Alcuni grandi calciatori non smettono mai davvero: passano semplicemente a giocare nel campo infinito dell’eternità.
Il 25 novembre 2020 Diego Armando Maradona lasciava questo mondo, ma in un senso molto concreto non se n’è mai andato davvero. Ogni giorno, a ogni ora, qualcuno da qualche parte del pianeta condivide un suo video, rivede un suo gol, ne imita i movimenti. È quello che il filosofo Davide Sisto chiama “l’incarnazione di una presenza assente“: Diego c’è perché non c’è più.
Non è un fenomeno nuovo nella storia umana. Dai graffiti nelle caverne alle statue degli imperatori romani, l’umanità ha sempre cercato di sconfiggere la morte attraverso la memoria e la rappresentazione. Ma nell’era digitale questo desiderio di eternità ha trovato strumenti più potenti di qualsiasi altra epoca. L’intellettuale argentino Eduardo Wilde, scoprendo il fonógrafo di Edison alla fine dell’Ottocento, aveva capito tutto: “Il fonógrafo ferma la vita e perpetua i momenti fugaci. Con esso non c’è passato per la parola parlata“.
Oggi non abbiamo solo la voce: abbiamo video, foto, meme, gif animate. Abbiamo Diego che dribbla in loop infinito sui nostri telefoni, che segna gol eterni, che sorride per sempre. La sua morte fisica è diventata, paradossalmente, l’inizio della sua vita digitale più intensa.
Il grido che unì una nazione

Il 22 giugno 2021, sette mesi dopo la morte di Maradona, l’Argentina visse uno dei momenti più surreali e commoventi della sua storia recente. L’AFA (la Federazione Calcistica Argentina) lanciò una proposta che sembrò fantascientifica: alle 16:09 precise, esattamente 35 anni dopo il gol del secolo contro l’Inghilterra, tutto il paese doveva gridare riascoltando quella giocata leggendaria.
L’hashtag #gritalopord10s invase i social network. Radio Relatores andò oltre, trasmettendo l’intera partita del 1986 nell’orario originale. Alle 15:00 del 22 giugno 2021, la voce di Víctor Hugo Morales del 1986 riemerse come da una capsula del tempo, accompagnata da pubblicità di aziende ormai scomparse e commenti di giornalisti alcuni dei quali non erano più vivi.
Prima del calcio d’inizio, Víctor Hugo Morales lanciò una profezia senza saperlo: criticò la FIFA per aver scelto un arbitro tunisino, Ali Bennaceur, per una partita così importante. “Non può avere quest’uomo tutta l’esperienza necessaria“, disse, quasi per scaramanzia.
La storia gli darà ragione in un modo che nemmeno lui poteva immaginare. Quell’arbitro non vide le mani di Diego, come se il Pibe avesse il potere di rendere invisibili i suoi trucchi.
Quando arrivò il “momento”, alle 16:09, l’Argentina si fermò. Treni, fabbriche, negozi, case, balconi: tutto il paese divenne “un pugno chiuso che gridava per Maradona“. I club pubblicarono video dei loro stadi vuoti con la telecronaca in sottofondo. L’AFA mise due altoparlanti per strada, coperti da bandiere argentine.

