Il vecchio Liedholm e il bambino Pelè

Uno veniva dal luogo più freddo e asciutto del pianeta, l’altro da quello più caldo e umido. Il freddo era bianco come la neve. Il caldo era nero come la lava. Il bianco, come calciatore, era vecchio, un campione a fine carriera. Il Nero non aveva ancora 18 anni.

Il vecchio non dribblava mai, solo i suoi cani, per allenarsi. I cuccioli sono fortissimi e vanno su tutte le finte (almeno così raccontava). Una domenica dei primi anni cinquanta in un Milan-Spal partì dalla sua area e arrivò quasi in porta con il pallone senza dribblare nessuno, solo a forza di finte. Tutti si aspettavano il passaggio che per la prima e ultima volta non venne. Un’altra domenica la sua squadra aveva segnato subito ed era rimasta in dieci. Lui toccò tre palle in tutta la partita, ma ogni volta la tenne per venti minuti (almeno così raccontava…). Pur essendo nordico aveva infatti appreso in Italia un gusto mediterraneo per l’esagerazione.

Il diciassettenne è stato il più formidabile dribblatore di tutti i tempi. Al suo di tempo l’unico che poteva reggere il confronto con lui era un compagno di squadra, Garrincha, che aveva una gamba più corta dell’altra per le conseguenze della poliomielite. Con quel passo sghembo ingannava gli avversari.

Lo svedese non era un grande amatore, confidava di aver vissuto la sua prima volta a 27 anni con la donna che avrebbe sposato. il brasiliano era invece inseguito dalle donne e talora si lasciava volentieri raggiungere.

Una cosa avevano in comune Nils Liedholm ed Edson Arantes Do Nascimento, detto Pelè: un incavo in una gamba fratturata e mai ingessata, solo legata stretta stretta per non farsi scoprire dal padre. Altra cosa in comune: in un referendum Liedholm è stato eletto il più grande sportivo della storia svedese. In un plebiscito quotidiano Pelé è stato considerato il più grande sportivo della storia brasiliana.

A Valdemarsvik, il fiordo del vichingo Valdemar, negli inverni prima della guerra c’erano 20 gradi sotto zero. Per irrobustirsi Nils giocava a bandy, sport simile all’hockey, ma più virile. I ragazzi si gettavano l’un contro l’altro pattinando a tutta velocità. Lui tornava a casa pesto e sanguinante. Era gracile e voleva diventare forte. Provò così il badminton, la boxe, la lotta, e poi i 100 metri , i 1500, i 3000, il giavellotto , il peso, il salto in alto, pure il salto con l’asta. (Almeno così raccontava…)

La mattina faceva 5 chilometri di corsa nel bosco per andare a scuola. Suo padre era a capo di una segheria. Più che un bosco era una foresta abitata da zingari. Una volta uno di loro gli lesse la mano e disse che avrebbe girato il mondo, trovato molte cose ma senza diventare ricco.

Pelé era nato in un villaggio molto povero dal nome molto poético: Três Corações, tre cuori, e si era subito trasferito a Bauru alla periferia di San Paolo, senza neppure refrigerio e l’orizzonte dell’oceano. Il suo primo pallone fu un mango. Non una marca di pallone: proprio il frutto. Il padre João detto Dondinho, un talento costretto al ritiro da un infortunio al ginocchio, sosteneva che il mango fosse l’ideale per migliorare la sensibilità del piede. Poi passò a un calzino riempito di stracci.

Gli inverni di Valdemarsvik erano tiepidi in confronto al primo inverno di guerra. 43 gradi sotto zero ad Haparanda, il punto più a nord della Svezia, in riva a un fiume ghiacciato. Il giovane soldato Liedholm divideva la tenda con altri quattro commilitoni ma nessuno dormiva. Non per paura che arrivasse l’Armata Rossa dalla Finlandia, ma per non morire congelati.

