1970 – Burgnich: «Caro Valcareggi quella staffetta non te la perdono…»

«Due campioni come Rivera e Mazzola bisognava farli giocare assieme» – «Il momento più critico di quel mundial fu quando Pelé mi sovrastò di testa e segnò il primo gol nella finale» – «Il momento più esaltante fu il gol di sinistro che infilai alle spalle di Maier nella leggendaria semifinale»

Ci sono calciatori che a definire emblematici non c’è rischio di errore: tra questi Tarcisio Burgnich. Il suo emblema è quello della roccia inscalfibile.
In campo come nella vita, non era quel che si dice uno stilista, un raffinato: diceva pane al pane nei discorsi fuori dal campo e si impegnava a fondo sul terreno di gioco in virtù di una forza di carattere che per prima cosa lo imponeva agli avversari consentendogli di vincere sfide «a uomo» contro elementi di autentica classe.

Era un sincero ammiratore di Gigi Riva in quanto gli somigliava e per la verità non poteva tanto soffrire quei giocatori che appena sfiorati ai rotolavano per il campo invocando il massaggiatore o il medico. Proprio per questo Tarcisio Burgnich apparteneva alla categoria dei duri.

In questa immagine c’è anche il Burgnich dei mondiali in Messico con quel premio per lui forse di più alto valore conquistato nel momento in cui la squadra azzurra era sul punto di perdere con la Germania ai supplementari della semifinale all’Azteca. Con un sinistro per lui inconsueto Burgnich pareggiò: era un gol rabbioso, prezioso ed appagante.

La mitica rete di Burgnich contro la Germania Ovest

Partiamo dalla finale contro il Brasile….
«Diciamolo a voce alta: non è assolutamente vero che noi non ci fossimo battuti anche contro il Brasile quel giorno di giugno a Città di Messico. E’ che il Brasile era fantastico e aveva dentro elementi cosi abili sia in difesa sia in attacco sia a centrocampo da non temere rivali».

Vuol dire un Brasile di molto superiore a quello che incontrammo a Barcellona nel Mondiale 1982?
«Non faccio confronti, non mi è mai piaciuto e poi sarebbe stolto procedere a un simile esercizio. Nel calcio una partita è un momento: un momento felice o amaro, determinato da un colpo a sorpresa da una parte o dall’altra. Cito proprio l’esempio di Brasile-Italia finalissima mondiale del ’70: quando Pelè saltò molto più in alto della mia testa per infilare quel pallone imprendibile dentro di me pensai: adesso è fatta, ci danno una lezione da memoria a memoria per il resto della nostra vita. Invece pareggiò Boninsegna. Non solo, ma un tiro magnifico di Riva tre o quattro minuti dopo sfiorò il palo a portiere battuto. Non è finita: nel secondo tempo cl provò subito Domenghini. Ho ancora in mente quel diagonale che attraversò lo specchio della porta con Felix attonito a guardare ansioso e quasi smarrito la traiettoria della palla: sul fondo di un nulla».

Se quei palloni fossero entrati lei vuol dire…
«Intendiamoci: dire che noi avremmo vinto sicuramente non è possibile. Però neppure avremmo perduto 1-4 che sa di resa a discrezione. Né insisto troppo sul fatto che noi eravamo ormai con la testa in Italia, che avevamo praticamente già fatto le valigie. Semmai eravamo con le gambe tagliate per i supplementari con la Germania. Ricordo che il dott. Franchi presidente federale il mattino della partita decisiva mi chiese come andasse; sono rimasto tre giorni a letto per riposarmi — gli risposi — per essere pronto contro il Brasile. Però in campo nel secondo tempo, fallito il gol del vantaggio e subito quello dell’1-2, ci fu il crollo Umanamente giustificabile».

Inseguendo Pelè

Con quel che segui…
«Giusto: a momenti a Roma ci ammazzano! L’unico a non essere contestato era Rivera. A me sembrava di vivere un incubo. Non riuscivo a rendermi conto della situazione: ma come, un secondo posto si traduceva in fughe vertiginose per non… buscarle? Persino il pullmino dell’Alitalia volevano rovesciare, cose da pazzi».

Lei ha citato Rivera. Quanto ha inciso il suo atteggiamento in generale null’economia del clan sotto il profilo della serenità?
Tarcisio Burgnich è un friulano senza peli sulla lingua. Non attende un attimo per rispondere:
«Che cosa volete che abbia inciso? Proprio nulla. La sua presa di posizione all’arrivo a Città di Messico era stata subito congelata da Walter Mandelli. Sia lui sia il dott. Stacchi avevano ritenuto giusto attendere l’arrivo di Artemio Franchi che sarebbe giunto entro pochi giorni. Cosi la cosa si sbollì rapidamente solo che la stampa si impadronì di quell’episodio e lo trasformò in una sorta di caso nazionale. Però a noi non fece alcun effetto».

