Champions League: Re per una notte

Quando il massimo trofeo continentale è stato deciso da eroi non per caso. Nessun fuoriclasse, ma 21 giocatori utili e, per una volta, la più importante, fondamentali


1956 e 1958 – José Héctor RIAL (Real Madrid)

“El Tucuta” (Pergamino, 14 ottobre 1928 – Madrid, 24 febbraio 1991) è il secondo argentino del Real Madrid dopo Di Stefano. Vi arriva nel 1948 dal San Lorenzo de Almagro, dove giocava mezzala sinistra nella prima linea con Reggi, Uñate, Pappa e Silva. In Spagna, stessa musica con Joseito, Marchal, la “Saeta Rubia” e Gento, del quale è l’ideale rampa di lancio. Al Parco dei Principi, segna al 30’ il gol del 2-2 e al 79’ quello del 4-3 conclusivo. Il primo girando in rete di testa un corner. Il secondo su passaggio di Gento, che per una volta gli ricambia uno dei tanti favori. Come non bastasse, il re per una notte del ’56 nel ’58 si fa principe: contro il Milan, ancora a 11 dalla fine, è suo il pareggio che vale i supplementari. L’archetipo del secondo violino.


1962 – Domiciano CAVÉM – (Benfica)

Un numero dice tutto: 9 come i ruoli occupati in carriera, tutti tranne centravanti e portiere. Comincia da ala sinistra e via via scala a terzino. Con l’11 nel primo successo, un anno dopo ad Amsterdam, gioca da mediano con Cruz e Coluña quando il Benfica si conferma in vetta all’Europa. Il favorito Real Madrid in 23’ va sul 2-0 (doppietta di Puskas). Aguas (25’) e Cavém (34’) agguantano il pari su due indecisioni di Araquistain, numero uno merengue. Al 38’ il Colonnello fa tris. Nella ripresa, pareggio di Coluna (51’) e due gol di Eusebio. Affetto dal morbo di Alzheimer, Cavém (Vila Real de Santo Antonio, 21-12-1932) si è spento ad Alcobatja l’11 gennaio 2005. Con le Aquile, dal 1956 al ’69, 542 gare e 125 gol. Sottovalutato.


1966 – Fernando SERENA (Real Madrid)

Al 75’, col punteggio sull’1-1, stop di petto e da trenta metri gran sinistro dell’ala destra che decide la sfida dell’Heysel. Uno dei più bei gol nella storia delle finali della Coppa dei Campioni, degno di quelli storici segnati in finale da miti Merengues quali Di Stefano e Puskas, Raul e Zidane. Il Real Madrid che batte il Partizan Belgrado è molto diverso da quello pentacampione d’Europa 1956-60. In avanti, Serena (Madrid, 28 gennaio 1941 – Pamplona, 15 ottobre 2018) e Grosso, tecnica non eccelsa ma podismo da vendere, sono bravi a incrociarsi per favorire gli inserimenti di Amancio (che al 70’ pareggia il gol segnato al 55’ da capitan Vasovic) e raccogliere i suggerimenti del veterano Gento dalla sinistra. Eroe per caso.


1967 – Steve CHALMERS (Celtic Glasgow)

Padre d’arte (anche il figlio Paul sarà attaccante in biancoverde), destro naturale, copre diversi ruoli dell’attacco. Al “Da Luz” di Lisbona, gioca centravanti e firma il successo della prima formazione britannica finalista di Coppa dei Campioni. All’84’, sull’1-1, Gemmell (che al 62’ aveva impattato il gol segnato al 6’ da Mazzola), serve Murdoch il cui tiro dal limite dell’area finirebbe a lato senza la volontaria deviazione di Chalmers che beffa Sarti. Quello del mite “Steve” (Glasgow, 26 dicembre 1936 – 29 aprile 2019) è il 200° gol stagionale del Celtic e vale il grande slam: dopo il “treble” in patria (campionato, Coppa di Scozia e Coppa di Lega), ecco il trono europeo. In 12 anni coi “cattolici” (1959-71), ha disputato 405 match segnando 228 reti, ma questa è forse la più importante.


