1978 – Bettega: «Con l’Argentina nessuna combine, Bearzot ci ordinò di vincere»

La Nazio-Juve fu l’unica a battere l’Argentina campione nel Mundial 1978. Quella vittoria prestigiosa, firmata da Roberto Bettega, rimane il fiore all’occhiello degli azzurri di Enzo Bearzot

L’Italia si piazzò poi al quarto posto, pur meritando almeno la finale, a dispetto delle feroci critiche della vigilia e delle Cassandre che pronosticavano un immediato ritorno a casa dopo la prima fase a Mar del Plata. Cementata dal grande spirito di gruppo del clan bianconero, la squadra reagì senza isterismi e diede spettacolo piegando la Francia del giovane Michel Platini e poi l’Ungheria.

Ma che cosa accadde alla vigilia della partita con i futuri campioni? Ci fu davvero il pronunciamento degli otto, più uno, giocatori della Juventus, che formavano l’ossatura della Nazionale? Vollero scendere in campo a tutti i costi cambiando, all’ultimo momento, i piani del commissario tecnico che prevedevano anche il possibile inserimento di quattro o cinque forze fresche (tra cui i granata Claudio Sala e Graziani, nonché Cuccureddu, il nono bianconero del gruppo che disputò comunque il match subentrando, dopo appena sette minuti, all’infortunato Bellugi) per consentire ai titolari, affaticati, di riposare?

Platini e Bettega all’Hindu Club, sede del ritiro dell’Italia e della Francia

«Non accadde niente di tutto questo», spiega Roberto Bettega. Eppure, qualcosa avvenne all’Hindu Club, il centro sportivo «esclusivo», sede del ritiro dell’Italia e della Francia, situato ad una cinquantina di chilometri dalla capitale e quasi confinante con il Campo de Mayo, la base militare più importante dell’Argentina.

Ce lo racconta proprio Roberto Bettega, il leader che in quella Nazionale segnò due gol e colpì ben cinque pali in sette incontri.

«Ci furono pressioni o discussioni ma non su di noi. Nessuno ci chiese se volevamo o meno giocare. Avevamo, tuttavia, percepito qualche tentativo. E tutto fu chiarito dal dottor Franco Carraro. Il presidente ci fece visita all’Hindu Club e ci disse che, se avessimo vinto il girone, avrebbe alzato ulteriormente il premio. Questa era la volontà della Federazione e Bearzot decise di impiegare la miglior formazione».

Scrissero i giornali che Bearzot e Menotti, dopo il sorteggio e il calendario dei gironi, scherzando si promisero vicendevolmente che, se le due squadre si fossero trovate alla vigilia dello scontro diretto già promosse, avrebbero fatto giocare le riserve. E che poi, venuto a conoscenza che «el flaco» Menotti aveva intenzione di schierare l’Argentina al gran completo, «il vedo» Bearzot si fosse adeguato. E’ questa la verità?

«Non credo che Menotti abbia mai pensato di schierare i rincalzi. Per l’Argentina vincere il girone voleva dire rimanere a Buenos Aires e giocare nello stadio del River Plate, la sede preferita per questioni di tifo. Noi eravamo a punteggio pieno e con la miglior differenza-reti. I sudamericani dovevano vincere a tutti i costi. Il pareggio o la sconfitta significava, per loro, emigrare a Rosario per continuare il torneo».

La rete decisiva di Bettega

Fu partita vera, in tutti i sensi.

«Sì, anche per evitare qualsiasi tipo di speculazione, politica o di altro genere, sull’ipotesi di una combine. La serenità di avere due risultati su tre a disposizione ci fece giocare al meglio, senza acredine mentre i padroni di casa erano più tesi. Al 67’, su un’azione di rimessa, Paolo Rossi di tacco mi smarcò davanti a Fillol: mirai e di destro, con un tiro angolato, centrai il bersaglio. Mi sembrò di toccare il cielo con un dito. Una notte indimenticabile. Fummo più fortunati. Se dicessi che eravamo stati più bravi, dovrei aggiungere che meritavamo il titolo e non me la sento».

Il calo accusato dagli azzurri nel secondo turno, indusse molti a criticare Bearzot e la sua scelta di non aver cambiato formazione con l’Argentina per il platonico successo nel gruppo 1. Se alcuni titolari avessero riposato, quelle energie sarebbero state «accumulate» per lo sprint finale?

«Un mezzo tempo non ci avrebbe fatto risparmiare… carburante. Il calo fisico fu generale, specie contro l’Olanda, la partita dei gol da lontano di Brandts e Haan, dopo un primo tempo eccezionale».

«La fortuna ci voltò le spalle. Se Bearzot, con gli argentini, avesse cambiato squadra e poi, riproponendo quella tipo, qualcosa non avesse funzionato, i critici avrebbero detto che il giocattolo si era rotto, che il feeling tra giocatori e et era finito. Io avrei fatto come Bearzot. Non so se è stata la scelta giusta, ma logica sì».

La “moviola” di Samarelli apparsa sul Guerin Sportivo delle’poca

Gli azzurri uscirono a testa alta. L’Italia produsse indubbiamente il gioco più spettacolare anche se alla fine non salì sul podio.

«Sono d’accordo, ma solo in parte, che quella sia stata la miglior nazionale del ciclo bearzottiano: debbo ammettere che nell’82 il lotto delle squadre battute dall’Italia campione del mondo, specie Brasile e Germania, era più forte di quelle che affrontammo noi nel ’78. E, comunque, c’erano sei juventini più Antognoni e Graziani, tra i superstiti della formazione di 4 anni prima, più esperti e maturi», è l’analisi, di Bettega.

Lui, Bettega, in Spagna non potè andare per un grave infortunio ad un ginocchio che l’aveva bloccato per sei mesi. Sino all’ultimo Bearzot aveva sperato di recuperare l’uomo che aveva dato un grosso contributo alla qualificazione, prezioso punto di riferimento.

«Visto che in Spagna non ci andai, il grosso rimpianto rimane l’Argentina. Avevo a portata di mano l’unica finale mondiale della mia carriera. La meritavamo dopo aver messo al muro la Germania costringendola a fare catenaccio. Il palo, dopo i tre colpiti con l’Ungheria a Mar del Piata, mi negò il gol decisivo. Se avessimo vinto, com’era giusto, con l’Olanda ci sarebbe bastato pareggiare per affrontare nuovamente l’Argentina ed avremmo giocato con i “tulipani” con ben altro spirito e con una disposizione tattica meno offensiva. Non so se nella finalissima avremmo concesso il bis. Ma avrei potuto raccontare ai nipotini che ci avevo almeno provato».