FONI Alfredo: Scudetto e schiaffi a base di Catenaccio


Non sempre il nome di Alfredo Foni viene adeguatamente valorizzato dagli storici del calcio, forse per l’indelebile macchia, associata al suo nome, del fallimento italiano nelle qualificazioni per un Campionato del mondo. Ma quell’insuccesso, datato 1958, aveva molti padri e in più non può bastare la carenza di coraggio (o temerarietà) tradita nella circostanza a cancellarne i meriti di fondatore del “calcio all’italiana”.

Alfredo Foni non fu personaggio brillante. Colto e forbito, portato dal carattere friulano al riserbo degli atteggiamenti e alla lesina delle parole, non era maestro di diplomazia e anzi si fece non pochi nemici reagendo con crudezza agli attacchi portati al suo lavoro. Ma è stato uno dei tattici più raffinati del calcio italiano, l’uomo decisivo nel conferire piena dignità al Catenaccio. Alfredo Foni incarnava un’altra smentita al luogo comune che nega ai grandi giocatori una importante carriera come allenatore.

Nasce a Udine e a quattordici anni entra nelle giovanili dell’Udinese. Lo impiegano da mezzala, nel torneo 1927-28 è titolare tra le zebrette, che giocano in prima divisione. L’anno dopo da centravanti realizza 25 reti e a fine stagione viene ceduto alla Lazio per 55.000 lire. Debutta in A il 2 febbraio 1930, a Vercelli. Gioca indifferentemente mediano, centravanti, mezzala e ala. Passa al Padova, in B, nel 1931, riconquista la A e nel 1934 la Juventus lo ingaggia per 250 mila lire. Carcano lo inquadra come terzino, facendo la sua fortuna.

Vince con la Juve lo scudetto e l’anno dopo Vittorio Pozzo ne fa uno dei pilastri della Nazionale che vince le Olimpiadi di Berlino. Foni all’epoca è ancora studente: si laureerà in Economia e Commercio. Nel 1938 conquista il titolo mondiale, con la Juve aggiunge due Coppe Italia, nel 1938 e nel 1942. Proverbiali la sua correttezza e la forza fisica, che gli fanno raggiungere a quota 229 il record di presenze consecutive in A: a batterlo sarà un altro friulano e juventino, Dino Zoff.

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Al 1944, durante la guerra, risale la prima esperienza come allenatore, alla guida dell’Udinese nell’ufficioso campionato Alta Italia. Alla ripresa dell’attività è però ancora tesserato per la Juve, con cui gioca fino al 1947. Quando appende le scarpe al chiodo, gli giunge la chiamata dall’ambizioso Venezia, Serie B. Il campionato è duro, è prevista la retrocessione di dodici squadre. Il Venezia prende qualche ceffone inatteso e un gruppo di giocatori fa la fronda al tecnico. Il quale, in una memorabile assemblea all’Ateneo Veneto, si scaglia contro di loro, accusandoli apertamente di broccaggine assieme ai dirigenti. Dopo poco è costretto a dimettersi, ma alla fine il Venezia scamperà d’un soffio la retrocessione.

La voglia di cambiare aria lo porta una prima volta in Svizzera e al ritorno riparte dalla C. Nel 1948 è a Casale Monferrato, l’anno dopo a Pavia, dove la società naviga in acque economicamente perigliose e lo lascia andare quando, nell’aprile del 1951, la Sampdoria decide di affidare a lui le residue speranze di permanenza in A. A Genova Foni, direttore tecnico in coppia con l’allenatore Matteo Poggi, sostituisce Giuseppe Galluzzi centrando l’obiettivo e conquistando la conferma.

Il suo buon lavoro gli vale nel 1952 la nomina ad allenatore della rappresentativa italiana alle Olimpiadi di Helsinki, in coppia con Giuseppe Meazza. Sono giorni turbinosi: rifiutata per motivi economici la proposta di conferma della Samp, Foni si dimette per preparare il ritiro olimpico e viene sostituito da Matteo Poggi. Contemporaneamente l’Inter lo contatta per la stagione successiva. Dribblato un tentativo della Samp di rientrare in gioco, Foni si ritrova nerazzurro: la prima chance ad alto livello.

