Olympiastadion che si offriva agli sguardi del mondo intero, la promessa del gol (inaudita) strappata dal giovane despota capriccioso, Jean Claude “Baby Doc” Duvalier, subentrato ventenne al papà, al grande dittatore. Sollecitare l’orgoglio impossibile di una nazione di perdenti, di miserabili, che pure erano i discendenti dei terribili “marrons”, gli schiavi che si ribellarono ai francesi alla fine del Settecento, e umiliarono il corpo di spedizione di Napoleone. Haiti è una nazione nata per miracolo, fregandosene della logica storica. Haiti è una nazione che crede nello spirito dei morti e nella forza di Madre Africa.
E siccome il calcio è mistero, follia e passione, quel giorno a Monaco gli haitiani, presentati della stampa italiana con un’immagine folcloristica ai limiti del razzismo (forse qualcuno si era già dimenticato i famosi “Ridolini” della Corea del Nord) inchiodarono sulle zero a zero gli eroi dell’Azteca, Riva, Burgnich, Mazzola, Rivera, Facchetti, i vicecampioni del mondo. Il portiere haitiano Francillon sembrava indemoniato, imbattibile quasi come Zoff, mai chiamato in causa, che vedeva allungare la sua verginità: mille minuti, millecento, chissà se aveva mentalmente già calcolato anche il secondo tempo di quel nervoso Italia-Haiti.
Sanon, come tutta la squadra, non aveva dormito la notte precedente per la tensione, ma sentiva che se gli fosse capitata l’occasione, poteva farcela. E l’occasione capitò: con gli azzurri catenacciari rovesciati in avanti, il passaggio perfetto di Vorbe sembrava un appuntamento con il Fato, il più classico dei contropiede perpetrato ai danni dei maestri, il fortino sguarnito, Re Zoff abbandonato. Sanon bruciò il campo, e vicino alla mèta, faccia a faccia con il più bravo portiere del mondo, non sparò il tiro della speranza, magari chiudendo gli occhi: colpì di destrezza, costringendo l’uomo del record ad arrancare per terra e guardare mestamente la fine di un mito, perché la Germania fu il tramonto di una generazione di calciatori italiani.
Gol. Il mondo si capovolge ancora una volta: Haiti uno, Italia zero. Non importa che poi, alla fine, l’Italia abbia vinto 3-1 (per poi farsi eliminare da Polonia e Argentina). Non importa che poi Haiti venisse umiliata (7-0) dalla Polonia di Deyna e Lato, di cui gli haitiani non sapevano nulla. Emmanuel Sanon era entrato nella Storia del Calcio. Il giorno dopo gli emissari belgi del Beerschot gli faranno la prima proposta da professionista: la “freccia nera” avrebbe giocato a lungo in Europa, per chiudere poi una dignitosissima carriera in California in coppia con Hugo Sanchez (con cui litigava in continuazione: aveva proprio un caratteraccio).
Un ginocchio malandato lo costrinse a dire addio al calcio e a rifugiarsi a Miami nel 1986. Morì Il 21 febbraio, in Florida, a 56 anni, sconfitto dalla lunga battaglia contro un tumore al pancreas. Il primo ministro caraibico decise un minuto di silenzio per «Manno», l’uomo che «ad Haiti credono ancora abbia sconfitto l’Italia», come disse quel giorno la radio di Port-au-Prince.