ZIGONI Gianfranco: tra Che Guevara e Padre Pio

Imperversò tra gli anni Sessanta e Settanta: attaccante di talento, amava dissacrare il sistema. Gli piacevano le armi e nei ritiri si divertiva a prendere di mira i lampioni. Assieme a Mascalaito, suo compagno al Verona, e per la disperazione di Valcareggi, allenatore dell’Hellas all’epoca.

«Finché un giorno – racconta Zigo-gol – a caccia, colpii un merlo, che cadde vicino a un laghetto. Mi avvicinai per raccoglierlo e incrociai il suo sguardo. Lui era ferito, ma vivo, e i suoi occhi mi dicevano: “Brutto bastardo che non sei altro”. Mi sentii un mostro. Lo strozzai per non farlo soffrire, gettai la carabina e mi ferii volontariamente alla fronte con il filo di ferro di un vitigno. Sanguinavo. Il giorno successivo vendetti i fucili».
Zigo-gol, il ribelle col cuore grande.

Nei turbolenti inverni degli anni Settanta era solito indossare una pelliccia bianca e portava la pistola infilata nella cinta dei pantaloni. «Sognavo di morire sul campo, con la maglia del Verona addosso. M’immaginavo i titoloni dei giornali e la raccolta di firme per cambiare il nome allo stadio: non più Bentegodi, ma Gianfranco Zigoni. La radio avrebbe gracchiato: “Scusa Ameri, interveniamo dallo Zigoni di Verona…”. Ero pazzo furioso».

Così si racconta Gianfranco Zigoni, detto Zigo-gol.
Zigoni come Ezio Vendrame, anarchico era e tale è rimasto.
Vive in un paesone di origini romane, l’antica Opitergium, ma non vuole che se ne faccia cenno: «Guai a voi se nominate questa cittadina». Ok Zigo, ma un posto bisogna indicarlo. «Scrivi che ci siamo visti al quartiere Marconi, il mio Bronx. Da bambino ci giravo armato di fionda, più cresciuto tenevo sotto controllo il territorio con la carabina».

In realtà l’incontro si consuma alla cascina Vallonto, nelle campagne del paese innominabile.
Un casale di fine Ottocento, con la vigna e le galline ruspanti, proprietario Giovanni Vendrame, nessuna parentela col Vendrame di cui sopra, ma un passato calcistico degno di rispetto.
«E’ stato il capitano dell’Opitergina per tanti anni».
Con Zigo c’ è il nipote, Giancarlo Bruniera: sono le undici del mattino e si stappa la prima bottiglia di bianco. Seguiranno bicchieri di rosso, salame e uova sode. Zigo spiega: «Qui veniamo a ritemprarci, a fare i nostri ritiri spirituali».
Alle pareti tante foto di Zigo calciatore, il motto «la gloria è tutto e il tutto è nulla» e tre immagini dominanti: Ernesto Che Guevara, con la scritta «o patria o muerte», Padre Pio e la Madonna.

Zigo illuminaci: com’è possibile conciliare il Che con il santo di Pietrelcina e con l’Immacolata?
«Mai sentito parlare di Gesù Cristo? Questo signore, duemila anni fa, è venuto sulla terra per dirci che gli uomini sono tutti uguali. E il Che cosa predicava? Che in ogni parte del mondo bisogna combattere l’ingiustizia. Il Che e Gesù sarebbero andati d’accordo, ma stà attento: io non sono comunista, per quanto sia fedele al calcio di una volta. Voglio dire: per me il numero 7 è l’ala destra e l’11 è l’ala sinistra».

Ok Zigo, però il Che e Fidel Castro, a Cuba, hanno fatto una bella rivoluzione comunista.
«Io non posso dirmi tale perché a me i soldi non fanno schifo, nel senso che ne riconosco l’importanza. Senza denaro non si vive. Ho quattro figli e, per quanto una sia già avvocato e si mantenga da sé, a quelli minorenni devo comprare i jeans e le scarpe da ginnastica. Faccio acquisti, dunque sono consumista, non comunista. In più ho il telefonino».

Perché? E’ grave?
«Gravissimo, ma sono stato costretto ad arrendermi. Mia moglie non si fida, vuole sapere subito in quali guai mi infilo».

Zigo s’infervora. «A me ribolle il sangue quando sento i calciatori lamentarsi. Ueh, ragazzi: andate a fare un giro in miniera. Mio padre si è rovinato i polmoni a furia di lavorare nella fabbrica delle schifezze, uno stabilimento che ha ammazzato tanta gente di questo posto. Mio padre è morto e lui, il padrone, vive in un castello con parco annesso. Queste sono le ingiustizie. Se fosse vivo il Comandante… Io da giovane volevo fare la rivoluzione».

