Mario e Vittorio Cecchi Gori: le due anime della Fiorentina

I Cecchi Gori, padre e figlio, guidarono la Fiorentina negli anni ’90 con approcci opposti: il primo prudente e saggio, il secondo più istintivo. La morte di Mario nel ’93 segnò l’inizio del declino.

Per molti anni a Firenze, pronunciare “Mario e Vittorio Cecchi Gori” significava evocare un binomio inscindibile, un’unica entità che ha segnato profondamente la storia della Fiorentina. Padre e figlio, uniti dalla stessa passione calcistica e dalla proprietà della Fin.Ma.Vi, hanno rappresentato due facce della stessa medaglia, pur essendo profondamente diversi nel loro approccio alla vita e agli affari.

Mario Cecchi Gori aveva costruito il suo impero dal nulla, mattone dopo mattone. Partendo dalla sua passione per il cinema, aveva creato un colosso della produzione cinematografica italiana, collaborando con i più grandi maestri del cinema italiano come Federico Fellini, Dino Risi e Mario Monicelli. Le sue creature – la Cecchi Gori Group, la Cecchi Gori Tiger, la Cineriz e la Titanus – dominavano il panorama cinematografico nazionale. La collaborazione con Silvio Berlusconi per la creazione della Medusa Film aveva ulteriormente consolidato il suo impero mediatico.

Vittorio, al contrario, incarnava il classico stereotipo del figlio di papà, cresciuto nell’agiatezza e abituato a godere dei frutti del lavoro paterno. La sua giovinezza era stata caratterizzata da una vita mondana, frequentazioni con attrici e un’ostentazione delle ricchezze familiari che contrastava nettamente con la sobrietà del padre.

Questa dicotomia caratteriale si sarebbe riflessa anche nella loro gestione della Fiorentina, creando un’eredità complessa e controversa che ancora oggi divide i tifosi viola.

Due città, due destini

Il contrasto tra Mario e Vittorio Cecchi Gori si manifestava anche nella loro relazione con le città che avevano scelto come proprie. Mario, sebbene nato a Brescia per caso, aveva fatto di Firenze il centro del suo mondo. Qui aveva costruito non solo il suo impero imprenditoriale, ma anche la sua vita personale. Le strade di Firenze erano state testimoni del suo incontro con Valeria, la donna che sarebbe diventata sua moglie e madre di Vittorio. Con lei condivideva la passione per la Fiorentina, frequentando lo stadio e immergendosi completamente nella cultura cittadina.

Vittorio, invece, pur essendo nato a Firenze il 27 aprile 1942, aveva scelto Roma come sua dimora d’elezione. La capitale, con il suo glamour e la sua “dolce vita”, rispecchiava meglio il suo carattere esuberante e la sua propensione per la vita mondana. A Roma aveva conosciuto Rita Rusic, che sarebbe diventata sua moglie, e qui aveva tessuto la sua rete di relazioni nel mondo dello spettacolo.

Questa differenza geografica non era casuale, ma rifletteva profondamente le loro diverse personalità: da una parte la sobrietà fiorentina di Mario, dall’altra il fascino della mondanità romana di Vittorio. Era come se padre e figlio incarnassero due anime dell’Italia: quella operosa e concreta del nord, e quella più teatrale e appariscente del centro. Un dualismo che si sarebbe riflesso anche nel loro modo di gestire la Fiorentina, con conseguenze determinanti per il futuro della squadra.

Il passaggio di proprietà

Il tramonto dell’era Pontello coincise con due eventi traumatici per la Fiorentina: la sconfitta nella finale di Coppa UEFA contro la Juventus e, soprattutto, la dolorosa cessione di Roberto Baggio. Fu proprio in quel maggio 1990 che Mario Cecchi Gori, già colosso della produzione cinematografica italiana, decise di acquisire la società viola. Un passaggio di consegne che avvenne nonostante – o forse proprio per questo – la resistenza di Mario alla cessione di Baggio, che i “poteri forti” del calcio italiano volevano e ottennero di allontanare da Firenze. Era l’inizio di una nuova era, destinata a segnare profondamente la storia della squadra toscana, nel bene e nel male.

