La splendida avventura di Messico 70 raccontata da Roberto Rosato: “Ricordo ancora tutto. Sono stati i 40 giorni più belli della mia vita, i più esaltanti. I più lunghi, ma anche i più corti”
La pagina più bella del revival dei campionati del mondo è legata al Messico. La nazionale italiana finì seconda, battuta solo dal favoloso Brasile di Pelé. Vicecampioni del mondo, dopo essere stati due anni prima campioni d’Europa. Il capolavoro di Ferruccio Valcareggi, che pure non potè contare sul migliore Riva: il bomber del Cagliari allora era travagliato da una «love story». Ma il più bravo degli italiani risultò Roberto Rosato, il simpatico «Pirata» (la definizione è di Brera).
«In Messico fui l’unico italiano inserito nella nazionale ideale, costruita interpellando, i giornalisti. Cioè fui giudicato il migliore stopper in assoluto. E per me fu una grossa soddisfazione. Perché in Messico ero andato come terzo stopper. Il Cagliari aveva vinto lo scudetto, e il titolare era Niccolai. Come riserva, Valcareggi aveva scelto Puja del Torino. A chiamarmi, in Nazionale era stato Fabbri, che per prima cosa puntò alla nazionalizzazione della nazionale, ossia eliminò gli oriundi. Su Fabbri ne sono state dette tante, ma nessuno ha detto che è stato il primo a inventare lo stopper elastico. Cominciò con me, approfittando del fatto che, essendo stato mediano laterale, avevo una certa attitudine alla manovra. Nello schema di Fabbri lo stopper doveva iniziare l’azione e ogni tanto sganciarsi all’attacco. Facevo coppia con Salvadore, avevo partecipato anche alla famosa partita con la Corea. Poi c’erano stati tanti esperimenti, da Guarneri a Bercellino, ho finito lasciando il posto a Bellugi e ricordo che proprio a me Bellugi chiedeva consigli, ed io ero ben lieto di darglieli».
– Grande rivelazione in Messico fu anche Cera, che interpretò il ruolo di libero in maniera moderna. Risultò uno degli uomini-chiave.
«Indubbiamente. Il tandem Cera-Niccolai fu varato sia per l’affiatamento sia perché il Cagliari era campione d’Italia. Niccolai vantava una sola presenza (anzi mezza) in nazionale, e Cera due. lo avevo ormai 27 anni, ero considerato un veterano. Però non ero rassegnato a fare la riserva della riserva. Sono un combattente per natura. Mi impegnai a morte negli allenamenti ebbi subito a favore tutta la stampa. Venni promosso vice di Niccolai. Poi nella prima partita contro la Svezia, dopo mezzora si fece male Niccolai, entrai io e tutti scrissero che quell’infortunio fu provvidenziale, perché risultai determinante nella conquista del secondo posto».
– Prima della partenza dall’Italia si era fatto male Anastasi, sostituito da Prati. Poi Valcareggi volle un’altra punta e chiamò anche Boninsegna, e rispedì in patria Lodetti. Si racconta che quando Riva seppe che arrivava Boninsegna lo prese come un affronto personale, si chiuse in camera e non volle vedere nessuno. E’ vero?
«A Cagliari, tra i due qualcosa c’era effettivamente stato. Ma Riva in Messico era nervoso per la sua vicenda sentimentale. Noi, però, lo scoprimmo dopo quando, al rientro in Italia, io leggemmo sui rotocalchi. In Messico ci accorgevamo che era sempre teso, ma non ne capivamo le ragioni. Anche Riva, in Messico, ha contribuito e in maniera notevole alla conquista del secondo posto. Però non era il Riva che eravamo abituati a vedere, cioè il ‘Rombo di tuono’ che risolveva le partite da solo. Allora si disse che dipendeva dall’altura».
– L’inizio, comunque, era stato disastroso. Superaste il turno segnando un solo gol in tre partite (Svezia, Uruguay e Israele). Un regalo del portiere svedese Hellstrom, su tiro di Domenghini.
