LUGARESI Edmeo

Prese il Cesena dallo zio Dino Manuzzi e fu subito Serie A. Ben tre degli allenatori che lanciò (Bagnoli, Bigon e Lippi) volarono verso lo scudetto. «Il nostro obiettivo è vendere ogni anno un buon giocatore per comprarne tre discreti»

Edmeo Lugaresi, esportatore internazionale di frutta e verdura dai capannoni di via Piave a Cesena, era un gran lavoratore, un uomo ruspante e un popolano verace negli anni Ottanta. Romagnolo di San Martino in Fiume, sei chilometri da Cesena, aveva cominciato a lavorare a dieci anni, assistente dello zio Aristide Manuzzi, barbiere del paese. Nato il 30 aprile 1928, era rimasto orfano di padre a 18 mesi. La madre andava a lavorare in città all’Arrigoni: doveva darsi da fare. Dallo zio Aristide, che pare avesse fatto addirittura la barba a Mussolini, ma era una leggenda paesana, passò allo zio Dino, rivenditore alla grande di frutta e verdura, fratello di sua madre che lo chiamò a Cesena.

Edmeo, piccolo e robusto, patito di corse in bicicletta, prese il posto del figlio di Dino Manuzzi, Luciano, che non voleva saperne di cassette di frutta e ortaggi. Lavorò duro perché a 17 anni aveva messo incinta la morosa e si era dovuto sposare alle sette del mattino, quasi di nascosto, perché il prete lo considerava un bestemmiatore.

Al primo anno, tra ravanelli e pesche, guadagnò 61 milioni. Andò così bene che lo zio Manuzzi lo lasciò fare da solo per dedicarsi alla sua passione, il calcio. Era infatti presidente del Cesena che aveva portato in Serie A per la prima volta nel 1973.

Il Cesena era una società giovane, sorta nel 1940 quando l’aveva fondata Alberto Rognoni, figlio di un magistrato e di una contessa. Dalla madre riuscì a farsi dare i soldi necessari per mettere su la società di calcio. Il primo acquisto di Rognoni fu il fratello Carlo che giocava portiere nel Lugo. Diventato editore e giornalista a Milano (il “Guerin Sportivo” il fiore all’occhiello), poi inquisitore della Federcalcio, il conte Alberto Rognoni, fascinoso e ombroso personaggio, cedette il Cesena a Dino Manuzzi per 64 milioni nel 1964.

Con Walter Schachner, il primo straniero dopo la riapertura delle frontiere

Presidente mitico, Manuzzi creò una società modello con un vivaio che la Juventus avrebbe voluto comprare. Fu un piccolo Napoleone del calcio, con un fiuto particolare. Andò in Serie A con Radice, ma il suo principale collaboratore fu Renatone Lucchi, cesenate, allenatore e poi dirigente sportivo, che un giorno gli disse: «Guardi, signor Dino, che nel calcio non è come nei cocomeri, non si fa il tassello». E Manuzzi imperturbabile rispose: «Tra meloni e palloni non c’è poi tanta differenza».

Nell’agosto del 1980, Dino Manuzzi consegnò il Cesena, che era in B, al nipote Edmeo Lugaresi. Questi sborsò 60 milioni e disse che avrebbe comandato da solo. L’intesa con Lucchi, consigliere di famiglia, fu perfetta, rafforzata ai tavoli verdi del Circolo cittadino. Con Bagnoli allenatore conquistò subito la Serie A. Dino Manuzzi, lo zio, commentò: «Gli avevo lasciato tante cose pronte».

Il settore giovanile, che un giorno avrebbe contato 14 allenatori, 300 allievi e 28 società consociate, l’allenava Arrigo Sacchi da cinque anni. Lugaresi andò a vedere i suoi allenamenti. Faceva ascoltare musica ai ragazzi sdraiati sul prato, poi li torchiava in venti metri, aggressivi e intensi, l’inizio di una filosofia. Lugaresi si spaventò e, quando Sacchi gli chiese di affidargli la prima squadra, gli disse di no. «Non sei ancora pronto». Sacchi se la filò, finì al Parma e andò incontro alla sua fortuna col Milan.

Lugaresi scelse Giovanbattista Fabbri, ma alla quindicesima giornata lo sostituì con Lucchi. L’anno dopo prese Bolchi e tenne Lucchi direttore tecnico. Retrocesse. Disse: «La Serie A è come una torta che si mangia di gusto, ma sai in partenza che prima o poi finisce».

Con il Conte Alberto Rognoni, fondatore del Cesena

Quando doveva scegliere l’allenatore, lo invitava a pranzo convocando Lucchi e Cera, i direttori tecnici. Se ne stava in silenzio lasciando che a parlare con l’esaminando fossero i due collaboratori. Lui ascoltava e poi decideva. Prese allenatori che dal Cesena volarono verso lo scudetto: Bagnoli, Bigon, Lippi.

Intanto smistava 240mila quintali di frutta e verdura all’anno in tutta Europa. Tenne Bigon due anni quando riconquistò la Serie A nell’87. Il Cesena, in A, rimase quattro stagioni. Alla terza, Lugaresi ingaggiò Lippi che allenava la Carrarese in Serie C e che, con la squadra romagnola, fece il balzo in Serie A.

