Il Petisso e la Fiorentina yè-yè: Una favola calcistica degli anni ’60

Con il suo carisma e la sua saggezza calcistica, Pesaola plasmò una formazione giovane e talentuosa che conquistò lo scudetto nel 1968/69.

Bruno Pesaola, celebre per l’elegante soprannome “el Petisso” – un riferimento alla sua contenuta statura – ha incarnato l’essenza più pura della passione sudamericana trapiantata nel Belpaese. Nell’immediato dopoguerra, questo giovane argentino di appena ventun anni varcò l’oceano per intraprendere un’avventura destinata a lasciare un’impronta indelebile nel panorama calcistico italiano.

La sua personalità era di quelle che difficilmente si dimenticano: un raffinato buongustaio della vita notturna, devoto al piacere del tabacco, dotato di un’arguzia sottile come una lama e di una sapienza calcistica che rasentava l’arte. Quella sua figura minuta nascondeva un’anima da gigante, un talento raro nel forgiare squadre e nell’ispirare atleti, una capacità che lo ha reso un autentico maestro del suo mestiere.

Il suo approccio al calcio era un mix di competenza tattica, psicologia spicciola e quell’allegria contagiosa che lo rendeva amato ovunque andasse. Come ripeteva lui stesso nei suoi ultimi anni: “Nel calcio si è perso il gusto dell’ironia e delle battute”. Una capacità di sdrammatizzare e di creare un’atmosfera positiva che sarà una delle chiavi del suo successo.

Da Napoli a Firenze: la svolta

Pezzi di Fiorentina 1968/69: Amarildo, Merlo, De Sisti, Pesaola, Rizzo

Dopo una lunga militanza a Napoli, sia come giocatore che come allenatore, Pesaola si trovò di fronte a un bivio. Dalla panchina aveva portato il Napoli al secondo posto nella stagione 1967/68, un risultato eccellente, ma sapeva che restare avrebbe significato dover fare ancora meglio. Con la saggezza che lo contraddistingueva, capì che era il momento di cambiare aria:

“Ero arrivato secondo, dovevo andar via. Se resti devi far meglio e meglio, allora, non era possibile”.

L’approdo alla Fiorentina fu l’inizio di una vera e propria favola calcistica. Pesaola si ritrovò tra le mani una squadra giovane, priva di alcune stelle come Albertosi e Brugnera, e con il caso Amarildo da risolvere. Il brasiliano era infatti considerato un elemento problematico, tanto che la dirigenza e la stampa lo volevano cedere. Ma il Petisso vide oltre le apparenze:

“Calma e sangue freddo, io ho bisogno de Amarildo. Non lo voleva la dirigenza e non lo voleva la stampa: bravo ma pesante, rissoso, casinista. Io dissi: calma e sangue freddo, io ho bisogno de Amarildo. Sistemarono el contratto e fu la nostra fortuna”.

La Fiorentina yè-yè: una squadra rivoluzionaria

La sua Fiorentina. Sua in tutti i sensi, figlia del Petisso. A Firenze ricordano con immutata riconoscenza: Pesaola fu determinante sul piano psicologico. La sua allegria, i riti, le bugie, la furbizia, l’arguzia di questo piccolo grande uomo fecero presa sulla squadra contribuendo al magico stato di grazia.  Sentiamo come il Petisso amava raccontare la sua Fiorentina: 

«Estupenda, una squadra perfetta. Faceva calcio totale, aveva una modernità de gioco, era all’avanguardia per quei tempi. C’erano quattro dirigenti e basta e il presidente Baglini era sempre fuori per lavoro. E poi un grande, grandissimo direttore sportivo, Carlo Montanari: è stata la persona più pulita che ho incontrato nel calcio. E avevo un osservatore, Baggiotti, che andava a vedere la domenica prima l’avversaria e me faceva delle relazioni estupende. E avevo dodici giocatori titolari. Dodici, perché prima gioga Rizzo e poi Chiarugi».

Il Petisso costruì una formazione equilibrata e completa in ogni reparto. 