E invece, caro Zigo, facevi il calciatore.
«Ma non ho mai frequentato il gregge. Ho accumulato più giorni di squalifica che gol perché non sottostavo ai soprusi degli arbitri. Dicono: bisogna credere alla buona fede di quei signori. Ma per favore, ho visto furti inimmaginabili e ho pagato conti salatissimi. Una volta mi diedero sei giornate di squalifica e trenta milioni di multa perché dissi a un guardalinee di infilarsi la bandierina proprio là. Trenta milioni degli anni Settanta: all’epoca con quei soldi compravi due appartamenti. Il prezzo della mia libertà di opinione».

Gli aneddoti sgorgano («Ho un unico rimpianto, essermi tagliato i capelli alla Juve: ma ero troppo giovane, non avevo la forza di ribellarmi agli Agnelli») e si arriva a Pelé:
«Sta’ a sentire, io avevo una grande opinione di me. Pensavo di essere il più forte calciatore sulla terra. In campo odiavo l’avversario e lo colpivo col mio pugno, che era micidiale. Fuori gli volevo bene e lo invitavo a bere un whisky. Un giorno, alla Roma, capita di incontrare il Santos di Pelé. In amichevole, all’Olimpico. Mi dico: “Oeh, giustizia sarà fatta, oggi il mondo capirà che Zigo-gol è più forte di Pelé”. Lo aveva già detto Trapattoni dopo un Genoa-Milan 3-1 degli anni Sessanta, tripletta mia. “Ragazzi – dichiarò il Trap quel giorno – Zigoni è meglio di O Rei”. Lo aveva ammesso Santamaria, gran difensore, dopo una sfida Juve-Real Madrid. Io avevo fatto impazzire il Santa, finte e tunnel, e quello a fine partita si rivolse così a Sivori: “‘Sto chico è migliore del negro”. Ero convinto della cosa, mi sentivo più bravo di Edson Arantes e di tutti i suoi cognomi. Poi arriva l’amichevole col Santos, vedo Pelé dal vivo e mi prende un colpo. Madonna, che giocatore. Ho una botta di depressione, di malinconia, penso che a fine partita annuncerò in mondovisione il mio ritiro dal calcio. Mi preparo la dichiarazione in terza persona: “Zigoni lascia l’attività, non sopporta che sul pianeta ci sia qualcuno più forte di lui”».

Perché cambiasti idea”?
«A un certo punto il Santos beneficia di un rigore, Pelé va sul dischetto e Ginulfi, il nostro portiere, para. Allora è umano, penso, e così resto giocatore».

Chiusura mistica: «Cristo e il Che sono gli unici immortali transitati sulla terra. Loro vivono, noi siamo morti».

Testo di Sebastiano Vernazza

Gianfranco Zigoni nell’estate del ’61 approda al settore giovanile della Juventus e debutta in A con la maglia bianconera all’età di 17 anni e 15 giorni il 10-12-1961, in Udinese-Juve 2-1. Alla Juventus rimane fino al 1964, poi un biennio al Genoa (1964-1966), dove diventa un idolo della gradinata Nord (8 gol in A e 8 in B). Nel ’66 il ritorno a Torino: vince lo scudetto del ’67 e resta fino al ’70.
In totale, con la maglia bianconera, Zigoni colleziona 86 presenze e 23 reti in serie A. Zigoni si esibisce nella Roma per due stagioni, dal ’70 al ’72, e in campionato gioca 49 partite e segna 12 reti. Nel ’72 il ritorno al Nord, a Verona. Questo il suo bilancio in gialloblù: 106 gare e 20 reti in A, 33 gettoni e 9 centri in B. Zigoni chiude la carriera professionistica a Brescia: due anni in B, dal 1978 al 1980, 40 gare e 4 gol.
In Nazionale Zigo-gol vanta una presenza, il 25-6-1967 a Bucarest, Romania-Italia 0-1, partita valida per le qualificazioni all’Europeo ’68.

E PER FINIRE…

Quella volta… che Valcareggi lo escluse dalla formazione titolare del Verona, e lui si presentò in panchina a Bentegodi con una pelliccia di volpe e un cappello da cowboy. «Ma la domenica dopo il vecchio Valca mi fece giocare».

Quella volta… in cui si fece cucire la Zeta («Di Zigoni e di Zorro») sui pantaloncini. «Fui il primo, trent’anni fa non si usava. E fui anche il primo a giocare con le scarpe rosse e gialle. Sono sempre stato uno spirito libero, ero sempre me stesso, nel bene e nel male: non come i calciatori di oggi che sembrano fatti con la fotocopiatrice. A quei tempi, giravo in Porsche. Oggi ce l’hanno tutti. E allora vado in bici».

Quella volta… che in ritiro con la nazionale Juniores tirò addosso a Boninsegna una palla da biliardo. «Era appena arrivato in Nazionale e voleva fare tutto lui: battere le rimesse laterali, le punizioni, i calci d’angolo e allo stesso tempo andare a colpire di testa. Gli ho fatto capire chi comandava». Mancò di un niente l’occhio di Bonimba, che da quel giorno girò al largo dalle punizioni e calci d’angolo.

