Un uomo di grande cultura, cosmopolita, contagiato da una passione che lo accompagna per tutta la vita riservandogli innumerevoli successi, ma senza risparmiargli momenti drammatici: oltre la cronaca sportiva, il racconto degli anni d’oro del calcio è un poema epico fatto di sfide leggendarie, trionfi e tragedie, grandi campioni che somigliano ad eroi.
L’ALBA DEL CALCIO A TORINO
Pozzo è un ferreo, genuino piemontese nato a Torino il 2 marzo 1886, la sua famiglia è originaria di un piccolo centro della provincia di Biella: l’etica del lavoro e della disciplina fa parte del suo corredo genetico, tanto da spronarlo ad intraprendere numerosi soggiorni all’estero per lavorare e consolidare i suoi studi in lingue; inoltre, un attaccamento fuori del comune agli emblemi nazionali, quasi un retaggio risorgimentale, ne fa un fervente patriota.
Negli stessi anni, gli ultimi del diciannovesimo secolo, si assiste ad una vera e propria esplosione del fenomeno sportivo (anche grazie all’opera del barone de Coubertin, che riesce tra mille difficoltà ad organizzare le prime Olimpiadi moderne nel 1896), ma il football inventato – o meglio, regolamentato – dai facoltosi studenti delle Università inglesi è già diventato un gioco che intrattiene le classi lavoratrici, e che comincia a diffondersi in tutto il mondo grazie a immigrati ed emigranti.
Anche in Italia dunque fioriscono, con i primi esempi proprio a Torino, associazioni sportive che si interessano di atletica e della nuova, curiosa disciplina importata dall’Inghilterra: nel 1893 viene fondata la prima squadra di calcio italiana, il Genoa Cricket and Athletic Club, alla quale seguono in breve tempo Udinese (1896), Juventus (1897), Milan (1899), Pro Vercelli (1892, ma solo dal 1900 dedicata al calcio); progressivamente sorgono società calcistiche in ogni città del Nord fino a costellare poi tutta la penisola.
Nel 1898 nasce la Federazione Italiana Football (FIF, destinata a cambiare dopo nove anni la propria denominazione in Federazione Italiana Giuoco Calcio), che istituisce il primo campionato nazionale.
Quando Vittorio Pozzo ritorna in Italia ventenne per terminare gli studi, dopo gli anni trascorsi in Francia, Inghilterra e Svizzera, è un profondo conoscitore del calcio: ha avuto la possibilità di sviluppare una dettagliata competenza tecnica grazie agli insegnamenti assimilati dagli inglesi (veri maestri della disciplina, i primi ad elaborare moduli tattici e a fare del calcio un’attività professionistica), ed ha militato per un’intera stagione nelle fila dei Grasshoppers di Zurigo. Aderisce quindi con entusiasmo alla fondazione del Torino Football Club, la squadra degli juventini “dissociati”, tra cui lo stesso presidente Alfredo Dick, alla quale resterà legato per tutta la vita.
E’ il 1906, e per gli italiani il calcio ha ancora un sapore romantico, artigianale ma forse troppo disorganizzato: l’esperienza di Pozzo può rivelarsi determinante in una compagine giovane ed esordiente come il Torino. Dopo cinque anni di attività agonistica, per la verità non particolarmente brillante, che affianca come un diletto al parallelo lavoro di responsabile dell’ufficio propaganda presso la Pirelli, gli viene infatti affidata la direzione tecnica della squadra: un ruolo che manterrà per un decennio, pur senza scudetti, ma coronato da una spettacolare tournée in Sudamerica.
L’amore di Pozzo per il pallone è così grande che nel 1912, quando gli viene proposta la guida della nazionale inviata alle Olimpiadi di Stoccolma, abbandona addirittura il suo incarico da dirigente alla Pirelli. La divisa ufficiale della squadra è nel frattempo divenuta azzurra, in omaggio alla casa reale, e lo stemma sabaudo sembra un richiamo irresistibile per Pozzo. Come commissario unico della nazionale ha la sola pretesa di non ricevere alcun compenso, ma la squadra viene eliminata al primo turno e torna ad essere affidata ad un comitato tecnico eterogeneo.
