Quando la Primavera di Praga sconvolse le Coppe Europee

Nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, una marea di soldati e mezzi corazzati – 200.000 uomini e 2.000 carri armati – si riversò dalla Unione Sovietica, dalla Bulgaria, dalla Polonia, dalla Germania dell’Est e dall’Ungheria sulla Cecoslovacchia. Era l’inizio dell’occupazione che avrebbe soffocato la “Primavera di Praga” e le sue aspirazioni di libertà politica. Il mondo intero condannò l’aggressione orchestrata da Mosca.

L’invasione della Cecoslovacchia ebbe delle ripercussioni anche sul panorama calcistico europeo, creando tensioni e divisioni all’interno della UEFA e delle competizioni per club. La gestione confusa e imbarazzante della situazione avrebbe opposto l’occidente all’oriente e avrebbe aperto un nuovo e indesiderato capitolo nello scontro sportivo della Guerra Fredda.

I protagonisti involontari di questa vicenda furono i calciatori e i dirigenti del Rapid Vienna, il club austriaco che si trovava a Praga per disputare una partita di Coppa Intertoto contro il Dukla al momento dell’invasione. Il Rapid si ritrovò bloccato in città, senza sapere come fare per rientrare in patria. Per poter usare le strade principali, ormai occupate dai carri armati, serviva un lasciapassare speciale che le forze sovietiche non erano disposte a concedere. Solo dopo molte insistenze i rappresentanti del club furono ricevuti da un funzionario dell’ambasciata sovietica che li autorizzò a partire, ma non senza prima averli rimproverati per il loro “stile di vita capitalista e decadente”. Il Rapid Vienna protestò fermamente con l’UEFA e la federazione austriaca come segno di dissenso cancellò subito due partite previste contro l’Ungheria.

La situazione per molti presidenti e dirigenti dei club occidentali era tesa e incerta. La stagione europea 1968/69 stava per cominciare e l’esperienza negativa vissuta dal Rapid preoccupava parecchio. Il sorteggio delle coppe aveva accoppiato tre club con avversari dell’est: il Celtic doveva affrontare i magiari del Ferencváros, il Milan i bulgari del Levski Sofia e lo Zurigo i tedeschi orientali del Carl Zeiss Jena. Ma dopo l’invasione, quegli incontri avevano assunto un significato diverso.

Il più deciso a protestare contro la situazione fu il presidente del Celtic Bob Kelly. Era sorprendente, perché Kelly non era certo abituato a prendere posizioni di principio, ma questa volta lo fece. Mandò un telegramma alla UEFA in cui chiedeva di sospendere i rapporti sportivi con le nazioni che avevano partecipato all’invasione della Cecoslovacchia; dal suo punto di vista, non tutto poteva essere ignorato in nome dello sport.

Davanti al silenzio dell’UEFA, i club coinvolti presero quindi a parlare tra loro e Celtic e Milan decisero di rinunciare ai loro impegni, temendo che la sicurezza delle loro squadre fosse a rischio nelle trasferte oltre cortina. La loro proposta era in pratica una riforma segregazionista che avrebbe separato i club dell’Europa occidentale da quelli dell’Europa orientale, o perlomeno da quelli dei cinque paesi che avevano invaso. Il piano ricevette l’appoggio anche di Svezia e Lussemburgo.

Ma c’era un problema di fondo: la proposta di Milan e Celtic andava contro uno dei capisaldi dei regolamenti UEFA, l’articolo 2, comma 3, che dice chiaramente: “nessun paese membro può essere discriminato per motivi politici”. Non erano certo mancati in precedenza casi di club che si erano sottratti a sfidare avversari per ragioni politiche, come quando le tensioni tra Grecia e Turchia spinsero l’Olympiakos a rinunciare a un incontro di Coppa dei Campioni del 1958 con il Besiktas. Ma la differenza sostanziale era che la squadra che non voleva giocare si autoescludeva, senza pretendere un nuovo sorteggio o l’eliminazione degli avversari.

Non spettava al Milan o al Celtic e ai suoi alleati assumere una posizione morale sulla competizione e poi scaricare il problema alla UEFA. Se fossero stati dei club minori a farlo, forse non sarebbe successo nulla, ma Celtic e Milan erano dei colossi della Coppa dei Campioni e pesavano parecchio sulla bilancia economica della competizione. Molto più dei club dell’Est: ad esempio l’UEFA aveva sempre opposto rifiuto al fare disputare una finale importante oltre la cortina di ferro in quanto non avrebbe potuto incamerare le entrate in una valuta convertibile.

Davanti all’urgenza della crisi, il Comitato di emergenza UEFA cedette alle pressioni dei club occidentali e stravolse il primo turno della Coppa dei Campioni e della Coppa delle Coppe. Le squadre dell’Unione Sovietica, dell’Ungheria, della Bulgaria, della Germania dell’Est e della Polonia si ritrovarono a dover affrontare solo avversari del blocco orientale o di paesi “neutrali” come la Romania o la Jugoslavia. Per il resto, l’UEFA lasciò tutto in sospeso, sperando che la situazione si normalizzasse prima dell’inizio del secondo turno, il 3 ottobre. Nessun piano B era stato previsto.

