Un pezzo di storia del calcio, una parte di tutti noi che amiamo lo sport. Il suo grido «Campioni del mondo», urlato tre volte come a convincersi e a convincerci che era tutto vero, fa parte del nostro cammino, della nostra storia, della nostra vita.
La sua era una voce educata, non invadente, quasi distaccata che d’incanto si è trasformata in una traccia, è entrata in film e romanzi, ha saputo dare il timbro a un evento, alla rappresentazione di quell’ evento. Quando sentiamo urlare «gol» per quel piatto di destro di Rivera o ripetere il triplice grido «campioni del mondo!» un mondo si spalanca davanti ai nostri occhi.
E dire che Martellini cominciò a fare il giornalista per caso. Figlio dell’autista del principe Barberini, amava viaggiare e voleva fare il diplomatico. I suoi genitori lo volevano laureato in Agraria, ma lui si laureò in Scienze Politiche. Poi abbandonò l’idea della carriera diplomatica, conosceva cinque lingue, voleva fare l’annunciatore e si propose alla tv. «Perché non fai il giornalista?» gli chiesero un giorno. E lui a Natale si fiondò dai nostri prigionieri sul Canale di Suez: raccolse la loro storia, la raccontò e capi che era quella la sua strada. E quel suo modo di andare oltre le apparenze e di approfondire la realtà con rispetto lo ha trasferito nello sport.
Lo sport, il suo grande amore. Tutto nacque da una buona pagella che gli consentì di andare in viaggio premio all’Olimpiade di Berlino nel ’36. «In treno, terza classe, panino, Jesse Owens… fu un’ esperienza meravigliosa» confidò. E una volta alla Rai quell’amore tornò fuori rigoglioso come tutte le passioni vere. Il giovane Martellini alternava politica estera e cronaca allo sport. La sua prima radiocronaca di calcio fu nel ’46 (Bari-Napoli), la sua prima telecronaca nel ’58 a Londra (Inghilterra-Urss), successivamente commentò i funerali di Luigi Einaudi e di Giovanni XXIII.
«Un giorno, Vittorio Veltroni, padre di Walter e capo dei servizi giornalistici alla Rai, mi prese in disparte e mi disse “Se continui a raccontare lo sport e poi la benedizione del Papa in Piazza San Pietro, la gente s’immagina il Papa con il pallone sottobraccio che esce dal sottopassaggio. Ti devi decidere: o la cronaca o lo sport”. Scelsi lo sport e non mi sono mai pentito».
Ha raccontato undici Mondiali, tre Olimpiadi, diciotto Giri d’Italia e dodici Tour de France, con la sua voce calda e rassicurante, con garbo e sensibilità, con il gusto per l’essenziale. Indimenticabile anche Italia-Germania 4-3 del 1970, il Mondiale in cui Martellini subentrò a Nicolò Carosio.Anche all’apice della sua carriera Nando non assunse mai i toni del professore, era la sua indole, che nasceva da una profonda curiosità per gli altri e da un grande rispetto per il mestiere di giornalista. Capire e raccontare, come quella volta sul Canale di Suez. A volte, il giorno prima di una partita andava sul campo di allenamento con l’album delle figurine per conoscere meglio la fisionomia dei calciatori. Quando non era sicuro della pronuncia straniera andava a chiedere lo spelling al collega telecronista. Insegnava ai più giovani i trucchetti della diretta e ricordava sempre: «Ricordatevi, il pallino ce l’ha sempre chi fa le domande!».
Legatissimo alla sua famiglia, ricordava la pazienza di sua moglie Gianna: «Mi ha sempre detto: “Fai quello che ti piace”. Erano tristi le partenze, divertenti i ritorni. Organizzava sempre feste con i bambini che esibivano cartelli del tipo: “Evviva, è arrivato papà”». E il pallino l’ha passato proprio ai figli Simonetta (alla Rai di Bologna) e Massimo. Oltre che per le telecronache memorabili, epiche anche alcune sue divertenti gaffes, come quando per quasi dieci minuti chiamò Jacobelli il centravanti della nazionale Altobelli.Martellini riteneva suo successore Bruno Pizzul: «Un gentiluomo, fa parte di una razza in via d’ estinzione. Da lodare anche Bruno Longhi per la rotondità della telecronaca: non usa mai toni drammatici» anche se era contrario all’uso della telecronaca a due.
