Gianni Brera: “Rivera, rendimi il mio Abatino…”

Gianni Brera ha coniato innumerevoli soprannomi per gli assi del pallone. Certamente l’Abatino cucito addosso a Gianni Rivera è stato uno dei più azzeccati…

L’ho visto la prima volta in Alessandria-Milan, nel 1959. Era l inizio del campionato che avrebbe vinto la Juventus. Nel Milan giocava ancora Liedholm, eroicamente sollevando i ginocchi al modo dei lipizzani da parata. Il ragazzino portava i capelli all Umberta e, valutato ad occhio, aveva il carrello un po basso, le cosce ipertrofiche, il petto miserello. Si muoveva tuttavia con un garbo che era indice di stile sicuro (non di classe, analfacalcio che siete!): toccava di destro con raffinata misura: fintava di corpo domando la palla e quindi apprestandosi al dribbling, che non sempre aveva bisogno di fare: lanciava palle pulite, mai viziate di effetti difficili. Portava la maglia numero 9 ma centravanti non era, bensì rifinitore: e questo scrissi, con ovvia sicumera, avendolo visto mandare tre volte in gol un certo Tacchi (umiliato il Milan fra la sorpresa generale).

Riflettei che non era capace di scatto, bensì di progressivo, modico per giunta, e che non portava palla perché l ispirazione lo soccorreva all istante e poteva disfarsene prima che alcuno accorresse al tackle. Non essendo capace di scatto, centravanti non era, mi dissi inducendo secondo logica. Pochi giorni dopo mi giunse il ritaglio d un bollettino parrocchiale in certo modo premonitore: un prete di cui ho felicemente dimenticato il nome scrisse con il risentimento acre d un innamorato deluso che Gianni era geloso d un altro Gianni migliore di lui. Era un modo molto italiano e molto uterino di fare critica sulla pelle e sui sentimenti. Io azzeccai il giudizio tecnico e aspettai il portento a nuovi esami.

Lo rividi in nazionale olimpica, scelto da Viani (che l’aveva già assunto al Milan per consiglio di Pedroni) e da Nereo Rocco, finalmente chiamato agli onori della ribalta nazionale. Rocco era stato fino a quel momento la vittima del più bieco conformismo italico, il catenacciaro, come scrivevano gli iloti della critica. Viani godeva non usurpata fama di tecnico ma Rocco era più sicuro nei giudizi: non cedeva alla fantasia e si salvava con l humor, che aveva fertilissimo. La nazionale truccava il catenaccio e teneva Giovannino Rivera ala destra. Fece miracoli. Mancò la semifinale per ingenuità di sorteggio (a Napoli, rob de matt!): ottenne classifica insperata (il quarto posto) mordendosi le mani: significò il definitivo successo della scuola italiana, fino a quel giorno minata dagli incompetenti e dagli invidiosi dell altrui tiratura.

La Juventus convocò Rocco per scritturarlo sublimando l’arcigno ricordo del Padova: Rocco non venne lasciato andare dal suo presidente. Giovannino Rivera approdò al Milan con il soprannome di Gipo Viani che l aveva acquistato: “il babbambino d oro”. Non ricordo abbia subito sfondato. Innamorò di sè tutti gli ignari amatori di Apollo che languono e fremono in petto ai più impensabili tifosi. Nereo lo trovò al Milan nel 61- 62 e mi si disse un tantino deluso di lui. Con Viani, infartato, non correva buon sangue. Viani si rivelò geloso di lui e dei suoi modi. Rocco venne lasciato solo con le sue gatte.

Una vigilia di derby lo consolai da amico al tavolo di Chang in Via Alfieri. Era solo e atterrito. Il domani vinse 3-1. Poi scappò Greaves e giunse Sani, per il quale Feola aveva fatto disastroso fiasco al River Plate. Sani andava quasi al passo e gli avversari lo saltavano sempre: lui trottignava arretrando: la difesa del Milan riconquistava palla e lo serviva: Sani non aveva che da voltarsi e rilanciare. Fu lo scudetto e il Babbambino d oro metteva piacevoli stucchi su quel solido muro. Agnelli disse che l avrebbe preso solo per tenerlo a giocare in giardino e la Juventus decadde amaramente.

Nel 1962 andammo in Cile. Giaonnin Ferrari non perdonava a Giovannino Rivera i riposi privilegiati, lui inconcusso cursore. Giovannino insinuò me presente di Gionnin che temeva ne oscurasse la fama alessandrina! La spedizione al Cile risultò lacrimevole. Il più in forma era Sormani, e venne lasciato ai margini. Un solo tiro fece Rivera con la Germania e Sivori mancò delittuosamente la goffa respinta del portiere tedesco. Poi scomparve. Erano gli anni dell Inter e del Bologna. Rocco emigrò da Milano: l’aveva spiazzato l’invidia di Viani, più di lui abile nell’intrigo. Giovannino divenne il mio eroe negativo.