L’era d’oro e i primi scricchiolii

Nel 1992, la famiglia Cecchi Gori decise di dare una scossa al calcio italiano con una campagna acquisti faraonica che avrebbe dovuto trasformare la squadra in una seria pretendente al titolo. Accanto a Gabriel Batistuta, che già stava mostrando lampi del suo straordinario talento, arrivarono giocatori di caratura internazionale: Stefan Effenberg, Brian Laudrup, Francesco Baiano e Giancarlo Carnasciali.

La squadra, guidata dall’esperto Gigi Radice, iniziò il campionato in modo straordinario. Il gioco era spettacolare e i risultati arrivavano: la Fiorentina si ritrovò seconda in classifica, alle spalle solo del Milan degli olandesi. Il Franchi era in festa e i tifosi sognavano in grande.

Tuttavia, il 3 gennaio 1993 segnò l’inizio della fine di quel sogno. Una sconfitta casalinga contro l’Atalanta innescò una serie di eventi che avrebbero cambiato il destino della squadra. Vittorio, in disaccordo con il padre, decise di esonerare Radice, scartò l’opzione De Biasi e scelse Agroppi come nuovo allenatore – una decisione che si rivelò fatale, considerando che lo stesso Agroppi non godeva dei favori dei vertici del calcio italiano.

Quella scelta segnò l’inizio di una spirale negativa che avrebbe portato la Fiorentina alla retrocessione, nonostante la squadra avesse mostrato nella prima parte della stagione un potenziale da vertice. Fu il primo segnale che qualcosa, nei meccanismi decisionali della società, non funzionava come avrebbe dovuto.

La svolta tragica

Il 5 novembre 1993 segnò uno spartiacque nella storia della Fiorentina: Mario Cecchi Gori morì improvvisamente per un arresto cardiaco. La sua scomparsa non fu solo un lutto familiare, ma rappresentò un momento di rottura nella gestione della società viola. Secondo molti, Mario non aveva retto all’umiliazione di vedere la “sua” Fiorentina retrocessa in Serie B, un dolore troppo grande per un uomo che aveva sempre sognato in grande per la squadra.

La morte di Mario lasciò un vuoto incolmabile. Non si trattava solo della perdita di un presidente, ma della scomparsa di una figura che aveva saputo gestire la società con equilibrio e saggezza. Mario aveva la capacità di mediare tra le diverse anime della squadra, di prendere decisioni ponderate e di mantenere un rapporto sano con l’ambiente calcistico italiano.

Con la sua scomparsa, le redini della società passarono completamente nelle mani di Vittorio. Se fino a quel momento il figlio aveva dovuto in qualche modo confrontarsi con il padre, ora si trovava libero di gestire la Fiorentina secondo la propria visione. Un cambio di rotta che avrebbe avuto conseguenze profonde sul futuro della società.

La morte di Mario segnò quindi la fine di un’epoca caratterizzata dalla gestione oculata e dalla costruzione paziente di un progetto sportivo, per lasciare spazio a una conduzione più istintiva e meno strutturata, che avrebbe portato a scelte sempre più azzardate negli anni successivi.

L’era Batistuta

Se c’è un nome che ha definito l’epoca dei Cecchi Gori, questo è Gabriel Omar Batistuta. Arrivato nel 1991 quasi come un acquisto di contorno – la vera stella doveva essere Diego Latorre – “Batigol” si trasformò nel simbolo di un’intera era calcistica. La leggenda narra che fu Vittorio a notarlo durante la Coppa America del 1991, dove l’argentino si laureò capocannoniere con 6 reti. Quella criniera bionda e quella forza prorompente colpirono talmente Vittorio che ordinò di acquistarlo insieme a Latorre.

