Pelé, la NASA e il segreto del Brasile ’70

Il Brasile aveva un piano folle: preparare una squadra di calcio come se dovesse andare nello spazio. Dai laboratori della NASA agli stadi messicani, ecco come nacque la squadra più bella di tutti i tempi.

Il 1966 segnò una frattura profonda nella storia del calcio brasiliano. La Seleção, che aveva dominato il calcio mondiale per otto anni con due titoli consecutivi, si trovò improvvisamente vulnerabile sul terreno inglese. Non era solo una sconfitta, era la fine di un’illusione: quella dell’invincibilità del calcio-samba.

La squadra non era molto diversa da quella che aveva trionfato in Cile quattro anni prima. C’erano ancora loro, Pelé e Garrincha, i gemelli del gol che avevano fatto sognare il mondo. Ma qualcosa era cambiato. Il calcio europeo aveva evoluto il suo gioco, puntando sulla preparazione fisica e sulla disciplina tattica. Contro Ungheria e Portogallo, il Brasile sembrò una squadra fuori dal tempo, incapace di reggere il ritmo e l’intensità degli avversari.

Per João Havelange, presidente della CBD, fu un colpo durissimo. Aveva costruito un impero economico intorno alla Seleção, organizzando tournée lucrative in tutto il mondo. Il Brasile era diventato un prodotto di esportazione, ma ora quel prodotto sembrava obsoleto.

La reazione dei tifosi fu spietata. Per la prima volta, misero in discussione anche “O Rei” Pelé, fino ad allora considerato intoccabile. Il calcio brasiliano aveva bisogno di un cambiamento radicale, e l’arrivo di João Saldanha come nuovo selezionatore sembrava confermarlo. L’uomo che aveva osservato con attenzione l’evoluzione tattica europea era pronto a guidare la rivoluzione. 

La Rivoluzione Scientifica

Nel 1968, le Olimpiadi di Città del Messico fornirono alla CBD un’inaspettata lezione. Gli atleti brasiliani, tormentati dall’altitudine e dal caldo torrido, tornarono in patria con una consapevolezza cruciale: per vincere il prossimo Mondiale, in programma proprio in Messico, serviva una preparazione scientifica senza precedenti.

Fu in questo momento che la CBD ebbe un’intuizione rivoluzionaria. Se qualcuno sapeva come preparare esseri umani a condizioni estreme, quello era il programma spaziale americano. La NASA stava addestrando astronauti per sopravvivere nello spazio – perché non applicare quelle conoscenze al calcio?

Le relazioni amichevoli tra il regime militare brasiliano e gli Stati Uniti facilitarono il contatto. Un gruppo di ufficiali dell’esercito brasiliano fu inviato al centro di addestramento della NASA. Per settimane, studiarono i metodi utilizzati per preparare gli astronauti: test in camere di decompressione, programmi di resistenza estrema, protocolli di adattamento alle condizioni più severe.

Claudio Coutinho e un giovane Carlos Alberto Parreira, futuro CT del Brasile, guidarono il team che tradusse queste conoscenze in un programma di allenamento calcistico. Il Capitano Lamartine, un militare con formazione scientifica, contribuì con le sue ricerche sull’allenamento in altitudine.

Per la prima volta nella storia del calcio, una nazionale si preparava a un Mondiale con metodi degni di una missione spaziale. Era l’inizio di una rivoluzione che avrebbe cambiato per sempre il modo di concepire la preparazione atletica nel calcio.

Parreira, Zagallo e Coutinho, il triumvirato per Mexico 70

L’Operazione Guanajuato

Quando la Seleção atterrò a Città del Messico il 4 maggio 1970, i giornalisti rimasero stupiti dall’arrivo così anticipato. “Saremo i primi ad arrivare e gli ultimi a partire“, dichiarò Zagallo (che aveva sostituito Saldanha, in contrasto con i militari) con un sorriso sicuro. Non era una semplice battuta: era l’annuncio di un piano meticolosamente studiato.

La base operativa fu stabilita a Guanajuato, una città nel cuore del Messico scelta strategicamente per la sua altitudine. Qui, la nazionale brasiliana mise in atto un programma di preparazione che sembrava più adatto a un centro di addestramento militare che a una squadra di calcio.

La routine quotidiana era rigidissima. I giocatori venivano pesati ogni mattina, e chi superava il peso ideale era costretto a sessioni extra di allenamento fino a rientrare nei parametri. Gli orari di riposo erano controllati militarmente, con un radicale cambio del ritmo sonno-veglia iniziato già due settimane prima della partenza – una novità assoluta per l’epoca.

