La Serie A degli anni ’50 è stata un vero luna park per gli attaccanti: tantissime reti e fior di campioni, per lo più stranieri, a vincere la classifica cannonieri.
Stagione
Capocannoniere
Squadra
Reti
1949-50
Gunnar Nordahl
Milan
35
1950-51
Gunnar Nordahl
Milan
34
1951-52
John Hansen
Juventus
30
1952-53
Gunnar Nordahl
Milan
26
1953-54
Gunnar Nordahl
Milan
23
1954-55
Gunnar Nordahl
Milan
27
1955-56
Gino Pivatelli
Bologna
29
1956-57
Dino da Costa
Roma
22
1957-58
John Charles
Juventus
28
1958-59
Antonio Valentín Angelillo
Inter
33
1959-60
Omar Sívori
Juventus
28
Gunnar Nordahl
CAPOCANNONIERE NEL 1949/50; 1950/51; 1952/53; 1953/54; 1954/55
Arrivò in Italia tardi, a 28 anni, con alle spalle una carriera gonfia di gol: addirittura 43 in 33 partite con la Nazionale, con cui aveva vinto il titolo olimpico 1948; era stato quattro volte capocannoniere in patria (‘43, ‘45, ‘46 e ‘48), con quattro scudetti e una Coppa di Svezia. Sicché non stupisce che il 22 gennaio 1949, al suo approdo alla stazione di Milano, a campionato inoltrato, lo attendessero ben tremila fan rossoneri. Ripagò l’attesa con la sua miscela di potenza inarrestabile (era alto 1,80 e pesava 95 chili!) e classe. Vinse due scudetti e una Coppa Latina e cinque volte la classifica cannonieri. Lo chiamavano il “pompiere”, perché in patria era quello il suo mestiere, e anche il “bisonte”, perché la sua carica in area era travolgente. È morto ad Alghero, in vacanza, nel settembre del 1995.
John Hansen
CAPOCANNONIERE NEL 1951/52
Alla fine, la birra c’entrava davvero. John Hansen era un gran califfo dell’area di rigore, la Juventus lo aveva ingaggiato con la “febbre danese” del 1948, dopo la sconfitta della nostra rappresentativa alle Olimpiadi contro appunto quella di Danimarca. All’inizio era sembrato una bufala, al punto che Gianni Agnelli mandò il Ct azzurro Pozzo a controllare che fosse veramente quello delle Olimpiadi e non un omonimo. Poi, completato un non semplice ambientamento, non appena fu cacciato dalla panchina il gìnnasiarca Chalmers, che lo annientava coi suoi massacranti carichi di lavoro in allenamento, esplose in tutta la sua potenza.
Gol a grappoli, la gran parte di testa, sui cross del connazionale Praest e del frugoletto Muccinelli che imperversavano sulle fasce. Due scudetti, poi quella storia della birra. La Carisberg lo voleva come dirigente, la Juve, piuttosto che perdere quattrini con un suo abbandono, preferì cederlo alla Lazio. Dove riprese a bombardare i portieri. Allora la storia della birra era una montatura per spuntare un ingaggio più alto? Niente affatto, tant’è vero che l’anno dopo, ad appena 31 anni, rescisse il contratto col club biancoceleste appunto per dedicarsi alla distribuzione della birra danese.
Gino Pivatelli
CAPOCANNONIERE NEL 1955/56
Fu un ragazzo prodigio del calcio italiano. Superata una disavventura nell’Inter (dove approdò a 15 anni per essere completamente ignorato), esplose giovanissimo nel Verona, segnalandosi come interno d’attacco, come si diceva all’epoca, con scatto bruciante e tiro mortifero. Ingaggiato dal Bologna, approdò rapidamente alla Nazionale, dove tuttavia la carenza di interni di grande valore perdurante dall’epoca della perdita di Mazzola e Loik ne suggerì l’impegno come mezzala “di spola e di slancio”, cioè in una posizione di centrocampista che non sentiva sua.
Non appena potè trasformarsi in centravanti puro, esplose in tutta la sua forza dirompente di attaccante agile e tecnico, dal tiro proibito. Colse le migliori soddisfazioni a fine carriera, vincendo nel Milan di Rocco lo scudetto e la Coppa dei Campioni e trovando pure qualche saltuario impiego come difensore centrale, seguendo le invenzioni del grande stratega triestino.
John Charles
CAPOCANNONIERE NEL 1957/58
La sorte di campione di uno dei più grandi cannonieri della storia del calcio si deve a un maggiore inglese, Jeff Buckley, allenatore del Leeds United, convinto che il vero giocatore sa disimpegnarsi in più ruoli. Aveva sotto mano un ragazzone di 1.87 di altezza per 90 chili di peso baciato dall’agilità di una gazzella: gli fece fare il terzino destro per migliorargli il piede meno felice, poi lo schierò “centrosostegno”, cioè stopper, facendolo approdare in Nazionale. Un giorno, però, Buckley ebbe una nuova idea e fece indossare a John Charles la maglia numero 9. Era fatta. Il suo torreggiare in area cominciò a produrre gol in serie. Divenne “the king of soccer“, il re del calcio, e come tale approdò alla Juventus, fortemente voluto dal giovane presidente Umberto Agnelli.
