L’Odissea di Ancelotti: 800 giorni alla Juventus

L’esperienza di Carletto in bianconero (1999-2001) fu segnata da aspettative deluse e opportunità mancate. Una fase difficile della sua carriera che si rivelò però cruciale per la sua crescita come allenatore di successo.

14 maggio 2000. Il cielo sopra Perugia si apre, scatenando un diluvio che sembra voler lavare via le speranze bianconere. Sul campo allagato del Renato Curi si consuma l’epilogo di una stagione maledetta per la Juventus di Carlo Ancelotti. Mentre a Roma la Lazio festeggia il suo secondo scudetto, i giocatori della Vecchia Signora affondano nel fango delle loro ambizioni tradite.

Quella partita, quel gol di Calori che fa crollare un castello di carte, è l’immagine perfetta per raccontare l’esperienza di Ancelotti sulla panchina juventina. Due anni di promesse mai mantenute, di occasioni sprecate, di un rapporto mai sbocciato tra l’allenatore emiliano e l’ambiente torinese.

L’erede designato

Dopo aver appeso gli scarpini al chiodo nel 1992, Carlo inizia la sua carriera da allenatore all’ombra del suo mentore Arrigo Sacchi. Tre anni come vice della Nazionale sono il trampolino di lancio per le prime esperienze da primo allenatore: prima la promozione in Serie A con la Reggiana, poi due stagioni al Parma dove sfiora lo scudetto nel 1997.

Quel Parma era una squadra straordinaria, con giovani talenti come Buffon, Thuram e Cannavaro in difesa, Dino Baggio a centrocampo, Crespo e Chiesa in attacco. Ancelotti li porta a lottare fino all’ultimo con la Juventus dei campioni, chiudendo il campionato a soli due punti dai bianconeri. È la migliore stagione nella storia del club emiliano, un risultato che mette in luce le qualità del giovane tecnico.

Quando nel febbraio del 1999 Marcello Lippi lascia la panchina della Juventus, la scelta della dirigenza bianconera cade proprio su Ancelotti. Sembra l’uomo giusto al momento giusto: un ex campione che conosce bene l’ambiente, un tecnico emergente che ha già dimostrato di saper lottare per il vertice. Ma l’accoglienza dei tifosi è gelida. “Un maiale non può allenare“, recita uno striscione alla sua prima partita. È solo l’inizio di un rapporto che non decollerà mai.

La maledizione della Champions

Il primo obiettivo di Ancelotti è quello di riportare la Juventus sul tetto d’Europa. La squadra arriva fino alla semifinale di Champions League, dove affronta il Manchester United. L’andata a Old Trafford finisce 1-1, un risultato che fa ben sperare per il ritorno a Torino. Ma nella notte del Delle Alpi i Red Devils compiono l’impresa, vincendo 3-2 e infrangendo il sogno bianconero.

Quella sconfitta segna profondamente la stagione e il destino di Ancelotti. La Juventus chiude il campionato al settimo posto, fallendo persino la qualificazione alla Coppa UEFA. È un risultato inaccettabile per una squadra che nei tre anni precedenti aveva vinto due scudetti e raggiunto tre finali consecutive di Champions League.

Aprile 1999: la Juventus subisce una cocente eliminazione ad opera del Manchester Utd

Il confronto con il predecessore Lippi è impietoso. Dove il tecnico viareggino aveva costruito una macchina perfetta, capace di dominare in Italia e in Europa, Ancelotti sembra aver smarrito la strada. I tifosi non perdonano, la stampa inizia a mettere in dubbio le sue capacità. Ma la dirigenza decide di dargli un’altra chance.

La ricostruzione incompiuta

L’estate del 1999 è quella della rifondazione. Mentre le altre big della Serie A si scatenano sul mercato (Shevchenko al Milan, Vieri all’Inter, Verón alla Lazio), la Juventus opta per una strategia più conservativa. Via Thierry Henry, dentro Darko Kovacevic. Un cambio che col senno di poi si rivelerà disastroso: il francese diventerà una leggenda all’Arsenal, il serbo non lascerà traccia a Torino.

Anche l’arrivo di Edwin van der Sar per sostituire Angelo Peruzzi si rivela un flop. Il portiere olandese, stella dell’Ajax campione d’Europa, non si adatta mai al calcio italiano e dopo due stagioni ripartirà dal Fulham per ricostruire la sua carriera.

Edwin van der Sar

Ancelotti si trova così a dover gestire una squadra in transizione, con alcuni campioni in declino e giovani promesse ancora acerbe. Un compito arduo per un allenatore che sta ancora costruendo la sua identità tattica e il suo carisma da leader.

Il tecnico cerca di imporre il suo credo calcistico, un mix tra il calcio totale olandese appreso da Sacchi e un approccio più pragmatico. Ma la squadra fatica a trovare un’identità precisa. Zidane, Del Piero e Inzaghi sono campioni assoluti, ma non sempre riescono a coesistere in armonia sul campo.

Il crollo

Nonostante le difficoltà, la stagione 1999-2000 sembra quella buona per riportare lo scudetto a Torino. A otto giornate dalla fine la Juventus ha nove punti di vantaggio sulla Lazio. Il tricolore sembra a un passo, ma è proprio in quel momento che la squadra di Ancelotti si sfalda.

Due sconfitte consecutive contro Milan e Lazio riaprono i giochi. La Juve barcolla, perde anche a Verona. All’ultima giornata basta un pareggio a Perugia per laurearsi campione, ma sotto il diluvio umbro crolla anche l’ultima certezza. Il gol di Calori consegna lo scudetto alla Lazio e condanna Ancelotti a un’altra stagione di rimpianti.

