4 maggio 1980: la partita della morte di Tito

Quell’evento trasformò all’istante la sfida tra Hajduk e Stella Rossa in un momento storico, carico di significati simbolici, presagio delle tensioni che avrebbero portato, di lì a poco, alla disgregazione della Jugoslavia.

Il 4 maggio 1980 è una data che rimarrà per sempre impressa nella memoria collettiva della Jugoslavia e di tutti gli appassionati di calcio dei Balcani. Quel giorno, durante la partita di campionato tra l’Hajduk Spalato e la Stella Rossa Belgrado, giunse la notizia che Josip Broz Tito, il leader carismatico e di lungo corso della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia, era morto all’età di 88 anni. Quell’evento trasformò all’istante quella che doveva essere una semplice partita di calcio in un momento storico carico di significati simbolici e profondi.

Le immagini di quella giornata, con i giocatori e gli oltre 50.000 spettatori allo stadio Poljud di Spalato che apprendono la tragica notizia, sono rimaste indelebili nella memoria collettiva. Il silenzio assordante che calò sullo stadio fu rotto solo dai singhiozzi e dalle urla strazianti dei tifosi, che iniziarono quindi a intonare canti struggenti in onore di “Compagno Tito“. Era l’inizio di un lutto nazionale senza precedenti in un paese che per oltre 35 anni era stato guidato dalla leadership assoluta e dal culto della personalità di quest’uomo.

Tito, il condottiero partigiano che aveva guidato la resistenza jugoslava contro l’occupazione nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, era diventato il padre fondatore e l’anima della nuova Jugoslavia socialista del dopoguerra. La sua morte rappresentava molto più che la scomparsa di un semplice leader politico: era la fine di un’era, l’epilogo di quel sogno jugoslavo di fratellanza e unità tra le diverse etnie e nazionalità dei Balcani che Tito aveva incarnato.

La partita tra Hajduk e Stella Rossa assumeva così un valore simbolico ancora più profondo. Quell’incontro rappresentava in piccola scala l’essenza stessa della Jugoslavia, con squadre croate e serbe che si affrontavano su un campo di battaglia sportivo ma con giocatori e dirigenti provenienti da tutte le repubbliche e nazionalità del paese. In quel momento di dolore collettivo, le divisioni etniche e nazionali sembrarono annullarsi, con tutti uniti nel piangere la scomparsa del “più grande figlio delle nazioni jugoslave“.

Eppure, come emergerà con sempre maggiore chiarezza negli anni a venire, i semi della disgregazione erano già stati piantati e il lutto per Tito non fece che accelerare quel processo inesorabile. Il sistema dell’autogestione socialista e il sogno jugoslavo che Tito aveva incarnato stavano già mostrando segni di cedimento sotto i colpi delle crisi economiche e politiche che avevano attanagliato il paese negli ultimi anni di vita del maresciallo.

Le testimonianze dei protagonisti di quella partita storica offrono uno spaccato delle diverse percezioni e sensibilità etniche che covavano sotto la superficie dell’unitarietà jugoslava. Il calciatore macedone Boško Đurovski ricordava di aver pianto come un bambino, affermando che “ai tempi di Broz non importava se qualcuno era macedone, croato, serbo, sloveno o bosniaco. Non avremo mai più un tale senso di unità“. Parole simili arrivarono da Zlatko Vujović, leggendario attaccante croato dell’Hajduk. Eppure il serbo Dušan Savić della Stella Rossa aveva un ricordo più cinico, ammettendo che in quel momento prevaleva soprattutto la paura per il futuro incerto che si prospettava dopo la morte del leader indiscusso.

Queste diverse prospettive riflettevano le tensioni etniche e nazionalistiche che già serpeggiavano nel sottobosco jugoslavo e che sarebbero esplose in tutta la loro violenza nei tragici eventi degli anni ’90. La crisi economica galoppante e l’immobilismo politico del regime crearono un terreno fertile per la rinascita di rivendicazioni nazionalistiche che trovarono una valvola di sfogo anche negli stadi di calcio e nelle tifoserie organizzate.

Nel corso degli anni ’80 le curve degli stadi jugoslavi videro l’ascesa di gruppi ultras sempre più politicizzati ed etnicamente connotati: i “Delije” della Stella Rossa, i “Bad Blue Boys” della Dinamo Zagabria, la “Torcida” dell’Hajduk e così via. Questi gruppi divennero spesso casse di risonanza di ideologie nazionaliste e miti delle rispettive etnie, trasformando le curve in vere e proprie arene di scontro ideologico.

L’episodio della partita del 13 maggio 1990 tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa, con gli scontri tra le tifoserie croate e serbe che sfociarono in una vera e propria battaglia campale, può essere visto come un presagio degli orrori che di lì a poco avrebbero sconvolto l’intera regione balcanica. La disgregazione della Jugoslavia e la spirale di violenza etnica e pulizia etnica che ne seguì furono il tragico approdo di quelle tensioni che già covavano da tempo nella società jugoslava.

In questo senso, la “partita della morte di Tito” del 1980 può essere considerata un evento simbolico, un momento in cui il calcio divenne improvvisamente storia, rispecchiando le contraddizioni e le fratture di un intero paese. Mentre i tifosi intonavano canti struggenti per il “Compagno Tito”, promettendo di non abbandonare mai la sua strada, le fondamenta stesse dell’edificio jugoslavo stavano iniziando a sgretolarsi.

La morte di Tito, il grande unificatore, privò il paese della sua principale figura di riferimento e lasciò un vuoto di leadership che nessuno fu in grado di colmare. Senza la sua guida carismatica, le diverse repubbliche e nazionalità furono lasciate ancor più in balia delle proprie pulsioni centrifughe e dei movimenti nazionalistici interni.

Quel 4 maggio 1980, mentre il campo di calcio veniva inondato dalle lacrime dei tifosi e i giocatori si univano in un abbraccio simbolico di dolore, le ombre della tragedia futura si addensavano già all’orizzonte. Dieci anni più tardi, la ex Jugoslavia sarebbe sprofondata in una delle pagine più buie della sua storia, in un vortice di violenza etnica e pulizia etnica che avrebbe straziato le sue anime per un decennio.

La “partita della morte di Tito” divenne così un simbolo potente, un monito affinché il calcio, che nelle intenzioni avrebbe dovuto unire e non dividere, non diventasse anch’esso un’arena di scontro etnico e nazionalista. Un memento dell’illusione di un sogno, quello jugoslavo, che si sarebbe rivelato tragicamente effimero.

Eppure, anche nei momenti più bui, quegli istanti di commozione sincera e di genuina fratellanza vissuti dai tifosi dello stadio Poljud rimangono una luce di speranza. Una dimostrazione che, al di là di tutte le divisioni etniche e nazionali, gli esseri umani sono accomunati dai medesimi sentimenti più profondi: il dolore per la perdita di un simbolo unificante, la nostalgia per un’utopia di pacifica convivenza.