D’accordo, ma lei giudichi la vicenda non da ex compagno di Rivera ma sotto il profilo tecnico, da allenatore…
«Allude alla staffetta con Mazzola? Bene, rispondo subito: io avrei trovato la maniera di farli giocare entrambi. Intanto personalmente ritengo che quando due calciatori possiedono requisiti tecnici di alto valore non possono essere estromessi dal gioco. Un giocatore lo si accetta per quel che vale se lo si stima. Altrimenti non lo si prende in considerazione. Diciamo che una nazionale è una selezione tra molti. Nessuno impedisce di lasciare a casa per una certa valutazione questo o quel giocatore Nessuno può polemizzare in questo senso. Può essere una decisione conseguente a un disegno, a un programma tattico prestabilito».

Ma nel caso di Mazzola e di Rivera non si è trattato di questo.
«Difatti: sono arrivati entrambi in Messico ed entrambi hanno dovuto trangugiare bocconi amari e a me questo non pareva allora e non mi pare oggi giustificabile».

Burgnich a terra, Pelè è appena caduto dal cielo

Che cosa vi ha portati avanti in Messico? In fondo eravate partiti dall’Italia in mezzo a una serie di incognite.
Opinione di Tarcisio Burgnich è che Valcareggi riuscì a formare un gruppo compatto, gente che gli credeva, gente che sapeva ciò che si poteva ottenere nonostante molti fattori contrari, primo fra tutti l’altura.
«L’altura io l’avevo conosciuta molto prima quando ero stato in Messico con l’Inter. Nella prima settimana ci si trova in notevoli difficoltà. Se spendi dieci per ricuperare, in campo, sei costretto a pause prolungate anche di cinque minuti. Direi che i brasiliani e gli uruguaiani vanno a nozze in altura perché abituati nel breve. Io ricordo, per citare un esempio, la fatica tremenda cui venni sottoposto nella partita contro il Messico: c’era all’ala un certo Valdivia che sgusciava da ogni parte e che mi costringeva a contrasti incessanti, a ricuperi insistenti. Confesso che nel momento in cui il suo allenatore decise di sostituirlo con Velarde, in quanto si era un po’ azzoppato, tirai il fiato. Sì, tirai il fiato nel vero senso della parola: cominciai a respirare normalmente».

Però la soddisfazione più sentita, più viva, Tarcisio Burgnich ammette di averla provata nel segnare un gol importantissimo.
«Fu quando infilai la porta di Maier all’8’ del primo tempo supplementare, pareggiando quattro minuti dopo il gol di Muller che aveva portato in vantaggio i tedeschi».

Si ricorda questo suo gol?
«Caspita, ci mancherebbe. E lo ricordo per una… squisitezza che molti non sanno: lo segnai di sinistro, un vero record per un destro come me. Ed ora vi dico anche due altre cose: la prima è che si favoleggiava di una mia renitenza ad avanzare. Quando era il caso ed il momento io mi trovavo puntuale anche sotto la rete avversaria».

Ogni mezzo per fermare O’Rey

E la seconda… confessione?
«Non si tratta di una confessione ma di una conferma per quanto ho detto sull’importanza di talune presenze in campo: ebbene avevo seguito il mio avversario che era Held retrocesso verso la sua area di rigore e nel contempo Rivera si era reso conto della mia posizione: dalla destra mi fece pervenire un… messaggio speciale cioè un cross cosi calibrato che a non raccoglierlo per spedirlo in porta sarebbe stato… un delitto. Cosi alzai il sinistro impattai alla perfezione e confezionai un gol per me veramente eccezionale».

L’amicizia di gruppo: questo secondo Burgnich la prima componente che ha tenuto assieme la nazionale in Messico, che le ha consentito un traguardo sicuramente stimabile al di là delle passioni di parte.
«Quattro anni prima la campagna di stampa contro l’Inter da una parte, per il Bologna dall’altra e persino per la Juventus, aveva reso velenoso l’ambiente. Io sono persuaso che la Corea sia nata anche per quello. Dico nata nel senso di determinata perché è impossibile perdere una partita come quella mangiandosi perlomeno otto occasioni per pareggiare. Ma non è di questo che voglio parlare: dico soltanto che in Messico i clan non esistevano: anche se il Cagliari offriva Albertosi, Cera, Domenghini, Riva e l’Inter contrapponeva numericamente Facchetti, Bertini, Mazzola, Boninsegna e il sottoscritto: come dire due clan riuniti e in piena armonia. Gli… intrusi erano Rosato, Rivera, De Sisti: ma averne di simili compagni!».

Era una formazione che nei singoli dava probabilmente un tasso tecnico elevatissimo: «Se Gigi Riva avesse potuto rendere come nella gare premondiali, non so se il Brasile ci avrebbe battuto».

  • Intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport, 1986