Ancelotti nel nubifragio di Perugia

È la conferma di tutti i dubbi sull’allenatore emiliano. La sua Juventus viene etichettata come una squadra mentalmente fragile, incapace di reggere la pressione nei momenti decisivi. Un’accusa che Ancelotti si porterà dietro per anni, prima di smentirla definitivamente con i trionfi al Milan e al Real Madrid.

Quella partita di Perugia diventa il simbolo di un’intera stagione, di un’intera gestione. Le immagini di Ancelotti impotente in panchina, dei giocatori bianconeri che affondano nel fango, entrano nell’immaginario collettivo del calcio italiano. È una ferita che non si rimarginerà mai completamente.

L’ultima chance

La stagione 2000-2001 è l’ultima opportunità per Ancelotti di lasciare il segno alla Juventus. Ma è un’annata che nasce sotto una cattiva stella. In Champions League i bianconeri vengono eliminati nella fase a gironi, crollando 3-1 sul campo del Panathinaikos nell’ultima partita decisiva.

È una sconfitta che mina ulteriormente la fiducia dell’ambiente nei confronti dell’allenatore. La Juventus sembra aver perso quella fame di vittorie che l’aveva caratterizzata negli anni precedenti. I veterani non riescono più a trascinare la squadra, i giovani faticano a imporsi.

In campionato la musica non cambia. La Juventus lotta fino all’ultimo ma deve arrendersi alla Roma di Fabio Capello, che vince lo scudetto con due punti di vantaggio. Il destino di Ancelotti è segnato: l’esonero viene annunciato nell’intervallo dell’ultima partita di campionato.

Ancelotti tra Giraudo e Moggi

È un finale amaro, che rispecchia perfettamente il rapporto mai sbocciato tra Ancelotti e la Juventus. L’allenatore lascia Torino con la sensazione di un’occasione sprecata, di un potenziale mai pienamente espresso. I tifosi, dal canto loro, non versano lacrime per quella partenza.

Si chiude così, dopo 800 giorni, l’avventura di Carlo sulla panchina bianconera. Un’esperienza che lascia l’amaro in bocca a entrambe le parti, ma che si rivelerà fondamentale per la crescita dell’allenatore.

Le ragioni del fallimento

Perché Ancelotti non è riuscito a imporsi alla Juventus? Le ragioni sono molteplici e si intrecciano tra loro. C’è sicuramente un problema di esperienza: nonostante il suo passato da calciatore vincente, Carlo non era ancora pronto per gestire la pressione di una piazza come quella juventina.

La Juventus di fine anni ’90 era una squadra abituata a vincere tutto, in Italia e in Europa. Passare da Lippi ad Ancelotti significava passare da un allenatore già affermato a un tecnico ancora in fase di apprendistato. Forse la dirigenza bianconera ha sottovalutato questo aspetto, pensando che il carisma del campione potesse compensare la mancanza di esperienza dell’allenatore.

C’è poi la questione del rapporto con l’ambiente. Ancelotti non è mai riuscito a farsi amare dai tifosi bianconeri, che lo hanno sempre visto come un corpo estraneo. Lui stesso, anni dopo, ammetterà di non aver mai amato Torino e la Juventus, definendola “una squadra che non ho mai amato e che probabilmente non amerò mai“.

Questo distacco emotivo ha sicuramente influito sulle prestazioni della squadra. In un ambiente come quello juventino, dove la maglia pesa e la pressione è costante, non riuscire a creare un legame con i tifosi può essere fatale. Ancelotti non è mai riuscito a trasmettere quel senso di appartenenza che invece Lippi aveva saputo instillare nei suoi giocatori.

Ma forse il problema più grande è stato quello di non riuscire a motivare un gruppo di campioni che avevano già vinto tutto. Ancelotti non aveva ancora sviluppato quelle doti di gestione dello spogliatoio che lo renderanno famoso negli anni successivi. Non è riuscito a trovare la chiave per riaccendere la fame di vittorie in giocatori che sembravano appagati.

Inoltre, non va sottovalutato l’aspetto tattico. Ancelotti cercava di proporre un calcio diverso da quello di Lippi, più basato sul possesso palla e meno sul pressing asfissiante. Ma questo cambiamento non è stato metabolizzato completamente dalla squadra, creando spesso confusione in campo.

Infine, c’è stata anche una buona dose di sfortuna. La sconfitta di Perugia, con quel diluvio che ha condizionato la partita, rimane un episodio difficile da digerire. Se quel giorno fosse andata diversamente, forse la storia di Ancelotti alla Juventus avrebbe preso un’altra piega.

Una lezione per il futuro

L’esperienza alla Juventus, per quanto negativa, si rivelerà fondamentale nel percorso di crescita di Ancelotti. Gli errori commessi a Torino diventeranno insegnamenti preziosi per il futuro. La capacità di gestire i grandi campioni, di motivare la squadra nei momenti decisivi, di creare un rapporto empatico con l’ambiente: tutte qualità che Carlo svilupperà negli anni successivi, diventando uno degli allenatori più vincenti della storia del calcio.

Quella pioggia di Perugia, che sembrava aver lavato via le sue ambizioni, si è trasformata in una benedizione. Ha costretto Ancelotti a mettersi in discussione, a crescere come uomo e come allenatore. Il “maiale che non poteva allenare” è diventato il “Re di Coppe“, l’unico tecnico capace di vincere il campionato in tutti e cinque i principali tornei europei. Nel calcio, come nella vita, le sconfitte possono essere il miglior maestro. E a volte bisogna perdersi per ritrovarsi, più forti di prima.