GLI ANNI PIU’ DIFFICILI
Con il Primo conflitto mondiale, le competizioni calcistiche sono interrotte per tre anni, dal 1916 al 1919, ma fin dallo scoppio della guerra il mondo del pallone è costretto ad offrire un oneroso tributo: sono numerosi gli addetti del settore, compresi giocatori ed allenatori, chiamati al fronte ed oltre mille di essi sono destinati a perdere la vita in trincea.
Anche Vittorio Pozzo deve imbracciare le armi e viene arruolato come tenente negli Alpini: questa esperienza, se da un lato rafforza in lui il sentimento patriottico e la morale austera del sacrificio, dall’altro lo abitua ad uno stretto e solidale contatto con i soldati, i suoi “uomini sul campo”.
A guerra conclusa, l’assetto del calcio italiano si avvia ad una ristrutturazione caratterizzata anche da episodi di discordia (come la scissione della Confederazione Calcistica Italiana dalla FIGC nel 1922, rientrata l’anno successivo), ma Pozzo rimane un punto fermo e, dopo un breve incarico amministrativo e di mediazione tra le società, assume nuovamente la gestione della nazionale per le Olimpiadi di Parigi del 1924: la spedizione è meno sfortunata rispetto a Stoccolma perché termina ai quarti di finale, ma l’allenatore rassegna ugualmente le dimissioni.
Ritiratosi al vecchio lavoro in Pirelli, Pozzo perde dopo breve tempo la moglie ammalata e decide di trasferirsi a Milano, dove coltiva il suo interesse per il calcio soltanto attraverso le pagine de “La Stampa”, il giornale con cui non ha mai smesso di collaborare.
IL GRANDE CICLO DI SUCCESSI
La squadra nazionale comincia senza Pozzo ad ottenere i primi riconoscimenti, e conquista nel 1928 un bronzo alle Olimpiadi di Amsterdam; il regime fascista, che intende cavalcare le vittorie sportive a fini propagandistici, ha intuito le enormi potenzialità delle competizioni agonistiche non solo come veicolo di prestigio internazionale, ma anche come fattore aggregativo e formativo funzionale all’inquadramento militaresco delle masse.
Si decide di investire nella costruzione di grandi impianti nelle principali città e nella promozione delle associazioni, segnali inequivocabili di un processo di maturazione per il calcio italiano che, sebbene motivato e sostenuto da scopi politici, prepara il terreno ad una crescita della stessa squadra nazionale, pronta finalmente a rendersi protagonista di una lunga stagione di trionfi.
Nel 1929 il gerarca Leandro Arpinati, già vice segretario del PNF e podestà di Bologna, divenuto sottosegretario agli Interni conservando la presidenza della federcalcio, richiama Pozzo alla nazionale per dare inizio ad un nuovo corso che realizzi le ambiziose prospettive del regime. Le ingerenze del partito non intimoriscono l’allenatore, che persiste nel rifiutare compensi al fine di assicurarsi l’autonomia necessaria a gestire il suo gruppo di giocatori: introduce per la prima volta l’abitudine del ritiro in preparazione degli incontri, e come in una caserma organizza gli orari, i pasti, la vita quotidiana degli atleti.
Il rigore imposto da Pozzo negli allenamenti si traduce anche nella disposizione tattica sul campo: l’esaltazione della forza collettiva della squadra richiede un’applicazione inflessibile degli schemi, ed ogni giocatore deve attenersi alla posizione assegnata. Con Pozzo, e parallelamente anche per merito del suo rivale austriaco Hugo Meisl, nasce così il “metodo”, lo schieramento a “WW” che si pone come una solida alternativa alla “piramide rovesciata di Cambridge” e al “sistema WM” sviluppati dal calcio inglese. Il “metodo” prevede l’arretramento dei difensori laterali e delle mezzale, e lo spostamento del difensore centrale a sostegno del centrocampo per farne un centromediano: la disposizione si rivela particolarmente adatta allo stile di gioco continentale, più protetto e votato al contrattacco anche se forse meno elegante rispetto alla tradizione britannica, ed inizia a dare i suoi frutti.
