Tra prodezze, polemiche e rigori, i mondiali italiani furono il crepuscolo di un genio del calcio.
Negli anni tra Messico ’86 e Italia ’90, Maradona raggiunse l’apice della sua carriera. Napoli, una città che lo adorava come un dio, diventò il palcoscenico delle sue più grandi imprese. Sotto la sua guida, il club partenopeo sfidò il dominio delle potenze del nord, conquistando due scudetti, una Coppa UEFA e una Coppa Italia.
In quegli anni, non c’erano dubbi: Diego Maradona era il miglior giocatore del pianeta. La sua fama cresceva, così come le aspettative per il Mondiale del 1990, che si sarebbe giocato proprio in Italia.
L’inizio burrascoso
L’Argentina arrivava al torneo in condizioni tutt’altro che ideali. La squadra era decimata dagli infortuni, con giocatori chiave come Valdano, Ruggeri e Burruchaga che lottavano per presentarsi in forma. Lo stesso Maradona soffriva di un infortunio al piede che avrebbe condizionato le sue prestazioni.
Il 8 giugno 1990, allo stadio San Siro di Milano, l’Argentina campione in carica fece il suo debutto contro il Camerun. L’atmosfera era elettrica, ma nessuno avrebbe potuto prevedere lo shock che stava per arrivare.
Fin dai primi minuti, fu chiaro che i Leoni Indomabili non erano venuti per fare da sparring partner. Il loro gioco fisico e aggressivo mise in difficoltà gli argentini. Maradona, nonostante qualche lampo di classe, sembrava frenato dal suo infortunio e dall’attenzione maniacale dei difensori camerunesi.
Il momento chiave arrivò al 67° minuto. François Omam–Biyik si elevò sopra la difesa argentina e colpì di testa. Il tiro, non particolarmente potente, scivolò incredibilmente sotto il corpo del portiere Pumpido. Il Camerun era in vantaggio.
Gli ultimi minuti furono un assalto disperato dell’Argentina. Il momento più controverso arrivò quando Claudio Caniggia, lanciato in contropiede, venne letteralmente placcato da Benjamin Massing con un intervento da rugby. Al fischio finale, il risultato era 1-0 per il Camerun. L’Argentina, campione del mondo in carica, aveva iniziato il suo torneo con una sconfitta clamorosa.
La mano della provvidenza
Cinque giorni dopo, l’Argentina si trovò di fronte all’Unione Sovietica in una partita da dentro o fuori. Un’altra sconfitta avrebbe significato l’eliminazione prematura.
La tensione era palpabile fin dal fischio d’inizio. Al 10° minuto, un altro colpo di sfortuna colpì l’Argentina: il portiere Pumpido si infortunò gravemente in uno scontro con un compagno di squadra. Al suo posto entrò Sergio Goycochea, destinato a diventare uno dei protagonisti inaspettati del torneo.
Il momento che cambiò la partita arrivò nel secondo tempo. Su un corner sovietico, un colpo di testa sembrava destinato a finire in rete. Ma ecco che, come per magia, la palla venne respinta sulla linea. Le repliche lo mostrarono chiaramente: Maradona aveva usato la mano per salvare il risultato.
L’arbitro non vide nulla e il gioco proseguì. Pochi minuti dopo, Pedro Troglio sbloccò il risultato per l’Argentina. Nel finale, Burruchaga raddoppiò, fissando il punteggio sul 2-0.
La “Mano de Dios” aveva quindi colpito ancora, quattro anni dopo il gol contro l’Inghilterra. Maradona aveva salvato l’Argentina dall’eliminazione, ma il dibattito sulla sportività del suo gesto avrebbe infiammato le discussioni per giorni.
Qualificazione sofferta
L’ultima partita del girone contro la Romania era decisiva per il passaggio agli ottavi. L’Argentina aveva bisogno almeno di un pareggio per qualificarsi.
La partita fu tesa e combattuta. Maradona, nonostante fosse chiaramente condizionato dai problemi fisici, riuscì a fornire l’assist per il gol del vantaggio di Pedro Monzón. La Romania, però, non si arrese e pareggiò nella ripresa con Balint.