Stranamente i suoi fans mi accusavano di essere disonesto perchè ne rilevavo le evidenti lacune dinamiche. Uscir dal sogno gli riusciva ingratissimo. Venni anche minacciato di morte. Il mio giornale rinunciava di acchito alle vendite presso i milanisti, ai quali nulla diceva che rischiassi perdite di lettori per dire quanto pensavo. Questo è perfettamente italico: non la pensa come me, quindi è disonesto; la pensa come, quindi è un genio.

Nel 1966 ho visto Giovannino giocare la più disperante partita della sua carriera in Italia-Corea. Fu il solo a dare l’anima. La beffa del dentista (e di Perani e altri del Bologna) lo indusse a sacrifici dinamici inauditi e vani. Io rischiai l’infarto al telefono, lui si apprestò al miglior campionato della sua vita, quello seguente i mondiali. Aveva una sola punta da servire e non ne cavò nulla: puntava su Sormani, ma lo sapevano tutti. l anno seguente venne inventato Prati e di punte ne abbe due: i suoi lanci erano folgoranti. Eravamo in polemica aperta ed egli mi rispose una volta che neanche Pelè recuperava a difesa.

Quando lo esclusero dalla nazionale, Rocco lo portò al “Giovedì” del Riccione e tutti fummo conquistati da lui. Beveva benissimo, sapeva di vino (non che odorasse, ohibò): “Se torni in nazionale come noi sosterremo che debba, ricorda di dover servire subito Gigi Riva come hai fatto con Prati e Sormani”. “D’accordo” disse: e lo fece puntualmente: e Riva conobbe alfine uno che sapeva scatenare i suoi rombi di tuono.

L’amicizia con Rocco era sempre fraterna, però mi mandò a dire che Giovannino era la nostra Stalingrado. Ormai si disputava per ripicca, come se si dovesse rispettare un copione. A Città del Messico accadde un fattaccio osceno: Mandelli (un’intelligenza che il calcio respinse con terrore) minacciò di escluderlo dalla nazionale e Rivera lo insultò pubblicamente. La stessa notte arrivai in aereo e il domani partiva l’attacco al “pallido prence mandrogno”. Iniziavo con un “Lugete Veneres cupidinesque” di cui un bravo collega non volle far credito a Catullo.

I milanisti intrapresero raids intorno a casa mia e al mio giornale. Sarebbe stata l’occasione per tirature mostruose: i fratelli tipografi mi ricordarono – scioperando – che San Gionn l’ha mai fa d’ingann. Mandelli si rivelò grande rifiutando di chiedere la testa di Rivera, che rimase a disposizione. I compagni, invidiosi, lo detestavano. Minerva soccorrevole porse a lui la lancia già inutilmente scagliata (vedi duello fra Achille ed Ettore sotto le porte Scee). Segnò il gol del pareggio tedesco (3-3): Albertosi lo seguì per strozzarlo: lui avanzava mesto quando Bonimba lo vide e trovò: fu un piatto destro divino e il 4-3. Per sua fortuna venne escluso dalla finale, comica, fino all 84 minuto.

Tornò in Italia e compicciò libri a successo con Orestino del Buono, suo protettor devoto. In un raptus polemico, ormai un rigurgito mesto, m invitò a desistere da ogni critica insulsa: non fosse stato per Rivera, mai nessuno mi avrebbe conosciuto. Riflettei sui dati anagrafi: nel 1949 avevo preso a dirigere la “Gazzetta dello sport” per sublime intercessione dei seienne Rivera? Pur dubitandone, risi. Ormai la ripicca si andava mutando in soavi pentimenti. A Rivera vecchietto mi capitò di dare qualche 8 propiziatorio. Mi esaltavo a smentire me e tutti quanti pensavano a preconcetti idioti. Il culto di Rivera spesso rischiò di perderlo. Ebbe molte donne per poco amate e una figlia che invece gli è cara (vive con la madre a Sanremo).

Le vicende della sua vita non furono sempre ideali. Unendo il proprio destino al Milan fu sempre coerente, non fortunato. Nessuno osa privarsene o mancargli di rispetto. E’ equilibrato, forse anche saggio. La fama gli si dissolve sul capo come una nube non più molto grata. Non se ne affligge e per questo lo stimo. Forse l angoscia lo prende sentendosi vecchio per un atleta che invero è stato più artista che atleta: però è composto, schivo, e mai lo dà a vedere. l’ho incontrato l’altra sera presso un amico comune, Ross Galimi. Abbiamo bevuto e conversato a lungo, molto serenamente. Fra i due, a capir meglio l’altro è stato lui. Orrida vecchiezza, ridammi il mio abatino.

Gianni Brera