Con la pace arrivò il calcio. Giovanni Agnelli lo vide nel Norrköping e gli chiese di andare alla Juve. Lui disse no e così l’avvocato prese John Hansen. Poi il Norrköping battè il Milan 3 a 1. Nils trattò con i dirigenti rossoneri per tutta la notte. Firmò alle 4 di mattina. Era il 1947.

Il Brasile non aveva conosciuto la guerra tranne il contingente inviato al fianco degli alleati. Ma nel 1950 visse la sua catastrofe: il Mondiale presto in casa 1-2 contro l’Uruguay. Non fu solo una sconfitta, fu una gigantesca perdita di fiducia in se stessi. Venne messa in discussione una mentalità. Venne processato uno stile, il futbol bailado, il calcio di strada fatto di tocchi, finte, dribbling e movenze derivate dalla danza.

Lo stile Ginga, il passo base della Capoeira che a sua volta discende dalla lotta con cui gli schiavi fuggiaschi avevano imparato a difendersi dai cacciatori portoghesi. Il calcio come espressione della storia e dello spirito di un popolo. Il calcio come l’aveva sempre sentito e pensato il giovane Pelè, proprio nel momento in cui il Brasile si vergognava di se stesso e si andava convincendo di dover giocava in modo organizzato, prudente e razionale come gli europei, come gli svedesi.

La Milano del dopoguerra era piena di macerie ma era una città straordinaria. Viveva ancora il mito del bicampione Meazza, la squadra per eccellenza era l’Inter. Con Liedholm e gli altri svedesi, Gunnar Gren e Gunnar Nordhal, il Gre-No-Li, cambiò tutto: quattro scudetti. Nel 1958 nella finale di Coppa Campioni con il Real Madrid il Milan sta vincendo 2-1 quando Joseíto rifila al cervello della squadra avversaria, appunto Liedholm, una botta terribile alla caviglia. Finisce 3-2 per gli spagnoli. Quella notte Nils non dorme, per tutta la vita si chiederà se Joseíto l’avesse fatto apposta. Arrivato a 80 anni incontrerà a Roma Gento e Di Stefano, che considerava il calciatore più forte di sempre, e riuscirà a porre la fatidica domanda. I due si guarderanno, rideranno e diranno: “Joseíto è uno che sapeva scegliere i momenti giusti…

Pelè all’inizio lo chiamavano Dico, diminutivo di Edson, il suo vero nome, come Thomas Alva Edison, l’inventore della lampadina. Bilé era il portiere del Vasco de San Lorenzo che lui da piccolo pronunciava in modo sbagliato. Per questo non ha mai amato il soprannome con cui divenne famoso.

Subito si rivelò un fuoriclasse. Una volta l’arbitro lo cacciò e il pubblico che era venuto apposta per vederlo protestò tanto che Pelè rientrò in gioco e per la stizza se ne andò l’arbitro. Nessuno si meravigliò quando venne convocato per i Mondiali. Nessuno tranne lui, che non nascondeva la sua indole emotiva. Al momento di scendere in campo a volte gli veniva da vomitare. Proprio come accaduto nella finale del Mondiale a Rio 2014 a un altro fuoriclasse sudamericano, Leo Messi.

Liedholm è uno per cui Santiago Bernabeu non è il nome di uno stadio ma un signore che lo voleva a ogni costo. Per sedurlo lo portò nel suo allevamento di tori da corrida. Un Toro li puntò, Nils prese di peso Santiago, lo scaraventò lontano, gli salvò la vita e… rimase al Milan. La sua è una storia di iperboli, la vicenda del calcio è piena di tiri da 50 metri, di cannonate che sfondano la rete, di lanci da porta a porta. Ecco, i lanci li ha fatti quasi tutti Liedholm.

E poi gol, a centinaia, ma la massima ovazione (almeno così raccontava…) la ebbe a San Siro per un passaggio sbagliato: erano tre anni che non sbagliava un passaggio. Rocco, che non aveva la sua eleganza aristocratica, ne era un po geloso. “Sto mona de un barone può dire la più grande monata del mondo e tutti gli credono“.