Il clima nell’Inter dell’epoca è di profondo scoramento. Lo racconterà uno dei giocatori più rappresentativi di quegli anni, il terzino Giovanni Giacomazzi: «Nel campionato ’51-52 eravamo giunti alterzo posto senza soddisfare nessuno, nè dirigenti nè tifosi. Che valeva giocar bene se la squadra mai era stata in lotta per il primato ed era finita a ben undici punti dalla Juventus, prima classificata? L’Inter, a detta dei competenti, avrebbe dovuto abbandonare il suo classicismo, rinunciare alle sue eleganze se voleva raggiungere risultati più positivi. Foni rivolse tutti i suoi pensieri per mirare diritto allo scopo. Da squadra di artisti che si affidava solo all’estro e alla fantasia, Foni volle trasformare l’Inter in un complesso raziocinante e scientifico. Mentre prima ogni pensiero era rivolto all’attacco, ora l’idea predominante doveva essere “primo non prenderle“»

Ne venne fuori una micidiale macchina da calcio, che il calcio offensivo certo non ripudiava, vista la qualità dei suoi attaccanti, ma risultava alle spalle talmente impenetrabile da indispettire. Le polemiche insorsero furiose per quella squadra che soffocava i talenti (altrui) sposando una mentalità sparagnina nemica dello spettacolo. Tra i pochi sostenitori, Gianni Brera, che ricorderà: «I suoi solisti folleggiano in attacco, ma nessuno si cura di loro. La squadra rimane bloccata sull’uomo in più in difesa, vince prodigando il minimo sforzo. Quasi sempre subisce l’iniziativa degli avversari e regge bravamente la botta: poi, d’improvviso, parte il colpo di mortaio sparato da Blason: a settanta e più metri di distanza c’è poca gente: gli spazi sono vasti: in quelli si ficcano trionfando i solisti dell Inter, e sono gaudiosi sfracelli».

Dunque il terzino (di numero) Blason arretrava dietro lo stopper e il suo posto sulla fascia destra veniva occupato, nelle azioni difensive, dall’arretramento dell’ala destra Armano. Le critiche non fecero altro che rinsaldare la stima reciproca fra allenatore e giocatori e la conquista dello scudetto, dopo dieci tornei di digiuno, premiò adeguatamente il lavoro di Foni.

Che fece il bis l’anno dopo, annacquando però di molto il suo capolavoro tattico. Per avere un’idea della virulenza delle polemiche, ecco la ricostruzione dello stesso Giacomazzi: «Decisamente il tarlo delle polemiche sul Catenaccio aveva varcato le soglie di via Olmetto (l’allora sede dell’Inter, ndr). Masseroni e Foni durante l’estate debbono essersi chiesti se valeva la pena resistere alle critiche con il rischio di sentirsi ancora una volta tutta la stampa contro, oppure se convenisse ritornare sulla vecchia strada dell’Inter che del gioco d’attacco aveva sempre fatto ragione di vita. Si scelse una via di mezzo».

L’anno dopo, Foni abbandona del tutto l’eresia e le sue sorti professionali ne risentiranno. Il terzo campionato consecutivo nell’Inter è di segno negativo, per via di una campagna di rinnovamento fallimentare. In più, a dicembre a Foni viene proposto l’incarico di allenatore della Nazionale, sotto la guida della Commissione tecnica composta da Marmo, Pasquale, Tentorio e Schiavio. Col presidente nerazzurro Carlo Rinaldo Masseroni viene raggiunto un accordo per la convivenza dei due incarichi, fonte tuttavia di pesanti malumori.

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Non appena le sorti dell’Inter deperiscono, è facile per tifosi e critica accusare il tecnico «che ha scisso Inter-nazionale». Foni si difende con puntiglio, ma a fine stagione lascia l’Inter assieme a Masseroni, il cui testimone passa ad Angelo Moratti. Nell’aprile 1957, quando entra nel vivo la fase di qualificazione ai Mondiali dell’anno dopo in Svezia, Foni, già individuato come uomo chiave in quel piccolo guazzabuglio che è la commissione tecnica, viene ufficialmente nominato Direttore tecnico della squadra azzurra.

