Tecnica, velocità e movimento continuo: questa la ricetta del Ronaldo del Nord
27 giugno del 1998, Vèlodrome di Marsiglia, ottavi di finale della Coppa del Mondo. L’impacciata difesa azzurra disegnata da Maldini (padre) deve faticare non poco per contenere le incursioni aeree del numero 9 norvegese, strettamente marcato da capitan Maldini (figlio). Il forcing degli uomini di Egil “Drillo” Olsen comincia fin dal primo minuto di gioco di quell’afoso pomeriggio, finchè al 19′ Di Biagio si inventa un delizioso passaggio da centrocampo per Vieri che batte Grodas e chiuderà di fatto i conti della partita. Ma per i settanta minuti finali a dominare la scena sarà quel gigante dal nome accattivante: Tore André Flo, classe ’73, attaccante, 193 cm di altezza, fisico incontenibile e piedi buoni. Agli ottavi quell’anno gli scandinavi erano giunti grazie al suo determinante contributo nella vittoria contro il Brasile, dove il nostro segnò dapprima il gol del pareggio e poi si procurò il rigore decisivo trasformato da Redkal, consentendo così alla nazionale norvegese di qualificarsi a sorpresa (quattro anni prima uscirono al primo turno) per gli ottavi di finale, bissando così il risultato del 1938.
Fino a quel momento il calcio norvegese per noi italiani era un illustre sconosciuto, fatta eccezione per le rare apparizioni nella Coppa dei Campioni dei vari Rosenborg e Lillestrøm, per bidoni cosmici come Steinar Nilsen (4 stagioni in Italia con Milan e Napoli, dove venne soprannominato Baywatch) o onesti mestieranti come Per “Varechina” Bredesen (una manciata di stagioni negli anni ’50 con Lazio, Milan, Udinese, Bari e Messina). Insomma, oltre allo sci, ai rally e al black metal, vedi che questi nordici sapevano anche giocare al pallone? E per giunta nemmeno malaccio.
Tore André, terzo di cinque fratelli di cui ben tre calciatori, nasce a Stryn, importante crocevia tra le città di Oslo, Bergen e Trondheim. Ed è nella squadra locale che muove i primi passi. A 20 anni esordisce in prima squadra nel Sogndal e con 16 reti trascina la squadra nella massima serie norvegese e ad agosto fa il suo esordio nell’under 21 norvegese. Ma il primo anno nell’Eliteserien è amaro: la squadra retrocede e il biondone si accasa al Tromsø dove divene il cannoniere della squadra. La stagione successiva fa le valigie, destinazione Bergen dove le sue potenzialità esplodono definitivamente, mettendolo in luce in ottica nazionale maggiore, dove diviene l’eroe nazionale che noi tutti conosciamo: una tripletta a Trinidad e Tobago e una doppietta nella storica vittoria di maggio ’97 per 4-2 contro il Brasile, gli fanno meritare un soprannome pesante, Flonaldo.
Essere considerati la risposta europea è più una croce che un onore, ma il ragazzone norvegese è sulla bocca di tutti e l’eco delle sue gesta, fatte di fisicità strabordante, buona tecnica e istinto del cecchino, giunge Oltremanica, dove c’è più attenzione al mercato scandinavo.
A settembre ’97 passa così al Chelsea di Ruud Gullit, dove partì alle spalle dei ben più quotati Zola e Hughes ma riuscì ben presto a dimostrare tutte le sue qualità e approfittando di un infortunio di Mark Hughes (arrivato al Chelsea dopo le esperienze al Barcellona, Bayern Monaco ma soprattutto Manchester United) segnò una tripletta nella vittoria per 6 a 1 contro il Tottenham, mettendo in mostra anche in Inghilterra le caratteristiche fino ad ora solo intraviste nel campionato norvegese e nei match della nazionale: quando imbrocca la partita diventa devastante, domina il match, è un’iradiddio. Centroavanti dal fisico eccezionale ma comunque veloce, sempre in movimento, dal piede educato e dalla fantasia quasi sudamericana.
Titolare inamovibile in nazionale, Flo partì per la spedizione in terra francese contribuendo al quello che rimane tutt’ora il miglio risultato dei vichinghi ai mondiali. Nel campionato successivo – nonostante l’arrivo di Vialli in panchina e di Casiraghi in attacco – il norvegese darà un contributo determinante alla prima storica qualificazione dei Blues in Champions League. Con l’arrivo di Guðjohnsen e Hasselbaink, dopo tre anni giunse il momento di salutare Londra e dirigersi a nord, destinazione Glasgow, dove in tutta risposta all’acquisto di Larsson da parte dei cugini del Celtic, venne tesserato dai Rangers in quello che fu il trasferimento più costoso del calcio scozzese (e che diede un determinante apporto alla crisi economica dei Gers): 12 milioni di sterline, 40 volte il prezzo d’acquisto pagato da Gullit.