I brasiliani che affrontano il Mondiale del 1958 invece non credono più in se stessi, o non ancora. La prima partita l’8 giugno a Uddevalla Pelé non scende in campo. Segna una doppietta il più europeo della Selecao, un’ala di origine italiana, Josè Altafini che si fa chiamare Mazzola in omaggio al Capitano del Grande Torino. Con l’Inghilterra a Goteborg finisce zero a zero e l’Unione Sovietica è battuta con una doppietta di Vavà.

I Mondiali del 1958 erano per gli svedesi l’occasione della vita, e non solo perché si giocavano in Svezia. Una grande generazione di calciatori, la migliore di sempre nella storia del Paese, arrivava all’ultima missione. Nel 1948 avevano vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Londra. Avevano avuto successo nei campionati di mezza Europa in particolare in quello italiano ma ora avevano quasi 40 anni: 36 Liedholm, 37 Nordhal, 38 Gren.

I brasiliani erano giovanissimi. Garrincha aveva 24 anni, Vavà 23, Josè Altafini ne aveva appena compiuti 20. Il diciassettenne Pelè esplose con il Galles sbloccando una partita durissima. Poi ne fece tre alla Francia in semifinale e fu confermato titolare per la sfida decisiva.

Anche la Svezia fece un grande Mondiale. Tre a zero al Messico, Liedholm trasforma un rigore, 2-1 con doppietta di Hamrin ai maestri dell’Ungheria che quattro anni prima hanno incantato il mondo, uno zero a zero con il Galles per rifiatare. Elimina poi l’Unione Sovietica nei quarti e la Germania Ovest in semifinale, gol di Skoglund, Gren, Hamrin. La Svezia è in finale per la prima e ultima volta nella sua storia, ma è distrutta dalla fatica.

Negli spogliatoi, prima di scendere in campo, Liedholm dice (o dice di aver detto…): “segno subito io poi tutti indietro a difenderci“. Fatto sta che Liedholm segna subito. Una specie di magia: la palla gli carambola addosso come un prestigiatore spiazzando i due Santos, i terzini più famosi del tempo. Poi la Svezia si chiude in difesa e il Brasile ne fa cinque: due sono di Pelè.

Al quinto gol il commentatore della radio Leonidas, ex centravanti della Selecao, sviene in diretta. Sette i morti di fatto accertati solo a Rio e per la prima volta il Brasile è campione del mondo. Pelé, piange.

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Liedholm andò incontro a una grande carriera da allenatore. Scudetto con il Milan, scudetto con la Roma, guidata anche alla sua prima e unica finale di Coppa dei Campioni. L’avvocato tentò di portarlo alla Juve, lo invitò a casa e gli mandò Boniperti che lo tenne fino alle quattro di notte e al ritorno si fermò a dormire in macchina in autostrada. Ma la Juve non faceva per lui. Sosteneva Nils che ogni squadra avesse il suo codice genetico. La Juve difesa e contropiede, come l’Inter, il Milan gioca d’attacco come la Roma come il Brasile. E poi, aggiungeva, con la Juve avrebbe vinto troppo.

Pelè diventerà l’unico calciatore della storia ad aver vinto tre Mondiali di cui l’ultimo, purtroppo, contro l’Italia. Nello storico 4-1 all’Azteca di Città del Messico segnò il primo gol saltando 20 centimetri sopra Burgnich, lui che era alto solo un metro e 72. Secondo Gianni Brera però non aveva saltato: si era calato da un ramo, di mango ovviamente.

Liedholm era convinto che il destino fosse scritto nelle stelle. Tutti i grandi centrocampisti, diceva, sono della Bilancia e tutti i grandi attaccanti dello Scorpione. Liedholm era della Bilancia come Falcao, Ancelotti, Platini.
Pelè è dello Scorpione come Riva, Van Basten e Maradona anche se con il Pibe lui non va d’accordo e a ogni Mondiale trovano un pretesto per litigare.

Il Barone ci ha lasciati il 5 novembre 2007 a Cuccaro, sulle colline del Monferrato, dove si era ritirato a coltivare le vigne di Barbera.

Testo di Aldo Cazzullo