«Superchi in porta non fa rimpiangere Albertosi ceduto, al Cagliari. Debutta quell’anno e diventa subito un eccezionale punto di forza. Una stagione veramente brillante, la più bella della sua carriera. Rogora un mastino, anticipo, doti acrobatiche, te prendeva e non te mollava. Mancin continuo e preciso, lineare, ha vinto con noi e poi l’anno dopo con il Cagliari. Brizi? Non ho mai visto uno stopper pulito come lui. Lo criticavano perché era troppo corretto. Ferrante libero imbattibile nel giogo aereo, fortissimo. Ciccio Esposito centrocampista di fascia, veloce e resistente, sempre in movimento. Lui si lamentava perché avrebbe voluto fare il regista. Ma al centro c’era el Picchio. Eh, el Picchio dettava i tempi, faceva muovere tutta la squadra. Ah, De Sisti: grande giogatore e grande persona. Poi Merlo, romano come el Picchio, perfetto sino alla trequarti. Gli mancava il colpo finale. Elegantissimo».

E poi c’era Amarildo… 

«Un campione strepitoso, assoluto. Sapeva fare proprio tutto: classe, fantasia, geometria, tornava, spaziava con generosità. Straordinario nell’ultimo passaggio. Dicevano che era intrattabile, io non ho mai avuto un problema. C’era feeling, el feeling c’è o non c’è, non se compra».

Concludiamo con l’attacco…

«Nella prima parte, a destra, con il sette c’era Rizzo, buona tecnica, tiro potentissimo. Poi, nel ritorno, ho messo dentro Chiarugi, pupillo del presidente, che mi ha fatto la differenza. Quel ragazzo mi ha creato qualche problema, proprio perché era il pupillo del presidente e a me i pupilli non sono mai piaciuti. Centravanti Maraschi, un furbone, nell area rubava, arrivava dappertutto. Era un giramondo, alla Fiorentina si esaltò e fece, quell’anno, 14 gol. Una squadra estupenda».

L’arte di gestire i campioni

Il talento di Pesaola non si limitava alla tattica. La sua vera forza era la capacità di gestire i giocatori, di motivarli e di creare un gruppo coeso. La sua abilità nel trattare con i giocatori emerge anche dal racconto dell’incontro con l’arbitro Lo Bello: un mix di psicologia e furbizia tipico del suo modo di allenare:

“Una volta faccio un viaggio in Svizzera e sai chi ti incontro in treno? Lo Bello, il vecchio Concetto che me dice: caro Pesaola, hai una buona squadra che può vincere anche lo scudetto, ma dì a Chiarugi e Amarildo di non fare storie, di non scassarci ‘a minchia. Quando torno li chiamo in disparte: allora, domenica c’è Lo Bello, mi raccomando Amarildo, quando fischia, lei – perché io davo del lei a tutti i miei giocatori – anche se non è d’accordo, deve alzare le mani e dire ha ragione, arbitro, va bene, arbitro. E lei, Chiarugi, cerchi di non ruzzolare. Capito? Quello ve butta fuori. Bene… giocano e se comportano estupendamente. Alla fine Lo Bello me dice: ma lo sai che sono bravi, educati. Ma come hai fatto a calmarli? Me ascoltano, Concetto!”

Lo scudetto del 1969: il capolavoro di Pesaola

La stagione 1968-69 vide la Fiorentina di Pesaola compiere un’impresa memorabile. In un campionato combattuto, la Viola riuscì a prevalere su avversarie temibili come il Cagliari di Gigi Riva e il Milan di Rivera. Fu il trionfo del calcio totale all’italiana, un mix di gioventù, classe, grinta e spettacolo che incantò l’Italia intera.

Il successo della Fiorentina non fu solo il risultato di un gioco brillante, ma anche di quella particolare atmosfera che Pesaola sapeva creare. La sua allegria, i suoi riti scaramantici, persino le sue “bugie” tattiche contribuirono a creare uno stato di grazia che durò un’intera stagione.

Bruno Pesaola ha rappresentato un’epoca del calcio italiano che difficilmente potrà tornare. Un’epoca in cui le strategie nascevano tra i vapori del caffè e il brusio dei bar, dove le distanze tra tribuna e campo si misuravano in strette di mano, non in barriere. Un tempo in cui dalla panchina si alzavano volute di fumo insieme agli schemi di gioco, e le conferenze stampa erano palcoscenici di battute sagaci invece che di frasi fatte.

Era un calcio che danzava sul filo dell’improvvisazione, dove l’astuzia di strada valeva quanto i grafici delle prestazioni atletiche, e l’intuito brillava più delle analisi statistiche. Un teatro sportivo popolato da personaggi più grandi della vita stessa, tra i quali il Petisso brillava come una stella polare, illuminando con la sua piccola grande presenza un’epoca irripetibile del nostro calcio.