Argentina 1986 e quelle maglie fatte in casa

L’Argentina e quelle due finali mondiali perse con la divisa ospite: tutti, o quasi, dicono che porti male. Non si ricordano che è anche quella con cui sconfissero gli inglesi nell’86, un’uniforme comprata in una bottega di Città del Messico e rammendata da amorevoli sarte, poche ore prima del match che cambiò la storia del calcio.

Nel 2014, al Maracanà di Rio de Janeiro, Argentina e Germania sono tornate a giocarsi una finale mondiale 24 anni dopo Italia ’90, con le stesse divise utilizzate quell’8 luglio nello stadio Olimpico di Roma: bianca con il tricolore prussiano – schwarz-rot-gol, “nero-rosso-oro” – per i tedeschi, blu oltremare o azul per i sudamericani. Memori di quel doloroso 1 a 0 firmato da Brehme allo scadere del tempo regolamentare, con un rigore inesistente, a Buenos Aires i più superstiziosi hanno storto il naso al momento del sorteggio: i panzer di Joachim Loew, in quanto locali nel tabellone del torneo, ebbero il privilegio di scegliere per primi, puntando prevedibilmente sui colori classici della Nationalmannschaft.

Eppure, prima degli epiloghi al Maracanà e delle notti magiche nostrane, la divisa blu da ospite era entrata nell’immaginario popolare come il simbolo della riscossa del paese, una volta finita la lunga notte della dittatura civico-militare: il salto di un folletto col numero 10 a ridosso del portiere Peter Shilton, il pugno di Dios in persona nascosto dietro un cespuglio di riccioli, la discesa di quell’aquilone cosmico – citando la telecronaca calcistica più famosa del secolo – dal centrocampo fino all’area inglese, saltando gli avversari come fossero birilli, le Malvinas che sono e saranno per sempre argentine.

Osservava a tal proposito Martìn Amìs, scrittore britannico trapiantato in Uruguay, che sebbene il 2 a 0 di Maradona sia stato eletto all’unanimità il gol più bello di tutti i tempi, in Argentina la prodezza maggiormente ricordata è ancora la Mano de Dios, massima espressione di quella sottile e spietata intelligenza individuale e latina volta a evitare gli ostacoli a qualunque costo, nella rassegnata consapevolezza che prima o poi qualcun altro infrangerà le regole al posto nostro: Viveza Criolla, “furbizia creola”, la definì lo psicologo argentino Julio Mafud nel 1965. Nella sua biografia intitolata “Dottore e Campione”, Carlos Salvador Bilardo, DT dell’albiceleste dal 1983 al 1990, espone senza timori la filosofia di un’intera vita passata sui campi di pallone: essere disposti a qualsiasi cosa pur di vincere.

Argentina-Inghilterra: da notare sulla maglia di Maradona la grandezza dei numeri, fabbricati in realtà per maglie da football americano e perciò più grandi, oltre che leggermente argentati e non bianchi

Dalla borraccia con sonnifero passata dal massaggiatore Miguel Galindez al difensore carioca Carlos Branco durante gli ottavi di finale di Italia ’90, vinti contro il Brasile con gol di Caniggia, alla bandiera albiceleste bruciata da membri dello stesso staff tecnico argentino fuori dal ritiro, la notte anteriore al match con gli azzurri, incolpando poi i tifosi italiani dell’oltraggio per caricare la squadra, al divieto scaramantico di mangiare carne di pollo in favore della carne bovina, simbolo nazionalpopolare dell’amata patria, gli innumerevoli aneddoti risalenti alla gestione del tecnico, soprannominato “nasone” e laureato in medicina, sintetizzano l’applicazione della Viveza Criolla al futbol che fa impazzire – di gioia o ribrezzo – i romantici dello sport.

A Messico ’86, a causa di un sorteggio sfavorevole, la Selecciòn si trova a giocare tutte le partite alle 12 o alle 16, con il sole ancora ben alto, a oltre 2000 metri di altitudine: Corea del Sud, Italia, Bulgaria, Uruguay e ora Inghilterra. Le Coq Sportif – sponsor approdato al Rio de la Plata nel 1979 grazie all’ammiraglio dell’Armata Carlos Lacoste, rappresentante della firma nel paese – aveva elaborato un tessuto in microfibra per migliorare la traspirazione degli atleti in condizioni climatiche ostili, applicandolo però solo alla divisa da titolare, a strisce celesti e bianche. Dopo il duro match con l’Uruguay negli ottavi di finale, vinto 1 a 0 con rete di Pedro Pasculli e giocato con addosso la divisa blu da ospite, Bilardo giura che i suoi uomini non vestiranno mai più quelle magliette di cotone grosso, dal collo a girovita stretto e soffocante, fradice di sudore e pesanti il triplo dopo appena mezz’ora di gioco.