Implacabile di testa, sia nel gol sia nell’assist per il velenoso Sivori, abile coi piedi nelle irresistibili percussioni in area, Charles fece risorgere la Juve. portando tre scudetti e due Coppe Italia in cinque stagioni. Memorabile non solo la sua classe, ma anche la sua generosità di campione e la lealtà in campo: era capace di abbandonare un’azione da gol per sincerarsi di non aver causato danni all’avversario. Se ne andò dall’Italia tormentato da problemi familiari, chiuse nel suo Galles prima di vivere un davvero poco fortunato dopo-calcio.
Dino Da Costa
CAPOCANNONIERE NEL 1956/57
Si rivelò nel corso di una tournée europea del Botafogo. Ingaggiato dalla Roma, si rivelò centravanti di razza. Fisico aitante, scatto felino, tecnica di prim’ordine, divenne il trascinatore della squadra, conquistando il singolare primato di super-cannoniere dei derby capitolini, tra campionato (9 reti) e Coppa Italia (4). Approdato alla Fiorentina, il suo rendimento venne limitato dal servizio militare e poi dalla perdita del “faro” Montuori, eppure vinse Coppa Italia e Coppa delle Coppe, ma fu rispedito al mittente e non ritrovò più le antiche misure di cannoniere, giocando comunque da ottima mezz’ala.
Antonio Valentin Angelillo
CAPOCANNONIERE NEL 1958/59
È il primatista assoluto di gol nei campionati a diciotto squadre. Nessuno ha segnato come a lui niscì nel 1958-59: 33 in altrettante partite. Fu un exploit isolato, per la verità, perché Antonio Valentin Angelillo non seppe più ripetersi a quei livelli. Classe ne aveva da vendere, si era rivelato giovanissimo come perno centrale del trio degli “angeli dalla faccia sporca” con Maschio e Sivori, trionfatori del Sudamericano 1957 a Lima, ed era arrivato giovanissimo in Italia, corte di Angelo Moratti, che non badava a spese per fare grande l’Inter. Dopo una prima stagione più ombre che luci, l’exploit del record ne fece un beniamino della folla, orfana del veleno di Lorenzi.
Ma arrivò Helenio Herrera e non gradì il flirt tra il rubacuori argentino e la ballerina Ilya Lopez, nome d’arte del più prosaico Attilia Tironi da Brescia. Nel 1961 Angelillo venne ceduto a peso d’oro alla Roma, su consiglio di Herrera, per ingaggiare il regista spagnolo Suarez, che infatti avrebbe fatto volare l’Inter verso le stagioni più belle della sua storia. Per l’angelo dalla faccia pulita l’incantesimo era ormai spezzato. Alcune buone stagioni, un paio di comparsate al Milan (con contorno di scudetto e Coppa delle Coppe) e una malinconica chiusura, in B, in rossoblù a Genova.
Omar Enrique Sívori
CAPOCANNONIERE NEL 1959/60
Per coloro che per motivi anagrafici l’hanno conosciuto come serioso e perfino troppo rigido commentatore (e moviolista) televisivo, sgranerebbero gli occhi di fronte all’Omar Sivori che fu. Le sue “crisi isteriche”, come venivano definite dalla stampa, quelle furibonde liti con arbitri e avversari che ne impinguavano il record personale di squalifiche, erano famose quanto le sue impareggiabili veroniche. Era interno di punta, ma in pratica attaccante, velenoso e beffardo per quanto gli consentiva un sinistro capace di far entrare un filo nella cruna dell’ago. Gli piaceva il tunnel, tornare indietro a dribblare nuovamente l’avversario già saltato. Gli piaceva il gol ed essere primadonna.
Arrivò come “angelo dalla faccia sporca” in una Juve che aveva giusto bisogno del gigante Charles e del suo piccolo complemento argentino dalla testa grossa (“el cabezon”) per arrivare ai vertici. L’uno apriva gli spazi col suo generoso coraggio, l’altro ne approfittava e ricambiava i favori con i suoi scarti imprevedibili e le sue invenzioni geniali. Vinse tre scudetti e tre Coppe Italia, seminò vittime tra gli allenatori, finché ne trovò uno, il paraguaiano Heriberto Herrera, feroce ginnasiarca del “movimiento“, che ne pretese e ottenne la testa da casa Agnelli, di cui l’argentino era il preferito. In effetti la Juve vinse lo scudetto, mentre Sivori, un Maradona ante litteram, andava a far esplodere il tifo napoletano assieme ad Altafini, in una Fuorigrotta di spettacolo allo stato puro. Chiuse quando ormai le squalifiche superavano le possibilità di giocare…
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