Lugaresi avrebbe voluto Capello, bloccato però da Berlusconi negli uffici Fininvest dopo avere affidato il Milan a Sacchi. E Nevio Scala gli disse di no preferendo il Parma dopo due brillanti campionati a Reggio Calabria. Fu Lucchi a consigliargli Lippi. Il sodalizio durò un anno e mezzo in Serie A. Alla squadra Lippi non piaceva. «Parla troppo» dissero i giocatori. «Ci stordisce di teoria e schemi». Fu quasi un ammutinamento. Il vecchio Piraccini, centrocampista generoso, cesenate di nascita che nel Cesena ci stava da una vita, salvo una breve parentesi al Bari e all’Inter, andò da Lugaresi e gli disse: «Non lo sopportiamo più». Al secondo anni, Lippi andò via dopo 17 partite. Il Cesena ripiombò in Serie B.

Marchioro, Adriano Buffoni, Cavasin, Nicoletti, Perotti, Salvemini sono stati gli altri allenatori di Lugaresi. Nel 1993, a metà stagione, chiamò il suo amico Azeglio Vicini a salvargli la squadra dalla Serie C. Si incontrarono a Cesenatico. Vicini gli disse: «Vengo per quattro mesi e basta, altrimenti roviniamo un’amicizia». Nel 1995 prese Tardelli, segnalatogli da Vicini. Ma al secondo campionato, in B, lo esonerò: Tardelli era contestato dai tifosi perché alla sera se ne andava in giro coi giocatori.

San Benedetto del Tronto 8 luglio 1987. Il Cesena ha battuto il Lecce (2-1) nello spareggio per la promozione in serie A. Nello spogliatoio dello stadio Riviera delle Palme il presidente Edmeo Lugaresi è commosso. Renato Lucchi abbraccia mister Bruno Bolchi.

Attento al bilancio, Lugaresi non chiese mai sacrifici ai soci del Cesena. Diceva: «Il nostro obiettivo è vendere ogni anno un buon giocatore e col ricavato comprarne tre discreti». Così poté sostenere sei stagioni in Serie A e tredici in Serie B. Nel 1998 vendette l’azienda ai dipendenti per dedicarsi completamente al Cesena. Col foggiano Rizzitelli, uno dei prodotti del vivaio, fece un colpo eccellente cedendolo alla Roma per otto miliardi e mezzo. Lo voleva anche Boniperti che gli chiese uno sconto di due miliardi. Ma Lugaresi lasciò il giocatore a Dino Viola, col quale si era impegnato sulla parola, e Boniperti gli tenne il muso per due anni.

Il riminese Massimo Agostini, soprannominato il Condor, fu al centro di un caso clamoroso: il giocatore firmò per andare al Bologna, ma Lugaresi lo dirottò alla Roma che aveva fatto un’offerta maggiore. Il mancato passaggio al Bologna inaugurò un periodo di aspra rivalità fra tifosi bolognesi e cesenati. Agostini tornò al Cesena dopo due stagioni deludenti nella capitale e, nel 1990, l’abilità di Lucchi e Cera riuscì a piazzarlo al Milan per dieci miliardi.

Cessioni miliardarie al Milan furono anche quelle di Sebastiano Rossi, cesenate, e di Massimo Ambrosini, pesarese. Lugaresi poteva far quadrare i conti del Cesena perché i giocatori cresciuti “in casa” rinsanguavano le casse sociali. Un altro bel colpo Lugaresi lo fece con Dario Hubner che prelevò dal Fano e tenne nel Cesena in Serie B cinque stagioni (74 gol) per poi cederlo al Brescia. Lasciando Cesena, Hubner disse: «Lugaresi mi pagava un terzo di quanto prendono i migliori cannonieri in Serie B, ma mi trattava come un figlio».

Molto stretti erano i rapporti del Cesena col Milan, ma, l’anno in cui Galliani gli promise e poi gli negò Virdis, Lugaresi gli telefonò imbufalito: «Sono un presidente di provincia, non ho i vostri miliardi, ma per me la parola data è sacra e come dignità vi compro tutti».

Era timido e aggressivo. Si prese due anni di squalifica nel 1996. Al termine di Cesena-Lucchese per il gol annullato a Binotto, che sarebbe valso il pareggio, inseguì il guardalinee Stevanato prendendolo per la gola. Disse che le cose erano andate diversamente: «L’ho solo raggiunto e tirato per un braccio per farmi spiegare perché aveva alzato la bandierina costringendo l’arbitro ad annullare il gol».

Dal giorno che apparve emozionato in tv col suo italiano sghembo, e gli incisi che accavallava uscendone con una disinvolta sintassi, fu bersagliato dalla Gialappa’s. Rilasciò frasi memorabili. «Rimbocchiamoci le mani». «Mente sapendo di menta». «Abbiamo messo una checca sulla torta della nostra squadra». Si offese e non volle andare più in tv. Giustificò il suo parlare ruspante e sconnesso dicendo: «Sono andato a lavorare da bambino, non faccio l’avvocato».

Dopo 22 stagioni, nel 2002, lasciò la presidenza a suo figlio Giorgio ritirandosi a fare il presidente onorario fino alla sua scomparsa, avvenuta il 26 settembre 2010: il suo Cesena era appena stato promosso in Serie A dopo più di vent’anni di assenza.