Il calcio italiano vive un momento di profonda crisi. Foni per motivi di quieto vivere lascia nel cassetto il Catenaccio e si adatta alla moda dei tempi: cercare di salvare la baracca azzurra ricorrendo agli stranieri, con la scappatoia degli oriundi. Con lui esordisce e gioca in azzurro persino Pepe Schiaffino, che è stato campione del mondo con la maglia dell’Uruguay. Il ruolino da Direttore tecnico macchia la carriera di Foni: l’Italia, dopo un risicato successo sull’Irlanda del Nord, viene travolta dalla Jugoslavia (1-6) per la Coppa Intemazionale e poi dal Portogallo (0-3) per le qualificazioni mondiali. La sconfitta con l’Irlanda nella decisiva partita di Belfast del 15 gennaio 1958 esclude per la prima volta l’Italia dai Mondiali e segna il destino di Foni. Un giorno, di malavoglia, a mezza bocca, dirà: «I dirigenti volevano far la guerra a Barassi (il presidente della Federcalcio, ndr), mi mandarono allo sbaraglio, fui lasciato solo. Si può parlare di congiura. Ma preferisco dimenticare quell’avventura, mi ha procurato troppa amarezza».

Viene sollevato dall’incarico nell’estate del 1958 e trova subito ingaggio a Bologna, dove tuttavia gestisce una squadra mediocre, senza riuscire a darle il colpo d’ala. Intanto si trova sempre più a suo agio in Svizzera. Ha sposato una cittadina elvetica e ha stabilito la residenza a Breganzone, sul lago di Lugano. Nel 1959 viene ingaggiato dalla Roma, come ripiego dopo il rifiuto del Milan a liberare Viani e quello di Rocco a lasciare l’amato Padova. In qualche modo, Foni ottiene buoni risultati, a Roma, ma solo nel senso che riesce a durare per ben due stagioni intere, una specie di primato, per quei tempi giallorossi. La prima stagione è all’insegna della mediocrità, con qualche lampo del “nuovo” Manfredini. La stagione successiva si apre all’insegna dell’”attacco atomico”.

Dimenticata la patente di difensivista, Foni schiera Orlando, Lojacono, Manfredini, Schiaffino, Selmosson. Come dire, un regista, due mezze punte e due punte. L’avvio è da rullo compressore, quattro vittorie di fila, quattordici gol segnati e tre subiti. Poi la macchina si inceppa e alla fine è un quinto posto che significa mediocrità, senza un volto tecnico-tattico preciso a una squadra che vive di fiammate e di pause. Verrà richiamato a Roma dopo la seconda esperienza in Svizzera, al Chiasso, e il vano tentativo di salvare in extremis l’Udinese dalla caduta in B.

La sua carriera è ormai al lumicino, ma c’è ancora spazio per una clamorosa unghiata. Tornato nella “sua” Svizzera, gli viene affidata la guida della Nazionale, che riesce a qualificare per i Mondiali d’Inghilterra, dove tuttavia non riuscirà a far conquistare ai suoi neppure un punto nelle tre partite del primo turno. Anni dopo, ci sarà il gran ritorno a Milano, chiamato dal nuovo presidente lvanoe Fraizzoli. Il quarto posto d’esordio non avrà seguito: Fraizzoli gli propone di fare da “chioccia” a Giovanni Invernizzi e Foni rifiuta, tornandosene a Lugano. Nel 1973 Zenesini e Allodi gli chiedono di salvare il Mantova dalla retrocessione in C: ottiene un buon ruolino, ma non salva la situazione. L’anno dopo accetta l’offerta del Lugano e per due stagioni guida la squadra elvetica, prima di andare in pensione. Muore nella stessa cittadina svizzera il 28 gnnaio 1985.

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