Nell’estate del 2000 fu convocato dal ct Johan Semb per la spedizione in terra olandese per l’Europeo, dove la nazionale non passò però il turno. Nel 2001, insieme ad Ole Gunnar Solskjaer e Ronny Johnsen del Manchester United e Steffen Iversen del Tottenham, fu al centro di un curioso episodio. La federcalcio norvegese diede ai quattro il divieto di convocazione in nazionale poiché avevano rifiutato di sottoscrivere un accordo riguardante i nuovi sponsor della nazionale: il contratto di patrocinio della nazionale norvegese con un gruppo di aziende prevedeva che tutti i giocatori della selezione avrebbero dovuto prestarsi a fini pubblicitari con le ditte in questione. Secondo i giocatori il contratto dava troppo potere alla federazione e ledeva la libertà dell’individuo. I quattro “ribelli” – le vere colonne della nazionale – vennero presto reintegrati dopo un ritocco al contratto. E te credo.
Nel frattempo, dopo un altro anno a Glasgow, l’attaccante lasciò i Rangers e fece ritorno in Inghilterra, chiamato dal Sunderland per ristabilire le sorti dei Black Cats. Ma complici un doppio cambio di panchina e una forma non proprio strepitosa, fu messo in disparte e nel 2003 fu preso, un po’ a sorpresa, dal Siena di Giuseppe Papadopulo neopromosso in Serie A. Nella città del palio parte nel tridente con Chiesa e Ventola, giocando spesso esterno, e contribuisce alla prima storica salvezza del club toscano con 8 reti all’attivo, bottino discreto.
La seconda stagione in Toscana inizia male: un incidente in auto, senza gravi conseguenze, e un cambio di panchina non giovano al norvegese. Con Gigi Simoni non trova spazio, gli vengono preferiti Maccarone e Carparelli, ma dopo alcuni chiarimenti con il tecnico di Crevalcore, contribuirà con altre 5 reti alla seconda salvezza del club bianconero: non è l’alter ego biondo di Ronaldo ma fornisce comunque il suo contributo alla causa.
A fine stagione si svincolerà dal club per ritornare in patria, per motivi familiari, accasandosi al Vålerenga, per una sola stagione. Nel 2007 l’ex compagno di squadra Dennis Wise lo chiama al Leeds dove però, per via di una serie di infortuni, non riuscirà quasi mai ad esprimersi al massimo del potenziale e a fine stagione la squadra retrocederà in First Division. Nonostante tutto Flo diviene il beniamino dei Pavoni, e l’11 marzo 2008 decide di appendere gli scarpini al chiodo, riciclandosi come – discreto – ballerino nell’edizione norvegese di “Ballando sotto le stelle”.
Passano poco più di nove mesi e il nostro ci ripensa: il nuovo team è il Milton Keynes Dons, terza serie inglese, allenato dall’ex compagno nel Chelsea Roberto Di Matteo all’esordio in panchina. La stella di Tore ha smesso di brillare e le lunghe partite passate in panchina ne sono dimostrazione. Verrà impiegato però nella decisiva sfida nella finale play off della League One contro lo Scunthorpe. Al norvegese, uomo di esperienza e di gran lunga con il più ricco curriculum fra i Bianchi di Milton Keynes, toccherà il tiro decisivo dal dischetto nella doppia finale: l’errore costa la promozione ai Dons.
Dopo due anni di inattività ritorna a giocare nella squadra in cui aveva tirato i primi calci: nel Sogndal neopromosso in Eliteserien si toglie la soddisfazione di esibire la forma dei tempi migliori quando regala ai tifosi una doppietta contro il Molde e nel pareggio contro il Rosenborg, quando sostituisce il nipote Ulrik Flo – di quindici anni più giovane – prima del definitivo ritiro nell’agosto del 2012.
Forse il biondo Tore Andrè non è mai stato davvero la risposta europea a Ronaldo, non è mai stato un vero Fenomeno ma soltanto un buon calciatore che a sprazzi ha saputo elettrizzare critici e tifosi. Di sicuro non ha subito un declino così triste e malinconico come l’ex centroavanti di Cruzeiro, PSV, Barcellona, Inter, Real Madrid, Milan e Corinthians, che da miglior giocatore del mondo (gemme di classe pura) si è ritrovato a essere la controfigura – grassa – di sé stesso.