1968 – Brian KIDD (Manchester United)

Davvero un gran bel modo di festeggiare il diciannovesimo compleanno: a Wembley, segnando all’8’ del primo tempo supplementare, su respinta del portiere lusitano José Henrique, il 3-1 che di fatto chiude la finale contro il Benfica. Al 100’, il secondo gol di Bobby Charlton arrotonda solamente. Promosso titolare al posto del 28enne Denis Law, bloccato davanti alla televisione in ospedale per un intervento alla cartilagine del ginocchio destro, Kidd (Collyhurst, 29-5-1949) si dimostra all’altezza. Poi una carriera buona ma inferiore alle attese come fantasioso centravanti di Arsenal, Manchester City, Everton, Bolton e, nella Nasl, Atlanta Chiefs e Fort Lauderdale Strikers. Vinto un tumore alla prostata (2004), è stato apprezzato assistente in panchina di Ferguson e Guardiola.


1971 – Dick VAN DIJK (Ajax)

Dopo 5’, gira a rete di testa un cross di Piet Keizer dalla sinistra. Il gol spiana all’Ajax la strada verso la prima di tre Coppe dei Campioni consecutive, l’unica con Rinus Michels in panchina. A Wembley, contro il Panathinaikos allenato da Ferenc Puskas – unica finalista greca della storia —, l’olandese (Gouda. 15-2-1946; Nizza. 8-7-1997) è il centravanti di una prima linea che vive sugli spunti degli esterni Sjaak Swart (rimpiazzato all’intervallo da Haan) e Keizer e sul genio di Johan Cruijff. A 3′ dal termine, il Profeta del gol apre sulla destra per Haan, il cui tiro viene deviato nella propria porta da Anthimos Kapsis. Fine di una partita mai nata, per manifesta inferiorità. Ajacide dal ’69 al ’72, 69 gol in 117 gare. Apripista.


1974 – Hans-Georg SCHWARZENBECK (Bayern Monaco)

Katsche” (per l’andatura a papera) era il braccio armato del kaiser Franz Beckenbauer, nel club e in nazionale. Un colosso (1,83 x 78 kg) la cui finezza di piede veniva oscurata da mole e aspetto, che da soli incutevano terrore a qualsiasi attaccante. All’Heysel, il 15 maggio, lo stopperone d’antan pareggia all’ultimo assalto dei supplementari la punizione-gol di Luis (114’). Il panzer si lancia in avanti e lascia partire una sventola da oltre 35 metri che batte Miguel Reina, padre del JoséPepe”, portiere di Liverpool, Milan e Napoli. Nel replay, due giorni dopo, risolvono tutto le doppiette dei grandi, Hoeness (di “Schwarzy” l’assist del primo gol) e Müller. Ha rilevato a Monaco (dov’è nato il 3-4-1948) un’edicola, non male per uno che ha aperto il ciclo delle tre Coppe dei Campioni in fila.


1975 e 1976 – Franz ROTH (Bayern Monaco)

Il soprannome, “Bulle”, spiega molto ma non tutto. Il mastino di Memmingen (27-4-1946) aveva infatti l’uzzolo per i gol storici. Come il primo contro il Leeds United (71’) o l’unico col SaintÉtienne (in uno dei rari tiri in porta della gara). Al Parco dei Principi, Müller, insolitamente arretrato a centrocampo, pesca nel mezzo Torstensson, che serve Roth. Destro secco del mediano e 1-0. Dieci minuti dopo. Müller chiude pratica e contropiede infilando sul primo palo un cross di Kapellmann dalla destra. Complici l’entrata a forbice di “kaiser” Franz su Clarke in area (38’) e il gol annullato a Lorimer (67’) dal francese Michel Kjtabdijan. Finirà in gazzarra sul prato e sugli spalti, con tanto di sedili divelti e lanciati in campo e squalifica del Leeds per 4 anni, in appello ridotti a uno. All’Hampden Park, Piazza spintona Müller, punizione che l’ingegner Beckenbauer smista al manovale, destro terrificante che fulmina Curkovic. La classe operaia non va in paradiso. Ci resta.


1977 – Tommy SMITH (Liverpool)

«Non è mai stato bambino. È nato uomo», diceva di lui ammirato Bill Shankly, che in un’altra occasione aggiunse: «Riuscirebbe a scatenare una rissa anche al cimitero». Una reputazione, basata sulla durezza mentale e nei tackle, che a questo eclettico Liverpudlian doc (Liverpool, 5 aprile 1945 – Liverpool, 12 aprile 2019) è valsa soprannomi quali “Anfield Iron” e “Carro armato”, più innumerevoli aneddoti, molti dei quali apocrifi. Nomea che in parte ne ha oscurato le indubbie doti in difesa e in mediana, senza dimenticare sporadici inserimenti offensivi (48 gol in 638 gare). Ai Reds sin da 15enne, è il primo capitano del Liverpool a sollevare un trofeo, la Coppa Uefa ’73, arrivata in “doublé” col campionato. All’Olimpico, 4 anni dopo, festeggia la 600° presenza col club raddoppiando il gol di McDermott (27’). Smith svetta di testa su un cross alto di Heighway dalla sinistra e schiena il Borussia Mönchengladbach prima del 3-1 di Neal (83’). Chiude con un anno allo Swansea nel 1978, poi torna all’ovile come tecnico delle giovanili. Rosso dentro.


