Quando il calcio era italiano

Oggi ce ne sono sempre meno, ma i Presidenti italiani hanno fatto la storia del nostro football. Dalla dinastia Agnelli a Berlusconi. Da Rizzoli a Ferlaino. Dai Moratti a Viola.


Gli Agnelli, dinastia vincente

Il primo fu Edoardo, padre di Gianni e di Umberto, chiamato per acclamazione alla guida della Juventus nel 1923. Amava la bellezza e l’avventura. Il suo motto era: una cosa fatta bene può sempre essere fatta meglio. Portò alla Juve i grandi assi argentini, Orsi, Cesarini, Monti, fu il presidente dei cinque scudetti consecutivi, dal 31 al 35. Il figlio Gianni, che per tutti sarà poi l’Avvocato, salì al soglio bianconero nel secondo dopoguerra e per sette anni fu presidente effettivo, ingaggiando i fuoriclasse danesi, John Hansen e Praest, e il talentuoso argentino Martino. Chiamato alla casa madre, la Fiat, rimase il nume tutelare della Juventus. Il fratello minore Umberto fu a sua volta un giovanissimo e fortunato presidente, alla sua gestione appartiene la coppia Sivori-Charles. Più tardi la dinastia Agnelli trovò il suo ideale braccio secolare in un campione emblematico della Juve, Giampiero Boniperti, fuoriclasse in campo e altrettanto, se non più, dietro la scrivania. L’Avvocato ne seguiva paterno i successi, consentendosi felici e gradite incursioni, come l’ingaggio di Roi Platini. La dinastia continua con Andrea Agnelli che nel maggio 2010 viene eletto presidente della società: sotto il suo mandato la formazione bianconera instaura un vittorioso ciclo, nel corso del quale si aggiudica lo scudetto per nove stagioni consecutive — battendo dopo ottantadue anni la Juve del Quinquennio del nonno Edoardo, e stabilendo un nuovo primato nazionale.


Novo, il papà del grande Torino

La squadra forse più grande, sicuramente più amata, più pianta e più rimpianta del nostro calcio nacque per mano di un dirigente avveduto. Salito al soglio granata nel 1939, Ferruccio Novo costruì pezzo per pezzo il Grande Torino. Il suo primo acquisto fu Ossola, nel 1940, l’anno successivo Menti, Gabetto e Ferraris, nel 1942 il capolavoro, con l’ingaggio della favolosa coppia di mezzeali del Venezia, Loik e Valentino Mazzola. Cinque campionati vinti, dal 1943 al 49, gli ultimi quattro in sequenza. E la straordinaria striscia vincente fu interrotta solo dal destino, che il 4 maggio del 49 incenerì a Superga quella inimitabile schiera di campioni. Novo aveva anche chiesto ai suoi allenatori di rivoluzionarne l’impiego tattico. In un’Italia schierata compatta sul fronte metodista, il Torino applicò il più moderno WM e grazie alle vittorie favorì una progressiva conversione al nuovo modulo. Dopo Superga, Novo tentò invano di ricostruire il mito granata. Non ne aveva più i mezzi, ma soprattutto Io spirito.


Renato Dall’Ara, trent’anni in trincea

Personaggio per tanti versi indimenticabile, titolare di un’aneddotica infinita da lui stesso alimentata (i famosi svarioni linguistici erano in gran parte voluti), Renato Dall’Ara, industriale tessile reggiano cui il calcio piaceva sicuramente meno che le belle donne, mise insieme trent’anni filati di presidenza, partendo dal 1934, quando il partito fascista in pratica Io precettò alla guida del Bologna, sino al 1964, giusto alla vigilia dell’ultimo scudetto. Visse l’epopea dello squadrone che tremare il mondo fa, collezionò campioni indigeni, da Schiavio a Bulgarelli, ed esotici, da Sansone a Fedullo, Andreolo e Puri-celli, i grandi uruguagi, sino al tedesco Haller, il più amato. Cinque titoli italiani, due Coppe dell’Europa Centrale, la Coppa dei Campioni d’anteguerra. Una vita e una morte in trincea. Alla vigilia dello spareggio-scudetto fra Inter e Bologna nel 1964, incontrò nella sede della Lega a Milano il presidente nerazzurro Angelo Moratti per calmierare i premi partita. La discussione fu animata, il cuore già malato non resse. Come si dice in questi casi, i suoi ragazzi vinsero per lui. E Bologna, che poco lo aveva amato, molto lo pianse.


