SCHIAFFINO Juan Alberto: il “Pepe” che dava sapore al gioco

Uruguaiano di nascita, aveva impresso nell’animo l’inconfondibile codice della Liguria. Schiaffino è cognome battente bandiera genovese, della riviera di Levante. E dalla costa a Est di Genova proveniva il nonno paterno, un macellaio emigrato verso La Merica agli inizi del Novecento,come tanti italiani all’epoca. Incerto il paese di origine, Camogli o Portofino.

Inequivocabile il Dna, sulla parsimonia di Pepe Schiaffino si sprecano gli aneddoti. Memorabile quel che accadde proprio a Genova, prima di una partita a Marassi tra il Milan e i rossoblù di casa. Un sabato pomeriggio di vigilia, quattro passi distensivi lungo via Venti Settembre. Tira vento di tramontana, fa un freddo cane e Liedholm suggerisce: «Perché non prendiamo un caffé?». Nordahl e Schiaffino approvano, ma, sull’uscio del bar, Pepe viene colto da un atroce dubbio e domanda: «Paga la società, vero?». Deludente risposta di Nordahl: «No, Pepe. In questo caso ciascuno sborsa di suo». Estremo dribbling dell’uruguaiano più genovese dei genovesi: «Vi aspetto fuori, il caffé mi rende nervoso».

Schiaffino è stato forse il primo calciatore a gestire gli ingaggi con criteri manageriali. Raccontano che ai tempi del Milan fosse solito trascorrere i lunedì di riposo nella vicina Svizzera, per speculazioni finanziarie. Comprava e rivendeva valuta e, secondo attendibili testimonianze, faceva fruttare i risparmi del 20 per cento e reinvestiva in appartamenti e negozi. Certo, circolavano altre cifre.

Il Milan lo acquistò nel 1954 per 52 milioni di lire. Somma rispettabile, ma niente di paragonabile alla nostra realtà: gli indici di rivalutazione dimostrano che 52 milioni del ’54 equivalgono a circa 600.000 euro di oggi, meno di un miliardo e 200 milioni delle vecchie lire. Somma risibile, dato l’inestimabile valore tecnico di Schiaffino. Che il primo anno al Milan percepì stipendi per 15 milioni di lire, meno di 200.000 euro correnti. Schiaffino pagato come un mediano della Reggina o del Modena di oggi. Cronache da un altro evo.

Juan Alberto Schiaffino detto Pepe. A ribattezzarlo così da bambino fu la madre, per sottolinearne il carattere vivace, le bizze e i pianti. Pepe era e Pepe rimase. Juan onorò il soprannome, in campo e fuori, perché Schiaffino aveva proprio uno spirito ligure: oltre che risparmioso, era spigoloso, burbero, introverso. Tendeva a fare di testa sua e a dire quel che pensava. Quest’ultima cosa gli procurò fastidi, squalifiche e rapporti tesi, specie con compagni e allenatori: memorabili certe litigate con Gipo Viani.

Figlio di una casalinga e di un impiegato dell’ippodromo nazionale di Montevideo, Schiaffino comincia a giocare a 8 anni. E’ un’ala destra. Nel 1937 la prima squadra vera, l’Olimpia. Nel 1942 la svolta: entra nel settore giovanile del Peñarol. Altri tempi, si diceva. Impensabile vivere di solo calcio. Il Pepe arrotonda e assaggia diversi mestieri: fornaio, commesso di cartoleria, operaio in una fabbrica di alluminio. Però è così bravo che la doppia vita dura poco. A 18 anni è già titolare.

Gioca con l’intelligenza e la sapienza di un veterano e nel 1950 viene convocato per la coppa Rimet in Brasile. Una coppa del Mondo che sembra decisa in partenza: vincerà il Brasile. Anzi, deve vincere il Brasile. Quel che succede allo stadio Maracanà il 16 luglio 1950 è qualcosa di epico e irripetibile. Brasile-Uruguay non è la finale, perché in quell’edizione la formula è particolare e a decidere il vincitore sarà un girone all’italiana. Non è una finale, ma qualcosa che gli assomiglia maledettamente. E’ l’ultima partita e al Brasile basta un pari per diventare campione del mondo.