1980 – John Neilson ROBERTSON (Nottingham Forest)

Ala sinistra scozzese (Uddingston. 20-1 -1953), arriva al Forest nel maggio ’70 già nazionale giovanile. In prima squadra debutta in ottobre, ma fino al ’75 fa poche apparizioni. Quando il club affida la panchina a Brian Clough, “The Fat Man” (il ciccione, così lo chiama il manager) esce dalla lista trasferimenti e diventa titolare fisso: 243 gare filate fra il dicembre ’76 e il dicembre ’80. Al Bernabeu, decide con un suo tipico pezzo di bravura. L’Amburgo parte a razzo, specie sulle fasce con Kaltz e Memering che devono servire Keegan, francobollato da Burns. Ma dopo 19′, Robertson fila in contropiede, ignorando Clough e il “secondo” Taylor che gli urlano di rientrare, tagliando verso il centro. Uno-due con Birtles e rasoterra dal limite che infila Kargus sul palo sinistro. Poi, Derby County (’83-85), ancora Nottingham e, in non-league, Corby Town. Alla conclusione 2004-05, lascia il Celtic da assistente del dimissionario Martin O’Neill. Mago Forest.


1981 – Alan KENNEDY (Liverpool)

Persa col Newcastle (come Terry McDermott) la FA Cup ’74 contro i Reds, regala loro due Coppe dei Campioni. Paisley, che da ragazzo, nella contea di Durham, comprava “fish and chips” nel negozio della madre di Alan, vede in lui l’erede di Joey Jones. E nel ’78 lo preleva dai Magpies per 330 mila sterline. Kennedy (Sunderland. 31-8-1954) ci mette un po’ a ingranare, ma poi la Kop si innamora di quel baffuto terzino sinistro tutta forza e velocità con l’istinto per i gol importanti. Sull’out mancino del Parco dei Principi come dal dischetto dell’Olimpico. All’82’, contro il Real MadridBarney Rubble” (l’amico di Fred Flinstone nel cartoon “Gli antenati”, ndr)” – come lo chiamano i Kopiters – mette giù di petto un pallone dell’altro Kennedy, Ray. Poi elude il tackle di Garcia Cortes e dai 16 metri infila sul palo lontano Agustin. Tre anni dopo, è l’ultimo rigorista a beffare Tancredi: giallorosso a sinistra, palla a fil di palo a destra. Chiusa la carriera nel Sunderland. torna ad Anfield come addetto ai media. Alan per volare.


1982 – Nigel SPINK (Aston Villa)

Ex apprendista stuccatore, a 18 anni arriva ai Villans, per 4000 sterline, come quarto portiere dietro Rimmer, Burridge e Findlay. Cresciuto nel West Ham United e transitato nel Chelmsford City (squadra della città dove è nato 1’8-8-1958), con il club di Birmingham esordisce nel dicembre ’79, in campionato contro il Nottingham Forest. È la sua unica presenza prima di accomodarsi in panca al De Kuip contro il Bayern. Tempo 9’ e si rompe il titolare Jimmy Rimmer, già dodicesimo nel Man Utd campione europeo 1968. Il perticone (1,87 x 92 kg) para tutto, specie su Durnberger, Rummenigge e, per due volte, Augenthaler (e su un suo colpo di testa, a portiere battuto, salva sulla linea il difensore Swain). Dopo 265 gettoni (più uno da rincalzo in nazionale), nel gennaio ’96 lascia il Villa per il West Bromwich Albion, poi chiude al Millwall nelle serie minori. Ok il goleador Peter Withe e il “Bravo” Gary Shaw, ma di quella Coppa un pezzetto è suo.


