La straordinaria avventura dei Diavoli Rossi al Mondiale messicano: come Guy Thys coltivò una generazione dorata capace di arrivare in semifinale, fermata solo dal genio di Maradona.
Il palmares della nazionale belga è sempre stato piuttosto scarno: l’unico titolo di rilievo risale addirittura al 1920, quando conquistò l’oro olimpico in casa ad Anversa. Ma la squadra che giocò il torrido mondiale messicano del 1986 rappresentò qualcosa di diverso, il culmine di un progetto tecnico durato un decennio e guidato da un uomo che aveva saputo guardare lontano.
Il visionario Guy Thys
La storia di questa generazione dorata inizia nel 1976, quando Guy Thys venne chiamato alla guida della nazionale belga. Non si trattava di una scelta scontata: il tecnico arrivava dal Royal Antwerp, club storico ma non particolarmente vincente, che aveva guidato con risultati discreti ma senza mai conquistare il titolo nazionale.

Thys aveva però dimostrato di essere un “costruttore”, uno di quegli allenatori capaci di plasmare una squadra nel lungo periodo. La sua filosofia era chiara: puntare su una difesa solida e organizzata, che potesse dare libertà agli elementi di talento in fase offensiva. Un calcio pragmatico ma non privo di qualità tecniche.
Il nuovo commissario tecnico ereditò una squadra che aveva mancato la qualificazione sia ai Mondiali del 1974 che all’Europeo del 1976. Era necessario ricostruire tutto dalle fondamenta, e Thys si mise al lavoro con pazienza e determinazione.
La costruzione di una squadra
I primi risultati tardarono ad arrivare. Il Belgio mancò anche la qualificazione ai Mondiali del 1978, terminando alle spalle dell’Olanda nel girone eliminatorio. Ma Thys stava gettando le basi per qualcosa di importante: stava costruendo un gruppo coeso, dove ogni giocatore conosceva perfettamente il proprio ruolo.
La svolta arrivò con l’Europeo del 1980 in Italia. I Diavoli Rossi riuscirono a qualificarsi e, una volta in terra italiana, stupirono tutti. Guidati dal portiere Jean-Marie Pfaff, dal capitano Eric Gerets e dal talentuoso Jan Ceulemans, il Belgio arrivò fino alla finale, dove venne battuto solo 2-1 dalla Germania Ovest di Horst Hrubesch.

Quella finale persa all’Olimpico di Roma non fu un fallimento, ma la dimostrazione che il progetto di Thys stava funzionando. La squadra aveva trovato la sua identità: difesa granitica, centrocampo dinamico con René Vandereyckenn e un attacco creativo guidato da Ceulemans.
Dopo l’argento europeo, il Belgio si presentò ai Mondiali del 1982 in Spagna con ambizioni legittime. La squadra aveva acquisito esperienza e fiducia, e il gruppo si era ulteriormente rafforzato con l’inserimento di giovani talenti come Franky Vercauteren.
In Spagna, i belgi superarono brillantemente il primo turno, ma si fermarono al secondo, eliminati da Unione Sovietica e Polonia. Era un risultato che testimoniava la crescita della squadra, ma lasciava anche l’amaro in bocca per le opportunità mancate.

L’Europeo del 1984 in Francia rappresentò un momento di transizione. Thys inserì altri giovani come Enzo Scifo e Nico Claesen, completando il ricambio generazionale. La squadra non brillò in Francia, eliminata già al primo turno, ma il commissario tecnico aveva ormai in mano il gruppo definitivo per l’assalto al Mondiale messicano.
Le qualificazioni per il Messico ’86 furono un thriller. Il Belgio si trovò in un duro scontro diretto con la Polonia, che si classificò al primo posto per differenza reti. Peggio ancora, i belgi dovettero affrontare un durissimo playoff contro l’Olanda, l’eterna rivale. Ma in quell’occasione la squadra di Thys dimostrò tutto il suo carattere: dopo aver vinto 1-0 in casa, riuscì a strappare la qualificazione in trasferta con un gol di Georges Grün a cinque minuti dalla fine.
L’exploit mondiale

Il Mondiale del 1986 iniziò nel peggiore dei modi per il Belgio. Nel Gruppo B, sulla carta abbordabile con Messico, Paraguay e Iraq, la squadra di Thys si trovò subito in difficoltà. Il caldo torrido della Città del Messico e il tifo oceanico per i padroni di casa crearono un’atmosfera ostile che mise in crisi i Diavoli Rossi.
La sconfitta per 2-1 contro il Messico nel pieno sole di mezzogiorno fu un duro colpo. Il Belgio, ora schierato con tre difensori centrali, faticava a trovare i meccanismi giusti. Il pareggio 1-1 con il Paraguay, che si rivelò una delle sorprese del torneo, complicò ulteriormente la situazione. Solo la vittoria contro l’Iraq con uno striminzito 1-0 permise ai belgi di qualificarsi come migliore terza classificata, con appena due punti.
Ma fu proprio da quel momento che iniziò la cavalcata più bella della storia calcistica belga. Agli ottavi di finale, a León, andò in scena uno spettacolo indimenticabile contro l’Unione Sovietica di Valeriy Lobanovskiy. I sovietici avevano una squadra stellare, costruita attorno ai giocatori della Dinamo Kiev, campione di Coppa delle Coppe: Oleksandr Zavarov, Igor Belanov (che a fine anno avrebbe vinto il Pallone d’Oro) e il veterano Oleg Blokhin.