I quarti di finale sono fissati per le 12 messicane contro gli odiati inglesi, che sulla carta appaiono come locali: l’Argentina dovrà scendere in campo ancora una volta all’ora di punta e con l’insopportabile divisa di riserva. Il rifiuto di Bilardo è tassativo, e chi deve provvedere è il magazziniere Rubén Moschella, che a bordo di un taxi, a 72 ore dalla partita e senza l’autorizzazione della FIFA per cambiare la divisa a torneo iniziato, si perde nel caos di Città Del Messico alla ricerca di un fac-simile del completo incriminato, che abbia sul petto il classico galletto francese: tornerà esausto, con due campioni in semplice cotone ma apparentemente più leggeri, e con un ampio collo a V. Bilardo, scettico, consulta Maradona: «Oi, Diego, quale ti sembra più adatta?» «Ma che bella maglietta! Con questa camiseta battiamo gli inglesi!»: è la profezia del 10. Moschella torna al negozio e compra 38 maglie uguali a quella segnalata dal capitano – una per tempo, per i 19 giocatori della rosa – completando la prima parte dell’inverosimile piano: il secondo atto consiste nel riprodurre a mano lo stemma dell’AFA e provvedere a fissare i numeri, per ora assenti.

La maglia con la quale Maradona realizza una delle reti più belle della storia del calcio è stata acquistata dal magazziniere Moschella in un negozio di Città del Messico 3 giorni prima del match

La situazione è disperata, ma non seria: l’indomani, a solo 48 ore dal match che cambierà la storia del calcio, un disegnatore del club América della capitale messicana – ingaggiato grazie al contatto di ex giocatori argentini all’interno della società – abbozza con il suo computer vintage uno stemma dell’AFA il più possibile simile all’originale, privo, per ragioni di tempo, dei tradizionali rami d’alloro. Il resto del lavoro viene portato a termine a tempo di record dalle anonime e amorevoli sarte del club, che sul petto di ogni casacca cuciono il marchio dell’Asociaciòn Futbòl Argentina, e sul retro stirano con materna pazienza i numeri dall’1 al 19, fabbricati in realtà per maglie da football americano e perciò più grandi, oltre che leggermente argentati e non bianchi.

Il 22 giugno 1986 la “furbizia creola” espugna lo Stadio Azteca senza badare troppo ai dettagli, puntando dritto al risultato come ancor’oggi professa il suo messia, Carlos Bilardo. Non importa se una zampa del galletto de Le Coq Sportif oltrepassa appena un po’ il contorno del marchio, diventando un amuleto anti-fuorigioco, se l’etichetta sul collo dice Hecho en Mexico e se la maglia luccica in modo diverso rispetto all’ultima partita con l’Uruguay. Maradona non dovrà vestirla mai più in un mondiale, almeno fino a Italia ’90. È il trionfo dell’altra filosofia di vita argentina, comprovabile dalle giungle tropicali del Chaco alle praterie della Terra del Fuoco: atar todo con alambre, “legare tutto insieme con il fil di ferro”, l’equivalente sudamericano di “mettere una pezza”.

In un’intervista con il giornalista sportivo Ezequiel Fernandez Moores, del quotidiano portegno La Naciòn, l’arbitro albiceleste Horacio Elizondo, riferendosi alle situazioni più difficili attraversate durante il mondiale tedesco del 2006 – non ultima l’espulsione di Zinedine Zidane contro l’Italia, suggerita dal quarto uomo andaluso, unico testimone della testata a Materazzi – conferma: «Aggiustare tutto con il fil di ferro, nel bene e nel male: nessuno lo fa meglio di noi argentini, veniamo al mondo con questa filosofia e la portiamo avanti tutta la vita, è un allenamento continuo e costante». Mentre l’abito non fa il campione, la viveza criolla e il corazòn, specie in questo emisfero, non sono cose da prendere sottogamba.

Testo di Paolo Galassi – http://pangeanews.net