1983 – Wolfgang ROLFF (Amburgo)

Contro la Juventus di Platini, Boniek e Bettega più i 6 campioni del mondo (Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli e Rossi), che dei tedeschi doveva fare un sol boccone, la spunta lui. Il medianaccio che Ernst Happel, più che mai bestia nera delle italiane, piazza alle calcagna di “Le Roi” Michel per spegnere lui e quindi la manovra bianconera. All’Olimpico di Atene, il tedesco (Lamstedt, 26-12-1959) disputa la gara della vita, paragonabile forse a quella in cui, in nazionale, si era immolato sul regista austriaco Prohaska. L’uomo-partita è ovviamente Felix Magath, che dopo 8’ uccella Zoff con una lunga parabola chissà quanto voluta. Ma se uno come Platini chiude il match tra i fischi, il 37 volte nazionale tedesco (zero gol) deve aver inciso. Eccome.


1984 – Bruce GROBBELAAR (Liverpool)

Bob Paisley lo prende per 250.000 sterline dal Crewe Alexandra nel marzo ’81. In agosto, il portiere matto (sudafricano di Dunbar, 6-10-1957, ma nazionale dello Zimbabwe), rimpiazza Ray Clemence, ceduto al Tottenham per 300 mila. Tre anni dopo regala ai Reds l’Europa. L’eccesso di sicurezza gli gioca talvolta brutti scherzi, ma all’Olimpico è lui a tirarli agli altri. Specie a “Ciccio” Graziani che ai rigori, forse innervosito dalla tremarella mimata da Grobbelaar, imita l’errore di Bruno Conti. Talentuoso e agile, in 13 anni ad Anfield raccoglie 619 presenze, 6 titoli nazionali, la Coppa Campioni, 3 FA Cup e 3 Coppe di Lega. Per le illazioni sulle scommesse, il “Sun” lo risarcisce con una sterlina. Lui ne deve 500 mila per le spese legali. Dichiara bancarotta e torna in Sudafrica. Il principe dei clown.


1987 – Jorge dos Santos Filho JUARY (Porto)

In Italia, l’aletta (1,68 x 64 kg) di Rio de Janeiro (16-6-1959) viene ricordata più che altro per la folcloristica esultanza con cui celebrava i gol segnati nell’Avellino: girando attorno alla bandierina del corner. Cresciuto nel Santos (1976-79), arriva in Campania via-Messico (Universidad Autonoma Guadalajara) poi va all’Inter, che intende girarlo al Cesena per l’austriaco Walter Schachner, poi mai arrivato, e s’intristisce. Un anno all’Ascoli e uno alla Cremonese e tre di Porto, cui al Prater regala il gol vincente contro il favorito Bayern Monaco. Al colpo di testa del bavarese Kögl (24’), replica al 77’ il “Tacco di Allah” Rabah Madjer. Due minuti dopo, “Juju” (così lo chiamavano in nerazzurro) mette dentro in contropiede un cross di Madjer dalla sinistra. Evergreen.


1993 – Basile BOLI (Olympique Marsiglia)

La storia, si sa, la scrivono i vincitori. Ammesso e non concesso che sia attendibile l’autodenuncia contenuta nell’autobiografia dell’ex OM JeanJacques Eydelie, chissà se vale anche per i dopati. Ivoriano di Adjamé (sobborgo di Abidjan, 2-1-1967), Basile cresce nel vivaio dell’Auxerre (1982-90) con il fratello Roger, attaccante di due anni più anziano, prima di trasferirsi al Marsiglia del discusso patron Bernard Tapie. Marcatore centrale roccioso e compatto (1,82 x 75 kg), ha forza fisica e stacco imperioso. All’Olympiastadion lo dimostra, al 43’, su un corner di Abedi Pelé, rubando il tempo al milanista Rijkaard (Costacurta e Baresi non saltano) e al proprio compagno Völler (l’unico dei suoi a non essersi bombato, secondo Eydelie). Dall’anno dopo va a far cassa: Rangers (’94-95), Monaco (‘95-96) e Urawa Red Diamonds (Giappone, ‘96-97). Coi Bleus, 45 gare e un gol. Fu vera gloria?


1997 – Lars RICKEN (Borussia Dortmund)

Quando realizzi il capolavoro della vita a 21 anni ancora da compiere, dopo diventa dura anche se ti chiami Orson Welles, che “Quarto potere” lo scrisse, interpretò e diresse a 26. Figuriamoci se sei bersagliato da guai fisici e schiacciato dall’etichetta di promessa prima grande poi eterna. All’Olympiastadion, il ragazzino dai capelli rossi entra al 70’ al posto di Chapuisat e in pochi secondi segna il 3-1 che chiude la partita. Möller lo lancia nella prateria lasciata libera dal forcing juventino e l’enfant du pays giallonero (Dortmund, 10-7-1976) vede Peruzzi fuori dai pali e lo beffa in pallonetto da oltre 40 metri. Da allora, più bassi che alti e un posto nella storia per un “atipico”, agile e tecnico finché si vuole, ma sempre a metà del guado tra centrocampo e attacco. Aspettando Godot.