Il risultato finale di 1-1 fu sufficiente per mandare entrambe le squadre agli ottavi. L’Argentina si qualificò come una delle migliori terze, ma le sue prestazioni fino a quel momento erano state tutt’altro che convincenti.
L’ultima magia
Gli ottavi di finale riservarono all’Argentina un’avversaria temibile: il Brasile. Il 24 giugno 1990, a Torino, andò in scena uno dei capitoli più emozionanti della storica rivalità sudamericana.
Per gran parte della partita, il Brasile dominò. La Seleção creò numerose occasioni, colpendo anche due pali. Goycochea si superò con parate miracolose, tenendo in vita l’Argentina.
Quando ormai sembrava che i verdeoro avessero il controllo totale, accadde l’impensabile. A dieci minuti dalla fine, Maradona ricevette palla a centrocampo. Ciò che seguì fu un lampo del vecchio Diego: dribblò quattro avversari in successione, attirando su di sé l’intera difesa brasiliana. Poi, con un tocco delizioso, servì Caniggia completamente libero davanti al portiere Taffarel.
Caniggia non sbagliò, segnando il gol che valse la vittoria e l’accesso ai quarti di finale. Fu l’ultimo vero momento di magia di Maradona in un Mondiale, un ricordo del suo straordinario talento che stava lentamente svanendo.
La lotteria dei rigori
Nei quarti di finale, l’Argentina affrontò la Jugoslavia in una partita che passerà alla storia come una delle più brutte del torneo. Per 120 minuti, le due squadre si annullarono a vicenda in un gioco privo di emozioni.
L’unico momento degno di nota fu un gol annullato all’Argentina per un presunto fallo di mano di Maradona anche se poi le immagini mostrarono che il pallone aveva in realtà colpito la sua testa.
Si arrivò così ai rigori. Maradona, sorprendentemente, sbagliò il suo tiro. Ma ci pensò Goycochea a emergere come l’eroe inaspettato, parando due penalty e regalando la qualificazione all’Argentina.
Lo spirito di Napoli
La semifinale contro l’Italia a Napoli fu il culmine drammatico del torneo per Maradona. In una città divisa tra l’amore per il suo idolo e il dovere patriottico, Diego giocò d’astuzia le sue carte.
Alla vigilia della partita, lanciò un appello ai napoletani, ricordando loro come il resto d’Italia li considerasse “africani” per 364 giorni all’anno. Le sue parole crearono scompiglio, ma anche un’atmosfera surreale allo stadio San Paolo.
La partita fu tesa e combattuta. L’Italia passò in vantaggio con Schillaci, ma l’Argentina pareggiò nella ripresa con Caniggia su grave errore del nostro Zenga. Si andò di nuovo ai rigori.
Questa volta, Maradona non sbagliò il suo tiro. Goycochea si confermò specialista, parando il rigore decisivo di Donadoni. L’Argentina era in finale, ma a che prezzo per il rapporto tra Diego e l’Italia?
Il tramonto di un’era
La finale contro la Germania, l’8 luglio 1990 allo Stadio Olimpico di Roma, fu l’antitesi di tutto ciò che Maradona rappresentava nel calcio. Una partita brutta, violenta, segnata più dalle espulsioni che dalle giocate di classe.
L’Argentina, priva di giocatori chiave per squalifica, si chiuse in difesa cercando di resistere agli attacchi tedeschi. Maradona, visibilmente esausto e limitato fisicamente, non riuscì a incidere come avrebbe voluto.
A cinque minuti dalla fine, un rigore più che discutibile concesso alla Germania decise la partita. Andreas Brehme non sbagliò, regalando il titolo ai tedeschi.
Al fischio finale, Maradona scoppiò in lacrime. Era la fine di un’era, non solo per lui ma per il calcio stesso. Il suo corpo non rispondeva più ai comandi come un tempo, e il peso delle aspettative era diventato insostenibile.
Oltretutto era evidente che il calcio stava cambiando, diventando più tattico, più fisico, meno incline alle prodezze individuali che avevano reso Diego una leggenda.
Maradona, il più umano degli dei, il più divino degli uomini, dopo essersi ritirato, si ripresentò anche ai Mondiali 1994 per un ultimo, contestatissimo, walzer. Ma questa è un’altra storia di calcio…