Quella volta… che ebbe una discussione con l’allora allenatore della Juventus Heriberto Herrera, lo alzò da terra, chiamò la squadra sotto la finestra della sua stanza e lo lasciò ciondolare nel vuoto per un paio di minuti. «Cominciò lui, perché mi diede a freddo un pugno sullo stomaco. A quel punto non ci vidi più: meritava una lezione».

Quella volta… che andò a discutere il contratto col presidente del Verona Garonzi e sapendo che questi teneva una pistola nel cassetto della scrivania, aspettò il momento opportuno, aprì il cassetto, prese al volo la pistola e gliela puntò. Uscì dall’ufficio con un sostanzioso aumento.

Quella volta… a che all’esordio in Nazionale a Bucarest nel ’67 giocò («Divinamente, d’altronde ero il più forte…») solo un tempo, poi nella ripresa decise che era meglio riposare. «Faceva un caldo terribile. Nel secondo tempo Rivera andò a cercarsi l’ombra sotto la tribuna, e gli altri fecero più o meno lo stesso. E perché io dovrei essere l’unico a correre?, pensai. Esordiente sì, ma cretino no». L’Italia vinse, ma da quel giorno “Zigo” non giocò più in maglia azzurra.

Quella volta… che dopo un Lazio-Juve uscì in mutande all’Olimpico, perché il difensore che lo marcava non riuscendo a stargli dietro gliele aveva sfilate. «Con le regole di oggi, se qualcuno cercasse di fermare uno come Zigo si beccherebbe il cartellino rosso dopo cinque minuti. Dicono che una volta si giocava al rallentatore? Balle. Questi di oggi corrono, perché non sanno fare altro. Si chiamano “calciatori” perché calciano tutto quello che gli capita sotto tiro. Noi eravamo “giocatori”, perché ci piaceva giocare».

Quella volta… che alla Roma prima di una punizione dal limite finse di litigare con Bob Vieri (il padre di Christian) e cominciò a tirargli la barba. «Era un modo per far perdere la concentrazione al portiere». Inutile dire che tirò la punizione e segnò.

Quella volta… che l’amico Logozzo protestò perché in ritiro tutta la squadra era costretta ad alzarsi alle 8 mentre Zigo poteva starsene a letto fino a quando gli pareva. «Valcareggi lo prese da parte e gli disse: quando avrai anche tu due piedi come Zigoni, allora potrai dormire fino a mezzogiorno».

Quella volta… che sulla sua Porsche azzurra, per evitare un trattore, uscì di strada, fece due-tre capriole, finì in un fosso, distrusse la macchina, non si fece un graffio e si finse morto. «Stavo tornando a casa dopo l’allenamento, ma andavo piano, te lo giuro. Dietro di me e ‘erano Maddè e Costa, il medico del Verona. Scesero dalle loro auto e corsero a prestarmi soccorso. Appoggiai la testa sul volante e finsi di essere morto: quando si avvicinarono di corsa al finestrino, sorrisi e gli feci l’occhiolino. Per poco non schiattarono lì sul posto».

Quella volta… che sognava di morire sul campo, con la maglia del Verona addosso. “M’immaginavo i titoloni dei giornali e la raccolta di firme per cambiare il nome allo stadio: non più Bentegodi, ma Gianfranco Zigoni. La radio avrebbe gracchiato: ‘Scusa Ameri, interveniamo dallo Zigoni di Verona…’”

Quella volta… che nel corso di un Verona-Vicenza, amichevole di fine stagione (con Vendrame dall’altra parte: che partita!), si destò dal suo torpore endemico, saltò in dribbling 4 avversari e infilò il pallone all’incrocio dei pali, salvo poi andare dritto negli spogliatoi, a 20 minuti dalla fine della gara. Risultato? Gli ultimi 20 minuti si giocano in un silenzio assoluto, perchè il pubblico ha abbandonato letteralmente lo stadio quando il suo idolo ha deciso di uscire dal terreno di gioco.

Quella volta… che si è guardato alle spalle. «Sono stato fortunato. Mi sono divertito un sacco. Rifarei tutto, non rimpiango niente. Ho giocato a calcio per vent’anni (ha esordito nel ’61, a diciassette anni, con la Juve, poi ha vestito le maglie di Genoa, Roma, Verona e Brescia, dove ha chiuso nel 1980, n.d.a.) e dappertutto mi hanno voluto bene. Sto bene con me stesso, e questa è la cosa più importante. Adesso insegno ai bambini a giocare a calcio (è responsabile della scuola calcio dell’Opitergina)»

Quella volta… che disse: “Sono il Pelé bianco”. «E il bello è che qualcuno finì per crederci, io per primo…».