«Diciamo pure che quel tiro era un bolide. Comunque non stavamo giocando bene. Il morale ci venne a poco a poco, assieme ai risultati. Visto che continuavamo ad andare avanti, trovammo la carica e arrivammo sino alla finalissima. Se sperammo di battere anche il Brasile? Oddio, quando Boninsegna pareggiò il gol iniziale di Pelè un pensierino ce lo facemmo. Loro vennero fuori solo nel secondo tempo. Il gol di Gerson che decise la partita arrivò solo al 66′ e il punteggio venne arrotondato nel finale quando ci eravamo arresi. Non so come sarebbe andata a finire se non avessimo avuto nelle gambe la mezzora dei tempi supplementari contro la Germania. Certo avevamo il vantaggio di giocare tranquilli, perché era già un onore arrivare alla finalissima e quello che veniva era tutto di più. Però forse scendemmo in campo appagati di quel secondo posto, che ritenevamo già un traguardo fantastico».
– Invece, poi, per quel secondo posto a Fiumicino correste il rischio di essere linciati.
«Forse i tifosi si erano illusi, ormai volevano anche il titolo. Certo ci meravigliammo quando all’aeroporto ci misero tutti in una stanza dicendo di non muoverci di lì, non capivamo il motivo di tanta precauzione. Ma non ce l’avevano comunque con noi giocatori, bensì con Mandelli per la sua polemica con Rivera e con Valcareggi sempre per i famosi sei minuti di Rivera contro il Brasile».
– Valcareggi non ha mai voluto spiegare i sei minuti di Rivera: puoi farlo tu?
«Non so cosa possa essere passato nella mente del CT, noi giocatori fummo i primi a stupirci di quei sei minuti e per me resta un mistero ancor adesso. Probabilmente Rivera fu fatto entrare in campo perché Boninsegna non ce la faceva più e aveva chiesto il cambio».
– Però Rivera aveva segnato il gol decisivo contro la Germania, alla fine dei tempi supplementari, in quella che rimane la partita più emozionante della nazionale italiana.
«Involontariamente sono stato io a offrire quelle emozioni agli italiani. Perché quando sono uscito io all’inizio dei tempi supplementari, il mio diretto avversario, cioè il centravanti tedesco Muller segnò due gol (e il primo fu quasi un’autorete di Poletti che mi aveva sostituito). In precedenza, il mio avversario aveva segnato solo contro il Messico. Ma ero scivolato per il terreno molle e prima che Gonzales segnasse c’erano stati altri tre passaggi e quindi la mia responsabilità era relativa. Contro la Germania mi sentivo in gran forma, non davo tregua a Muller. Eravamo sicuri che il golletto di Boninsegna sarebbe bastato. Invece allo scadere del tempo, segnò Schnellinger. Era mio compagno di squadra nel Milan, potete immaginare cosa gli gridai. Ci fece quello scherzo proprio lui che in Italia non segnava mai. lo, cadendo, mi ero fatto una leggera distorsione, non mi fu possibile continuare. Quello che è successo dopo lo sanno tutti, nessuno potrà dimenticare quelle emozioni».
– Stavamo dicendo di Rivera, escluso proprio dopo quel gol-partita. Secondo te, la scelta di Valcareggi dipese da quella polemica con Mandelli? E tra Valcareggi e Mandelli chi comandava esattamente?
«Penso che Mandelli e Valcareggi si consultassero prima di decidere la formazione e a mio avviso un certo scambio di idee è utile, si possono fare certe verifiche, lo sono stato definito il gemello di Rivera, perché siamo nati lo stesso giorno dello stesso anno. Gli sono amico, l’ho sempre ammirato, anche in Messico dividevo la camera con lui. Ti posso assicurare che Gianni non merita la fama di menefreghista che qualcuno gli ha fatto. Rivera è un ragazzo serio ed era molto attaccato alla Nazionale. Fece quella sparata contro Walter Mandelli appunto perché ci teneva a giocare, non riteneva giusto di dover star fuori. Contro la Germania c’era stata la solita staffetta con Mazzola; Rivera era entrato dopo il primo tempo. Avendo disputato anche i supplementari, forse i tecnici lo ritenevano stanco, o forse Valcareggi volle confermare la squadra che era scesa in campo inizialmente contro la Germania e che prevedeva appunto Mazzola, non so; so però che Gianni soffriva a star fuori, avrebbe voluto giocare sempre; so che in Italia quelle polemiche del Messico fecero scalpore, però noi, laggiù, quasi non ce ne accorgemmo; sicuramente non influirono sulla squadra. Eravamo un blocco amalgamato, unito. La fortuna fu quella di essere tutti su un alto standard di rendimento, come media l’80%. Poi eravamo affiatati anche sul campo, ci intendevamo ad occhi chiusi. E man mano che arrivavano i risultati e passavamo i turni, acquistavamo anche sicurezza, diciamo pure una certa spavalderia al punto di sognare il titolo mondiale».