L’Italia di Pozzo non prende parte ai mondiali organizzati nel 1930 in Uruguay, ma nello stesso anno si aggiudica la prestigiosa Coppa Internazionale, un torneo riservato alle maggiori squadre europee, sconfiggendo l’Ungheria di Sarosi e la temibile Austria di Meisl, capitanata dal grande Matthias Sindelar e soprannominata “Wunderteam”. La più importante affermazione è attesa però per il mondiale del 1934, il campionato ospitato in Italia e grandiosamente allestito come una solenne celebrazione del regime. Non partecipano né i campioni uscenti dell’Uruguay, mal disposti ad una trasferta onerosa, né la micidiale squadra inglese, che si considera troppo forte per misurarsi con le scuole degli altri Paesi; pur con qualche polemica dovuta agli arbitraggi l’Italia si guadagna la finale: il 10 giugno 1934, allo stadio del PNF di Roma (l’odierno Flaminio), gli azzurri sconfiggono la Cecoslovacchia per 2 a 1 e conquistano per la prima volta la tanto agognata Coppa Rimet.
La presenza di campioni come Giuseppe Meazza, Angelo Schiavio, Giovanni Ferrari, Raimundo Orsi, e l’indiscusso carisma di Pozzo garantiscono che la vittoria non resti un episodio isolato ma sia la consacrazione di un ciclo appena inaugurato e destinato a raccogliere successi per quasi un decennio. Anche una sconfitta, come il 3 a 2 maturato nello stadio di Highbury contro gli inglesi il 14 novembre 1934, passa alla storia come una prova di formidabile coraggio e determinazione agonistica; dopo aver riconquistato nel 1935 la Coppa Internazionale, detenuta dagli austriaci dal 1932, l’Italia si presenta alle Olimpiadi di Berlino del 1936 con una formazione di giovani studenti non professionisti e, trascinata dai gol della talentuosa ala destra Annibale Frossi, raggiunge la medaglia d’oro.
All’inaugurazione dei mondiali disputati in Francia nel 1938, la nazionale italiana è dunque la squadra da battere: la difesa granitica, l’irresistibile contropiede e l’apporto delle nuove stelle Piola e Colaussi ne fanno il concorrente più quotato, anche se la lunga ombra del fascismo ha già iniziato ad attirare sui campioni numerose antipatie. Quando gli azzurri scendono in campo con la maglia nera, contro i padroni di casa, sono insistentemente fischiati.
Del resto, tutta la manifestazione risente pesantemente del clima di tensione che si respira alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale: la formidabile Austria di Meisl viene esclusa perché incorporata, dopo l’annessione, alla nazionale tedesca e nemmeno la Spagna, sconvolta dalla guerra civile, partecipa al torneo. Per l’Italia, imbattuta da oltre tre anni, il cammino verso la vittoria del secondo titolo mondiale è una progressione inarrestabile che travolge i padroni di casa francesi, un Brasile quotato ma ancora non pienamente sbocciato, e l’agguerrita Ungheria arrivata in finale: a Parigi, il 19 giugno 1938 gli azzurri si laureano campioni per la seconda volta.
Le straordinarie prestazioni della squadra sembrano non conoscere soste, tanto da costringere anche la superba nazionale inglese al pareggio (2 a 2, il 13 maggio 1939), ma la guerra interrompe bruscamente la speranza di conquistare altre vittorie internazionali: i campionati mondiali del 1942 vengono annullati, e dovranno trascorrere altri otto anni prima che i mondiali di calcio, il più grande spettacolo sportivo, riprendano nuovamente.