La partita fu un thriller da 4-3 per il Belgio dopo i tempi supplementari. Belanov portò avanti due volte l’URSS, ma Scifo e Ceulemans (in situazioni controverse di fuorigioco) riequilibrarono la situazione. Nei supplementari, quando sembrava che la stanchezza dovesse prevalere, Stéphane Demol e Nico Claesen ribaltarono il risultato. Belanov completò la tripletta personale, ma non bastò ai sovietici.
I quarti di finale contro la Spagna furono l’esatto contrario: una battaglia tattica e psicologica che si trascinò fino ai rigori. La Roja arrivava dal devastante 5-1 inflitto alla sorpresa Danimarca, ma trovò un Belgio trasformato. Ceulemans sbloccò la partita nel primo tempo su cross di Vercauteren, ma Señor pareggiò nella ripresa con un missile dalla distanza. Supplementari e poi rigori, dove solo lo spagnolo Eloy Olaya sbagliò. Jean-Marie Pfaff fu monumentale, parando tutto quello che era umanamente possibile parare.
Lo scontro con il Dio del Calcio

La semifinale contro l’Argentina di Carlos Bilardo aveva un protagonista annunciato: Diego Armando Maradona. Il Pibe de Oro era nel momento più alto della sua carriera, reduce dalla “Mano di Dios” e dal gol del secolo contro l’Inghilterra. Per il Belgio, quella partita rappresentò il momento della verità assoluta.
Thys aveva costruito una squadra solida, organizzata, con giocatori di talento e grande spirito di sacrificio. Ma Maradona era semplicemente oltre ogni logica calcistica. La stanchezza delle due sfide precedenti pesava sui belgi, ma anche in condizioni perfette sarebbe stato difficile fermare il numero 10 argentino in quella versione.
Il primo gol di Maradona fu un concentrato di classe e determinazione. Ricevuto un passaggio di Héctor Enrique, il capitano argentino si liberò di due marcatori e superò anche Pfaff con una conclusione precisa. Due difensori e il miglior portiere del torneo non erano bastati a fermarlo.

Il secondo gol fu ancora più devastante: quattro giocatori belgi più Pfaff tentarono disperatamente di contrastarlo, ma Maradona sembrò danzare tra loro come se fossero birilli. Il 2-0 finale portava la firma del calciatore più forte del pianeta in quel momento storico.
Guy Thys, nel post-partita, fu di una lucidità disarmante: “Se il Belgio avesse Maradona, sarebbe in finale. Lui è davvero il miglior giocatore del mondo. Qualsiasi squadra che abbia Maradona ha un enorme vantaggio. Da solo, nessuno riesce a fermarlo. La Coppa per noi finisce qui e credo che abbiamo fatto una buona prestazione.”
Era l’ammissione di una superiorità tecnica incolmabile, ma anche l’orgoglio di una squadra che aveva dato tutto quello che aveva. Il Belgio non era mai arrivato così in alto in un Mondiale, e quella sconfitta sapeva più di impresa che di fallimento.
La battaglia per il bronzo

La finale per il terzo posto contro la Francia fu l’ultimo atto di una generazione straordinaria. Nonostante i discorsi di circostanza suggerissero disinteresse da entrambe le parti, e nonostante la Francia schierasse molte riserve, in campo andò in scena un’altra partita spettacolare.
Il Belgio partì forte e Ceulemans inaugurò le marcature con un attacco rapido e preciso. Jean-Marc Ferreri pareggiò per i transalpini, ma la risposta belga arrivò con Jean-Pierre Papin che portò avanti la Francia. Nico Claesen rimise tutto in parità, trascinando ancora una volta la partita ai tempi supplementari.
Era la terza volta consecutiva per i Diavoli Rossi, e stavolta le gambe fresche dei francesi fecero la differenza. Nel caldo torrido di Puebla, a mezzogiorno, una palla che in condizioni normali sarebbe stata facilmente allontanata rimbalzò nell’area belga come in un flipper, finendo sui piedi di Bernard Genghini: 3-2 per la Francia.

Il colpo di grazia arrivò poco dopo con un’azione personale dello stesso Genghini che provocò un rigore trasformato da Manuel Amoros. Il 4-2 finale condannò il Belgio al quarto posto.
Quel Belgio aveva saputo coniugare organizzazione tattica e qualità individuali, spirito di gruppo e ambizione e nel caldo del Messico, per qualche settimana magica, sognò di conquistare il mondo. Non ci riuscì, fermato dall’ingiocabile Maradona, ma quella cavalcata rimane comunque uno dei momenti più belli della storia del calcio belga.