– E’ vero che contro il Messico vi rifiutaste di giocare a Città del Messico, perché ormai eravate abituati all’altura e non volevate scendere a… 2500 metri?
«Il professor Vecchiet e il dottor Fini ci davano dosi particolari di ferro per rifornire il sangue di ossigeno, non avevamo problemi di altura. Ma per eliminare il Messico preferimmo i 2800 metri di Toluca perché nella capitale i messicani, data la capienza dello stadio, avrebbero potuto contare su un numero ben maggiore di tifosi, e il pubblico ci spaventava. Non è mai agevole eliminare la squadra di casa, anche se sapevamo di essere nettamente superiori al Messico».
– Cosa ricordi in modo particolare di quell’avventura in Messico?
«Ricordo ancora tutto. Sono stati i 40 giorni più belli della mia vita, i più esaltanti. I più lunghi, ma anche i più corti. Galvanizzati dai risultati, i dirigenti federali ci permettevano sempre più telefonate a casa in franchigia (costavano un occhio della testa) e quindi non ci sembrava nemmeno di essere lontani dalla famiglia. Le gioie dei risultati ci facevano affrontare con letizia qualsiasi sacrificio. Non c’erano clan, eravamo veramente uniti, quegli episodi polemici rimasero isolati. Ricordo poi l’arrivo a Fiumicino perché rimasi vittima di uno scherzo della TV. La FIGC aveva fatto venire le nostre famiglie all’aeroporto: quando vidi mia moglie Anna, lassù in alto, cominciai a mandarle i bacini. Poi, mentre i miei compagni si avviavano da una parte, io corsi dall’altra per raggiungere la dolce metà. Nel monitor avevo visto che la telecamera inquadrava il gruppo, non mi ero però accorto che qua ce n’era un’altra e quella, maligna, si divertì a riprendere le mie effusioni sentimentali. Così l’indomani, tutti a prendermi in giro. Ma io sono sempre innamorato di mia moglie, e sono lieto di dimostrarlo a tutti».
– E’ vero che a casa tua tra i mille trofei, c’è anche la maglia di Pelé?
«E’ vero, ed è stata la mia conquista più difficile. Eravamo già d’accordo di scambiarci le maglie, ma finita la partita ci fu la solita invasione di campo, e tutti volevano strappare le maglie ai giocatori, figurati quella di Pelè. lo, nella partita contro il Brasile, avevo marcato Tostao, però ci tenevo ad avere la maglia del più bravo. Ricordo che con l’aiuto del terzino Carlos Alberto riuscii a sfilargliela, ma mi ritrovai addosso una turba di invasati. Eravamo in cinque a contenderci quella maglia. Alla fine sfoderando la mia grinta da stopper ne avevo eliminati quattro, eravamo rimasti in due e la maglia correva il rischio di finire a pezzettini, perché nessuno dei due mollava. Per fortuna arrivò un poliziotto, vide che io ero un giocatore e costrinse l’altro a mollare la preda. Ho poi letto che al Museo di Londra la maglia di Pelè è stata assicurata per 18 milioni e mi convinsi di aver fatto un affare. Temendo che potessero fregarmela, non l’avevo mollata nemmeno negli spogliatoi. Me l’ero infilata sotto la tuta, ero andato alla premiazione con il prezioso trofeo nascosto sotto il petto. Ripeto: sono stati i quaranta giorni più corti della mia vita, volati via in un momento. Quando ho lasciato il Milan, ho dovuto lasciare anche la Nazionale. Valcareggi aveva detto a Silvestri che mi teneva sempre in considerazione, ma non si è più ricordato di me. Ormai i ‘messicani’ erano passati di moda…».