Andrea Rizzoli vittorie e stile Milan

Suo padre Angelo era una gloria di Milano, l’ex martinitt che dal nulla aveva creato un impero, nell’editoria e nel cinema. Andrea viveva nella sua ombra, ma a quarant’anni, nel 1954, uscì alla ribalta comprando il Milan. Come chiese il permesso all’autoritario genitore, Andrea si sentì rispondere: “Fai pure, ma vedi di non mandarmi in rovina”. Così l’oculata amministrazione fu una caratteristica della sua gestione, insieme con un tratto distaccato e signorile, che si estese alla squadra, dando vita allo stile Milan, rimasto per anni proverbiale. Fondamentale fu il connubio con il geniale tecnico Gipo Viani. Campioni epocali, da Schiaffino e Cesare Maldini, i suoi primi acquisti, ad Altafini, Sani, Rivera fecero del Milan una squadra formidabile. Nei nove anni della presidenza Rizzoli, il Milan vinse quattro scudetti e soprattutto, nel 1963 a Wembley, la prima Coppa dei Campioni del calcio italiano.


I Moratti e le grandi Inter

Angelo Moratti era un tipico self-made-man, che si era costruito una fortuna col petrolio e generosamente vi attingeva per la gloria dei colori nerazzurri, cercandone il riscatto cittadino dal predominante Milan di Andrea Rizzoli. Non vinse subito, Angelo, pur investendo tanto e cambiando allenatori a raffica, sin quando, trovato il suo mago, si ripagò in abbondanza. Quando, dopo 13 anni, lasciò la presidenza a Fraizzoli, nel 1968, Angelo Moratti aveva collezionato una messe di trionfi che si sarebbe detta inarrivabile. Trascorsero 27 anni, in cui i dolori soverchiarono ampiamente le gioie per i tifosi della Beneamata, e nel 1995 Massimo Moratti si decise infine a riprendere il discorso del padre. Con straordinarie analogie di percorso. Un inizio pieno di tribolazioni, poi la svolta, e infine il periodo d’oro, con Roberto Mancini e Josè Mourinho che gli consegna la Champions League nel 2011. Lascia nel 2014 dopo 19 anni di presidenza e 16 trofei vinti sotto la sua gestione.


Lauro e Ferlaino, Napoli sogna e vince

Achille Lauro, come Dall’Ara a Bologna, fu precettato dal partito fascista alla guida del Napoli, di cui assunse la presidenza nel 1936. Nel dopoguerra divenne padrone di Napoli, allestendo un impero: la flotta, i giornali, un partito, che lo proiettò all’elezione di sindaco con autentici plebisciti popolari. Il Napoli fu per lui una formidabile fabbrica di consensi. Ripagò la folla adorante con campioni epocali come lo svedese Jeppson, primo calciatore in Italia a ottenere una valutazione oltre i cento milioni di lire (nel 1956!) e Vinicio. Ma i risultati sul campo furono modesti, a fronte di tali investimenti. Per vincere, due scudetti e una Coppa Uefa, il Napoli dovette attendere la gestione, meno spettacolare ma infinitamente più scaltra, di Corrado Feriaino, ingegnere, costruttore edile, pilota automobilistico per diletto. Feriaino, a sorpresa, con un felice colpo di mano, conquistò il Napoli nel 1969 e ne rimase al timone, con alcune interruzioni, per ben trentadue anni. Il periodo d’oro coincise con l’ingaggio, nel 1984, del grande Maradona. Diego fu prima la delizia, poi la croce di Feriaino, che, perduto l’argentino, conobbe l’onta della retrocessione.