Persino l’alimentazione fu rivoluzionata. Niente cucina locale: tutti gli alimenti venivano importati direttamente dal Brasile, pesati e distribuiti secondo piani nutrizionali personalizzati. Le iconiche maglie gialle furono riprogettate con tessuti speciali per resistere al caldo messicano, con un nuovo colletto rotondo che facilitava la dispersione del sudore.

Ma Zagallo era anche un maestro di pubbliche relazioni. Gli allenamenti erano spesso aperti al pubblico, e la squadra distribuiva gadget ai tifosi locali. Era una strategia già sperimentata nel ’58, ma ora venne perfezionata: quando il Brasile scendeva in campo, poteva contare sul sostegno appassionato dei messicani.

Fu un mese e mezzo di lavoro intenso, senza precedenti nella storia del calcio. Il Brasile stava preparando non solo una squadra, ma un esperimento scientifico che avrebbe cambiato per sempre il modo di preparare un Mondiale.

La magia incontra la scienza

La vera genialità del Brasile 1970 fu la capacità di fondere la preparazione scientifica con il talento naturale dei suoi fuoriclasse. Zagallo creò un sistema tattico rivoluzionario che anticipava di decenni l’evoluzione del calcio: un 4-2-3-1 costruito intorno al genio di Pelé.

In un’epoca in cui molte squadre utilizzavano ancora il primitivo 4-2-4, Zagallo disegnò uno schema fluido e moderno. Pelé operava come un direttore d’orchestra al centro del campo, libero da vincoli tattici, mentre attorno a lui si muoveva un cast di stelle con compiti specifici ma flessibili.

Jairzinho, soprannominato “Furacão” (l’uragano), dominava la fascia destra con le sue diagonali letali, aprendo spazi per le sovrapposizioni del capitano Carlos Alberto. Sul lato opposto, Rivelino, formatosi nei campi di futsal, portava la sua tecnica raffinata e il suo sinistro micidiale.

Più avanti c’era Tostão, forse il più intellettuale dei calciatori brasiliani, un medico mancato con una visione di gioco straordinaria. Il suo movimento continuo creava spazi per le inserimenti di Pelé e Jairzinho. A centrocampo, l’elegante Gérson e l’imprevedibile Clodoaldo garantivano equilibrio e creatività.

Era una squadra che univa la tradizionale “ginga” brasiliana con una preparazione fisica all’avanguardia. I giocatori potevano permettersi continui scambi di posizione e pressing asfissiante grazie alla superiore condizione atletica garantita dai metodi NASA. Era la perfetta sintesi tra arte e scienza, tra improvvisazione e metodo.

Un mondo nuovo

Il salto anti-gravità di Pelè

La finale del 21 giugno 1970 allo stadio Azteca rappresentò l’apoteosi del progetto brasiliano. Di fronte c’era l’Italia di Valcareggi, ma gli occhi del mondo erano tutti per le maglie oro della Seleção. Quello che seguì fu una delle più straordinarie esibizioni nella storia del calcio.

A dodici minuti dall’inizio, Pelé regalò al mondo un momento di pura magia. Su un cross apparentemente innocuo, il “Re” si librò in aria come se la gravità non esistesse, lasciando Burgnich immobile a guardare. Il difensore italiano avrebbe poi confessato: “Pensavo che un essere umano non potesse arrivare così in alto“. Era il frutto perfetto dell’unione tra il talento soprannaturale di Pelé e la preparazione scientifica della NASA.

Gli italiani, fedeli alla loro tradizione, non si arresero. Boninsegna pareggiò sfruttando un raro errore di Clodoaldo. Ma la superiorità fisica dei brasiliani emerse nella ripresa. Gérson, il regista elegante, riportò il Brasile in vantaggio con un tiro potente. Poi fu Jairzinho a segnare, mantenendo intatta la sua striscia di gol in ogni partita del torneo.

Ma fu l’ultimo gol a diventare l’emblema di quella squadra straordinaria. Trenta secondi di calcio perfetto: nove tocchi, otto uomini coinvolti, conclusi dal missile di Carlos Alberto. Un’azione che sintetizzava tutto: la tecnica sopraffina, i movimenti coordinati, la resistenza fisica che permetteva di correre a quella velocità anche al 86° minuto.

Il 4-1 finale non raccontava solo una vittoria, ma il trionfo di un’idea: il calcio poteva essere al tempo stesso scientifico e artistico. Il Brasile aveva creato la squadra perfetta, dove la preparazione metodica esaltava il talento naturale invece di soffocarlo. Era la nascita del calcio moderno.