Bob Kelly, Presidente del Celtic

La federazione ungherese protestò e chiese un’assemblea generale per discutere la questione, ma senza successo. Il vicepresidente ungherese della UEFA, Sándor Barcs, espresse il suo dissenso affermando che la soluzione era stata dettata solo da motivi economici. Era evidente che l’UEFA aveva subito una sconfitta: consapevole di non poter accontentare entrambi i blocchi, aveva preferito stare dalla parte di chi garantiva maggiori guadagni e audience. Difficilmente qualcuno nel comitato UEFA pensava che questa decisione avrebbe permesso ai tornei di svolgersi senza ulteriori problemi.

Il nuovo sorteggio scatenò le ire del SaintEtienne. I campioni di Francia protestarono con veemenza, fingendo di opporsi alla politicizzazione della massima competizione europea per club, ma in realtà erano mossi solo dal proprio tornaconto. Il primo sorteggio, che li vedeva favoriti contro i campioni polacchi del Ruch Chorzow, ora li opponeva contro il Celtic, campione d’Europa nel 1967…

Un altro ente che non volle seguire la linea della UEFA sulla questione fu il Comitato della Coppa delle Fiere, presieduto da Stanley Rous. Anche esso esaminò la possibilità di cambiare il sorteggio, ma con un voto di sette a due decise di confermare quello originale, creando una situazione assurda. La finale di ritorno della Coppa delle Fiere della stagione precedente non era ancora stata disputata e il Leeds United si apprestava a recarsi in Ungheria per affrontare il Ferencváros l’11 settembre. Si trattava dello stesso Ferencváros, nella stessa città, che era stato considerato troppo rischioso per ospitare il Celtic una settimana prima in Coppa dei Campioni. La posizione della UEFA appariva sempre più confusa e debole.

La UEFA scatenò l’ira delle squadre dell’Est Europa: polacchi, ungheresi e bulgari decisero di abbandonare la Coppa dei Campioni e la Coppa delle Coppe in segno di protesta, accusando l’organismo calcistico europeo di violare i suoi stessi principi. Pochi giorni dopo, anche la Germania dell’Est fece lo stesso e infine l’URSS comunicò il ritiro delle proprie squadre con parole dure e polemiche:

“Di fronte alla ripetuta e palese violazione dell’articolo 2 della costituzione dell’UEFA e della FIFA e alla spiacevole decisione di un nuovo sorteggio delle competizioni calcistiche europee, che non è altro che un tentativo di introdurre le tendenze politiche reazionarie nello sport internazionale, la Federcalcio dell’URSS e il pubblico sportivo dell’Unione Sovietica esprimono la loro forte protesta e dichiarano che le squadre di calcio sovietiche, Dinamo Mosca e Dinamo Kiev, si rifiuteranno di partecipare ai due tornei. La Federcalcio dell’URSS attribuisce ogni responsabilità per le conseguenze della vergognosa decisione della UEFA a quei politici e uomini d’affari sportivi che sostituiscono i principi della cooperazione sportiva con sinistre macchinazioni”.

La contrapposizione tra NATO e Patto di Varsavia all’epoca della Guerra Fredda

La Coppa dei Campioni e la Coppa delle Coppe proseguirono la stagione 1968/69 senza di loro, ma subirono un duro colpo con la perdita di quasi un sesto dei partecipanti originari. L’UEFA fu costretta ad improvvisare e a distribuire dei turni di riposo nel secondo turno per riequilibrare il numero delle squadre rimaste. Al contrario, la Coppa delle Fiere (che, ripetiamo, non era organizzata dall’UEFA) si svolse nell’assoluta normalità, con l’unica assenza dell’Union Luxembourg e dei danesi del KB, che preferirono ritirarsi anziché affrontare rispettivamente i tedeschi orientali del Lokomotive Lispia e gli ungheresi dell’Ujpest.

Nonostante le buone intenzioni e i nobili principi che avevano ispirato la scelta iniziale, la vicenda si era ormai trasformata in una commedia degli equivoci. Era assurdo che il Ferencváros non potesse sfidare il Celtic in un torneo, ma potesse incontrare il Leeds in un altro una settimana dopo. Per quale motivo il Celtic non poteva recarsi in Ungheria per giocare e invece i loro connazionali dell’Aberdeen potevano andare a Sofia senza problemi? Per fortuna non ci furono conseguenze gravi e i cinque paesi dell’Est Europa ritornarono a far parte della famiglia calcistica già l’anno successivo, senza altri boicottaggi o rancori.

Tutta la questione aveva sollevato il delicato problema dell’annoso rapporto tra politica e sport. Se si può accettare che la politica influenzi lo sport, allora deve farlo in modo chiaro, mirato e coerente, non improvvisato e arbitrario come aveva fatto l’UEFA in quel caldo 1968.