Mazza, Rozzi, Anconetani: i maghi della provincia

Accanto ai presidenti metropolitani, vanno ricordati almeno tre grandissimi dirigenti, capaci di fare le fortune (calcistiche) delle loro città, e per i quali l’identificazione con il club fu tale che, declinato il loro impegno, da quelle piazze scomparve anche il calcio di vetrina. Paolo Mazza, detto il rabdomante, per la sua abilità nello scovare talenti in erba, o anche il mago di campagna, contrassegnò il lungo periodo d’oro della Spal, da lui tenuta in Serie A per tredici campionati tra il 1954 e il 1968 con un solo anno fra i cadetti. Fra le sue scoperte, Picchi e Fabio Capello, poi ceduti a peso d’oro agli squadroni per mantenere florido il bilancio. Mazza, tecnico di prim’ordine, diresse anche la Nazionale agli sfortunati Mondiali cileni del 1962. Quello che Mazza fece per Ferrara, Romeo Anconetani e Costantino Rozzi realizzarono rispettivamente per Pisa e Ascoli. Anconetani era un formidabile intenditore di calcio, autoritario, collerico, ma capace di colpi sensazionali. Rozzi divenne famoso per le sue vulcaniche apparizioni in televisione, dove si ergeva a paladino delle piccole società contro lo strapotere delle grandi. In connubio con due eccellenti tecnici, Mazzone, poi Boskov, portò l’Ascoli a piazzamenti irripetibili.


Dino Viola, il nemico della Signora

Nativo di Aulla, a cavallo fra Toscana e Liguria, ingegnere, Dino Viola sale alla presidenza della Roma nel 1979. Sino a quel momento la Roma ha vinto un solo scudetto, negli anni di guerra. Viola, ironico, amante di un linguaggio criptico (non per nulla definito “violese”) lancia subito la sfida alla Juventus, che è nel periodo di maggior potere, tecnico e politico. I suoi duelli dialettici con Boniperti restano memorabili, così come le sottili allusioni alla benevolenza del Palazzo verso il club torinese. Sotto le sue mani nasce una Roma formidabile. La guidano dalla panchina lo svedese Liedholm e in campo il brasiliano Falcão, la illuminano le prodezze di Bruno Conti e i gol di Roberto Pruzzo. Sempre in accanita competizione con la grande rivale bianconera, Viola vince lo scudetto 1983, l’anno seguente è secondo, e arriva in finale nella Coppa dei Campioni, giocata all’olimpico e perduta ai rigori contro il Liverpool. Ancora con uno svedese in panchina, Eriksson, la Roma di Viola sfiora un altro scudetto nell’86: in testa alla penultima giornata, si fa battere in casa dal Lecce, già retrocesso. Viola resta in carica sino alla morte, nel 1991.


Berlusconi, il calcio diventa spettacolo

Quando, nel 1986, Silvio Berlusconi rilevò da Giuseppe Farina un Milan sull’orlo del fallimento, molte delle sue futuribili idee sul calcio parvero ai più pure utopie. Durante i 31 anni sotto la sua proprietà, il suo modello ha fatto scuola e il suo Milan ha collezionato una tale, imponente serie di trofei da farne il presidente più vincente della storia rossonera. Oggi il turn-over è diventato comune, ma quando Berlusconi radunò in squadra tante stelle di prima grandezza, si gridò all’eresia. Innovatore, dopo aver cominciato l’avventura con Liedholm, si dedicò a lanciare allenatori giovani e semi inediti. Dalla prima parentesi con Fabio Capello, al felice sodalizio con Arrigo Sacchi, al ripescaggio di Fabio, che portò in dote quattro scudetti e una Coppa Campioni in cinque anni, alla duratura gestione Ancelotti, in sella dal 2001 al 2009. Fuoriclasse epocali, da Van Basten a Kakà, hanno contrappuntato la presidenza più vulcanica e spettacolare del nostro calcio.