Un pari? Non scherziamo: i quasi 200.000 del Maracanà non si aspettano altro che gloria e vittoria. Segna Friaca e l’operazione pare compiuta, ma milioni di brasiliani sottovalutano l’Uruguay. Obdulio Varela, il capitano, raccoglie la palla in fondo alla rete e con passi lenti si avvia a centrocampo.
Trascorrono interminabili secondi, Varela ha lo sguardo fiero e sembra ammonire i brasiliani. Il segnale è forte, ma pochi lo colgono. Al resto provvede Schiaffino: prima Pepe pareggia, poi serve a Ghiggia l’assist per lo storico 2-1.
Uruguay campione e Brasile nel dramma: quella notte vengono certificati 34 suicidi e 56 attacchi cardiaci.

Schiaffino gioca altri due anni nel Peñarol, però l’Italia lo chiama ed è difficile resistere alle lusinghe. Il primo tentativo è del Genoa e va a vuoto: gli emissari rossoblù si imbattono in un uruguaiano più «genovese» di loro. Il secondo riesce e lo firma il Milan. Trattativa a Hilterfingen, in Svizzera, nel ritiro della nazionale uruguaiana, alla vigilia della coppa Rimet del ’54. Trattativa condotta da Mimmo Carraro, dirigente rossonero dell’ epoca, nessuna parentela con i Carraro che verranno. Ufficializzato il trasferimento, un giornale di Montevideo titola: «Il Dio del pallone ci ha lasciato. Una perdita irreparabile».

Schiaffino sbarca in Italia a 29 anni compiuti, è di gracili apparenze visto che non arriva a 70 chilogrammi di peso, ma non è per niente sul viale del tramonto. Anzi. Dipinge partite straordinarie, pennella calcio e le tifoserie avversarie gli dedicano ovazioni spontanee: succede a Firenze in occasione di un passaggio stupendo e la storia si ripete a Ferrara. Schiaffino è un centrocampista universale, sa fare tutto e legge in anticipo lo sviluppo del gioco.
Non insegue la palla, è la palla che corre verso di lui. Scriverà Gianni Brera: «Forse non è mai esistito regista di tanto valore. Schiaffino pareva nascondere torce elettriche nei piedi. Illuminava e inventava gioco con la semplicità che è propria dei grandi. Aveva innato il senso geometrico, trovava la posizione quasi d’istinto».
Il Milan del Pepe vince tre scudetti e Schiaffino arriva a vestire la maglia azzurra.

E’ il periodo dell’apertura agli oriundi e il nonno ligure di Juan Alberto è il miglior passaporto per la nazionale italiana. Forse è la sola parentesi infelice. Schiaffino mette insieme 4 presenze ed è in campo a Belfast il 15 gennaio 1958 contro l’Irlanda del Nord, nella sfida che sancisce l’esclusione dell’Italia dalla fase finale della coppa Rimet in Svezia dell’estate successiva. E’ la prima e unica volta che l’Italia manca la qualificazione a una coppa del Mondo e succede con Schiaffino. Misteri del calcio.

“Pepe” chiude la carriera nella Roma, biennio 1960-62. Ha superato i 35 anni e il fisico non lo sorregge più come una volta, così si sistema davanti al portiere e si inventa il ruolo di «libero scientifico».Nel ’62 smette e torna a Montevideo: per qualche anno fa l’allenatore, senza troppa convinzione. Cura i suoi affari con sapienza genovese, sempre più avvinto ad Angelica, la moglie, conosciuta nel ’42 su un bus e mai più lasciata. E’ un legame forte: al Milan e alla Roma il Pepe imponeva la presenza della donna nei ritiri. La coppia vive in Calle Uspallata, 170 metri quadrati a due passi dal Rio della Plata. Un’esistenza felice, anche se priva di figli. Angelica morì pochi mesi prima del marito, che la raggiunse in fretta il 13 novembre 2002. Un amore grande, come grande è stato il Pepe.

Testo di Sebastiano Vernazza

“Forse non è mai esistito regista di tanto valore. Schiaffino pareva nascondere torce elettriche nei piedi. Illuminava e inventava gioco con la semplicità che è propria dei grandi. Aveva innato il senso geometrico, trovava la posizione quasi d’istinto»
Gianni Brera