1998 – Predrag MIJATOVIC (Real Madrid)

Seconda punta di talento e fantasia, dà il meglio di sé al Partizan Belgrado (’87-88 e, dopo un anno al Buducnost, 89-93) e in Spagna, al Valencia (’93-96) e più ancora al Real Madrid (’96-99), dove rende al massimo giocando accanto a un centravanti di ruolo, Morientes o Suker. Alla Amsterdam Arena, il montenegrino (Podgorica, 19-1-1969) infilza la Juventus lippiana, alla terza finale consecutiva, con un golletto beffardo: al 66’, Seedorf crossa dalla destra per Roberto Carlos, che tira. La palla, rimpallata da Iuliano, finisce a Mijatovic, che aggira Peruzzi e la mette nel pertugio giusto. Per le Merengues, dopo 32 anni, arriva l’agognata Settima. Sulla scia, Predrag approda alla Fiorentina, come spalla di Batistuta prima e di Chiesa (altra seconda punta) poi, ma già non è più lui. Chiude in Spagna nel Levante.


1999 – Ole Gunnar SOLSKJÆR (Manchester United)

Il killer con la faccia da bambino (Kristiansund, 26-2-1973) è all’epoca il più forte panchinaro al mondo, il primo cambio offensivo, un po’ come Altafini a fine carriera. In mano a Ferguson, è un’arma letale: 17 gol in 17 presenze (compresi i 4 in 10’ nell’8-1 esterno al Forest). Al Camp Nou, Sir Alex lo butta dentro (al posto di Cole) quando tutto sembra perduto: all’81’, sull’1-0 per il Bayern. Al 92’ il norvegese addirittura sorpassa. Alla sua maniera: deviando sottomisura un tiro di Sheringham (entrato al 67’ al posto di Blomqvist e autore del pareggio al 91’) nato da un corner di Beckham. Oltremanica, il tormentone è subito cult: «Dov’eri quando “Baby-Faced Assassin” ha infilato i tedeschi?». Poi solo infortuni. Re Mida.


2004 – CARLOS ALBERTO Gomes (Porto)

Un nome impegnativo, troppo se cresci nella Fluminense. Anche se, a differenza del Torres vittorioso capitano verdeoro a Mexico 70, giochi là davanti. Erroneamente dipinto come il “nuovo Deco”, nel gennaio 2004 sbarca al Porto. Piccolo e sgusciante (1,75 x 71 kg), si adatta bene agli schemi di José Mourinho, che predilige una punta assistita da esterni veri, e quattro mesi dopo sblocca la finale dell’Auf-Schalke Arena. Al 39’ il brasiliano (Rio de Janeiro, 11-12-1984), un mancino, punisce con un rapidissimo destro al volo un incerto rinvio di Givet. Fra il 72’ e il 76’ Deco e Alenichev arrotondano e il Porto eguaglia il Liverpool ’75-77, unico a centrare consecutivamente Coppa Uefa-Coppa dei Campioni. Passato l’anno successivo al Corinthians, da allora solo lunghi e infruttuosi pellegrinaggi tra squadre brasiliane.


2005 – Jerzy DUDEK (Liverpool)

Lo dichiara lui stesso, a giochi fatti. All’Ataturk Olimpiyat, il portiere polacco (Rybnik, 23-3-1973) si è ispirato a Grobbelaar, suo predecessore nei Reds che all’olimpico nel 1984 ipnotizzò il quarto rigorista Graziani. Dopo il doppio salvataggio che nel finale dei supplementari nega il gol a Shevchenko, inscena la “Dudek Dance” (così la chiameranno oltremanica) per distrarre i milanisti che vanno sul dischetto. Funziona con Serginho, Pirlo e Shevchenko: la Coppa è del Liverpool. Poi Benitez gli preferirà Reina. Chiude come riserva del Real Madrid (2 match in quattro anni….). Ex Concordia Knurów, Sokól Tychy e Feyenoord, ad Anfield dal 2001 per sostituire Sander Westerveld, era tornato titolare per l’infortunio di Chris Kirkland. Miracolato.