Impossibile infine non rammentare l’urlo commosso «campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo», che l’11 luglio 1982 rimbalzò nelle nostre case.
«Un’ emozione unica. Io però non partecipai alla festa di Madrid né al tresette con il presidente Pertini nel viaggio di ritorno. Il 12 luglio era l’anniversario di matrimonio, feci una sorpresa a mia moglie piombando a casa alle tre di notte. Gli anni filmano tanti momenti, ma poi affiorano quelli più importanti».
Un ricordo di Carlo Grandini – Corriere della Sera del 6 maggio 2004
Gridò tre volte: «Campioni del mondo». E poi si scusò
Una mattina di quasi trent’anni fa ci trovavamo a New York dove, in serata, la nazionale italiana di calcio avrebbe giocato una partita. Avevamo pensato, con alcuni colleghi, di fare in mattinata un giro in battello intorno a Manhattan, ma al molo d’ imbarco si incontrarono soltanto chi scrive e Nando Martellini. A un tratto si profilò la statua della Libertà. «Vedi – disse Nando -, tutto il mondo vive di strumenti e di simboli. Noi due, per esempio: io reggo un microfono e tu una macchina da scrivere. Il problema è questo: fino a che punto sappiamo farne un uso corretto e persuasivo? Credo che non avremo mai il polso completo del pubblico che cerchiamo di servire e d’ informare. Ci sarà sempre chi ti apprezza e chi ti critica. È un gioco di equilibri e di squilibri che dobbiamo accettare. E che però, almeno a me, continua a procurare una cert’ ansia e nuovi scrupoli».
Quell’uomo, che ora ci ha lasciato, era per noi Nandone: una torre di elegante struttura che poggiava sul 46 dei piedi e che, nonostante fosse di ceppo romano, ben poco, forse quasi nulla, mutuava di talune allegre burbanze capitoline. Del maestro Nicolò Carosio non aveva la voce, unica e irripetibile, né il simpatico caratteraccio. E di quello che sarebbe stato il suo successore, Bruno Pizzul, non possedeva le accelerazioni emotive. Nandone, colto e poliglotta, rappresentava, per educazione e istinto, il raro valore della «mezza attendibile misura». Sarebbe potuto essere radiocronista e poi un telecronista inglese di vecchia scuola, nemico delle risse dialettiche e delle caciare che oggi prosperano sulle diverse trincee dell’ agonismo. L’ enfasi non entrava nelle categorie dei suoi modi di esporre, di raccontare, di commentare.
La volta in cui, alla conclusione della finale mondiale di Madrid vinta dall’ Italia contro la Germania, esclamò «campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo!» cedette a un impulso assolutamente insolito. E dopo, quasi se ne volesse scusare, spiegò un poco imbarazzato che si era tenuto in gola quel grido gioioso da dodici anni, cioè dai giorni di un mondiale messicano perso sull’ ultimo rettilineo. In tanti decenni di radiotelecronache, tra olimpiadi, giri ciclistici, calcio e quant’ altro anche di non sportivo pure lui ha sbagliato. Accadde, per fare un caso, quando trasformò Altobelli in Jacobelli. E lì si rifugiò in una dignità professionale ch’era tutta sua. Dichiarò che sperava soltanto «di essere perdonato».
Ma di errori ne ha commessi pochi, perché sapeva gestire un’ attenzione controllata e preparata ai protagonisti e agli sviluppi dell’ avvenimento. I suoi toni erano più morbidi che bronzei. Gli apparteneva lo stile di un nobile della comunicazione i cui lati sonori riusciva ad amministrare non per drogare le platee ma semplicemente per accompagnarle e per aggiornarle nella lettura del rotolante copione di un evento. Un modello di moderazione televisiva illuminata, così lontana dai ricorrenti frastuoni d’attualità.