Il rapporto tra Cecchi Gori e Batistuta divenne quasi simbiotico. Vittorio lo considerava come un figlio, coccolandolo e assecondandolo in ogni richiesta. I famosi “ritocchini” – aumenti di stipendio che Vittorio concedeva all’argentino – divennero una consuetudine ad ogni rinnovo di contratto. Il primo arrivò nel 1993, per convincerlo a rimanere in Serie B, poi nel 1995 dopo il titolo di capocannoniere, e ancora nel 1997.

Non mancarono i momenti di tensione, come quando Batistuta minacciò una crisi di nervi alla notizia dell’arrivo di Malesani in panchina, ma il legame resistette a tutto. Insieme conquistarono una Coppa Italia, una Supercoppa e sfiorarono lo scudetto, fermati solo da un ginocchio malconcio e dal carnevale di Edmundo. Lo striscione del maggio 1998 “Batistuta è incedibile. Firmato il presidente” resta come testimonianza di un calcio romantico ormai scomparso.

Il declino e la fine

Gli ultimi anni della gestione Cecchi Gori furono caratterizzati da una serie di scelte sempre più azzardate che portarono al crollo finanziario della società. Nonostante la squadra continuasse a competere ad alti livelli, le fondamenta economiche si stavano sgretolando sotto il peso di investimenti sempre più insostenibili.

Gli acquisti di giocatori come Edmundo, Torricelli, Di Livio, Chiesa e Mijatovic, per quanto tecnicamente validi, rappresentarono un salasso finanziario che l’impero Cecchi Gori, già in difficoltà, non poteva più permettersi. La gestione di Vittorio diventava sempre più erratica, caratterizzata da decisioni impulsive e cambi di rotta improvvisi.

Nel 2001, la Fiorentina guidata da Roberto Mancini riuscì a conquistare la Coppa Italia, in quello che sarebbe stato l’ultimo acuto dell’era Cecchi Gori. Le parole di Vittorio “La Fiorentina? Non la vendo. Piuttosto vi faccio fare la fine del Bologna, la disintegro con le mie mani” risuonarono come un presagio sinistro di quello che sarebbe accaduto di lì a poco.

Dodici mesi dopo quella vittoria, la società sprofondò nel baratro del fallimento. L’ACF Fiorentina dovette ripartire dalla Serie C2, sotto una nuova proprietà e con una nuova denominazione. Fu la fine ingloriosa di un’epoca che aveva visto la squadra viola protagonista del calcio italiano, vittima di una gestione che aveva perso il contatto con la realtà economica e finanziaria del calcio moderno.

Un’eredità controversa

La storia di Cecchi Gori a Firenze continua oggi a dividere l’opinione dei tifosi. C’è chi ricorda con nostalgia i tre trofei conquistati e chi non può perdonare le due retrocessioni e soprattutto il fallimento. La verità probabilmente sta nel mezzo: da una parte ci furono grandi slanci, investimenti importanti e visioni ambiziose, dall’altra errori madornali e quella dose di presunzione che portò all’autodistruzione nel maggio 2002.

Ma ci sono momenti che restano indelebili nella memoria collettiva: il bagno di folla dell’estate ’92 alla presentazione della squadra in piazza Santa Croce, i 30.000 tifosi che attesero allo stadio fino a notte fonda il ritorno della squadra da Bergamo con la Coppa Italia appena conquistata, Vittorio che saliva in balaustra durante le partite per guidare la squadra dalla tribuna, con la madre Valeria che lo teneva per la giacchetta preoccupata per la sua incolumità.

E poi quello striscione che in qualche modo racchiude un’epoca: “Batistuta è incedibile. Firmato il presidente”, datato maggio 1998. Un’immagine che, in tempi di plusvalenze e bandiere ammainate, resta impressa negli occhi del tifoso viola. Il calcio dei Cecchi Gori ha rappresentato un’epoca irripetibile: presidenti viscerali, capaci di grandi slanci e rovinose cadute, che vivevano la squadra come un’estensione della propria vita. Un modo di gestire il calcio che appartiene definitivamente al passato.