UNA PASSIONE PIU FORTE DELLE AVVERSITA’
Rifugiatosi durante la guerra nella casa di famiglia a Ponderano, nel biellese, al termine del conflitto Pozzo ritorna in città e riprende l’incarico di commissario tecnico della nazionale, nella speranza di garantire con la sua straordinaria esperienza ed un inarrivabile palmares altre importanti vittorie.
Lo sport, catalizzando l’euforia collettiva senza distinzioni politiche, può contribuire alla ricostruzione del Paese e grandi campioni come Coppi e Bartali per il ciclismo, o i giocatori del Grande Torino nel calcio, sembrano incoraggiare gli italiani, confermando che non tutto è stato perduto con la guerra.
Pozzo è in effetti legato a doppio filo alla leggendaria formazione torinese: non smette mai di frequentare la società con cui è iniziata la sua avventura, la nazionale del dopoguerra è composta per nove undicesimi da giocatori granata, ma il suo schema del “metodo” è ormai considerato rigido se non addirittura obsoleto, ed inoltre comincia ad essere dipinto come un personaggio troppo compromesso con il fascismo: i suoi trionfi appartengono ad un periodo che si preferisce dimenticare.
Una presunta adesione alla Repubblica di Salò viene smentita dallo stesso archivio del commissario tecnico: fin dal settembre 1943, Pozzo partecipa al Comitato di Liberazione Nazionale, collaborando al rilascio di alcuni prigionieri Alleati. In realtà Vittorio Pozzo è un monarchico, un nazionalista convinto, mai apertamente antifascista (per l’importanza dell’incarico ricoperto, che mai gli sarebbe stato affidato altrimenti), ma non un burattino dei gerarchi: la squadra due volte vittoriosa ai mondiali è una sua creatura e non del regime, è il risultato di un lavoro determinato e paziente sulle qualità umane del gruppo prima ancora che sulla disposizione tattica o le caratteristiche tecniche.
Il 16 maggio 1948 è la data che segna il definitivo tramonto della stagione di Pozzo: a Torino, l’ennesima sfida contro l’Inghilterra è persa con l’umiliante risultato di 0 a 4. Gli inglesi si confermano come un’autentica “bestia nera” (l’Italia otterrà la sua prima vittoria soltanto nel 1973, a quarant’anni dal primo incontro tra le due squadre, espugnando il celebre stadio di Wembley) e dopo la pesante umiliazione casalinga Pozzo si dimette per l’ultima volta.
Lasciata la nazionale, Pozzo non abbandona comunque il calcio, che resta la passione di tutta una vita: come giornalista de “La Stampa”, è un modello di competenza sportiva che diventa un punto di riferimento per tutta la categoria e si guadagna una reputazione di infallibilità presso i lettori; come consigliere federale partecipa alla creazione del Centro Tecnico di Coverciano, oggi divenuto un vero e proprio quartier generale per il calcio italiano, mettendo a disposizione la sua impareggiabile esperienza.
Con coraggio, ma anche in uno struggimento simile a quello di un padre addolorato, è chiamato a riconoscere i corpi dei giocatori e dei dirigenti del Torino periti nell’incidente aereo di Superga il 4 maggio 1949.
Vittorio Pozzo si spegne nel silenzio e nell’isolamento della casa di Ponderano il 21 dicembre 1968, proprio nell’anno in cui l’Italia torna a vincere dopo anni di digiuno, conquistando il campionato europeo. Desta particolare rimpianto l’aver perso, in occasione dei campionati mondiali del 1990, l’opportunità di intitolare il nuovo stadio torinese a Vittorio Pozzo, preferendo invece l’insipida denominazione di “Delle Alpi”.
La sua lapide al cimitero di Ponderano recita: “Vive nel futuro. Dove l’azzurro delle maglie diventa l’azzurro dei cieli”. Eppure, dopo tanti anni e nuove vittorie, l’Italia sembra essersi dimenticata del suo più grande allenatore, l’uomo che per primo seppe trasformare una disciplina sportiva immatura in una favola emozionante: sarebbe ormai giunto il tempo di restituire alla favola un degno lieto fine.