E poi succede. Il miracolo si ripete. La voce di Morales si spezza di nuovo, come si era spezzata nel ’86, come si spezza sempre quando si racconta l’impossibile. “Barrilete cósmico, ¿de qué planeta viniste?“. Da che pianeta sei venuto, aquilone cosmico?
Le lacrime del 1986 si mescolano con quelle del 2021. È come se il tempo fosse un campo di calcio circolare, dove passato e presente si toccano sulla linea del gol. Diego segna ancora, e ancora, e ancora. In loop infinito, per sempre.
L’isola dei fantasmi digitali
Questo episodio ricorda stranamente “L’invenzione di Morel“, il capolavoro di Adolfo Bioy Casares del 1940 portato sullo schermo da Emidio Greco nel 1974. Nel romanzo, un fuggiasco arriva su un’isola apparentemente deserta dove scopre strani abitanti che ripetono eternamente gli stessi gesti, le stesse conversazioni. Sono fantasmi creati da una macchina che registra e riproduce all’infinito i movimenti delle persone.
Noi, oggi, siamo come quel fuggiasco. Osserviamo Diego ripetere per sempre i suoi gol, le sue giocate, i suoi sorrisi, grazie alla “macchina” dei social media e di internet. “Le immagini sembrano avere un’anima“, dice Morel nel romanzo. Lo stesso si può dire dei gol di Diego: continuano ad emozionare, a far piangere, a regalare sensazioni anche a chi non li ha mai visti dal vivo.
Ma la tecnologia vuole spingersi oltre. Nel 2022 è circolato un avatar di Maradona che parlava del mondiale in Qatar, un mondiale che lui non avrebbe mai visto. Era un primo, goffo tentativo di far “rivivere” Diego attraverso l’intelligenza artificiale. Il risultato era una caricatura, un fantasma digitale rigido e impostato che non rendeva giustizia all’originale.
Eppure la tentazione è forte. Come nel racconto “Diario di un archeologo maradoniano” di Lucas Bauzá, dove si immagina un futuro in cui ologrammi perfetti di Diego permettono di dialogare con lui in diverse fasi della sua vita. Il protagonista si entusiasma credendo di poter trovare l’anima di Maradona in una conversazione, finché non si ricorda che l’ologramma può solo ripetere cose che Diego aveva già detto.
La vera immortalità non ha bisogno di chip

Il cantante heavy metal Ronnie James Dio, morto nel 2010, è “tornato” in tour attraverso un ologramma che ha riempito teatri in tutto il mondo. Forse un giorno vedremo ologrammi di Diego fare giocolieri negli stadi con “Live is Life” in sottofondo. Ma è davvero questo quello che vogliamo?
La verità è che Diego non ha bisogno di ologrammi, avatar o intelligenza artificiale per essere immortale. L’immortalità vera non è tecnologica, è culturale. È quel bambino che prova a imitare il controllo di petto di Diego in un cortile di Buenos Aires. È quel vecchio che racconta per la millesima volta del gol agli inglesi. È quella maglietta del Napoli che spunta in una strada di Tokyo. È quella lacrima che scende quando si sente “La mano de Dios”.
Bioy Casares scriveva: “Credo che perdiamo l’immortalità perché la resistenza alla morte non si è evoluta; i suoi perfezionamenti insistono sull’idea primitiva: mantenere vivo tutto il corpo. Bisognerebbe cercare solo la conservazione di ciò che interessa alla coscienza“.
Il calcio come lingua universale
Diego è immortale perché il calcio è immortale. È uno sport che parla tutte le lingue del mondo, che supera barriere culturali, economiche, religiose. Un gol di Maradona emoziona allo stesso modo un tifoso argentino, un bambino africano, un pensionato italiano. È una lingua universale dell’emozione pura.
Per questo i suoi “fantasmi digitali” sono superflui. Diego vive ogni volta che qualcuno calcia un pallone sognando di essere lui. Vive in ogni “olé” sugli spalti, in ogni discussione al bar su chi sia il più grande di tutti i tempi. Vive in quella strana magia che solo il calcio sa creare, quando undici sconosciuti diventano una squadra del cuore e un uomo basso e tarchiato diventa un dio.
La tecnologia può aiutarci a conservare le immagini, i suoni, i ricordi. Ma l’immortalità vera si costruisce con qualcosa di più antico e potente: le storie che ci raccontiamo, le emozioni che trasmettiamo, l’esempio che lasciamo. Diego Armando Maradona è immortale non perché qualche algoritmo lo fa “parlare” ancora, ma perché ha fatto qualcosa che nessuna intelligenza artificiale potrà mai replicare: ha toccato l’anima di milioni di persone.
E quella, quella è per sempre.