SINDELAR Matthias: il Mozart del pallone

Ironia della sorte, l’ultima volta che si allacciò le scarpe bullonate lo fece a Berlino il giorno di Santo Stefano del 1938, il «suo» Austria Vienna sfidava l’Hertha. Segnò anche quella volta Mathias Sindelar, come per far vedere ai tifosi tedeschi cosa avevano perso. Perché Cartavelina (così era soprannominato l’attaccante della Grande Austria) aveva detto no alla nazionale di Hitler. Rifiutando di fare più forte una Germania in espansione totale: militare, economica, ma anche sportiva.

Matthias Sindelar, esile artista del gol di origine ebraica, era nato nella Moravia austriaca ai confini con quella che oggi è la Slovacchia, il 10 febbraio 1903. Cresciuto in famiglia dalle risorse economiche limitate, si trasferisce a Vienna, dove si scopre calciatore per caso. Il papà muore sull’Isonzo combattendo nella Grande Guerra: per la famiglia Sindelar la vita diventa più dura. La mamma mantiene Matthias e tre sorelle aprendo una lavanderia.
Il ragazzo aiuta in casa, ma quando può si butta in strada a calciare palle improbabili fatte di stracci. Matthias cresce e qualcuno pensa di farlo giocare con un pallone di cuoio. Incomincia con l’Hertha, poi passa all’Fk Austria. Grazie ai suoi gol (siamo nel ’27) la squadra vince la Mitropa Cup, potremmo definirla la Champions dei giorni nostri.

Con Sindelar nasce il Wunderteam, una nazionale destinata a segnare un’ epoca: dal maggio 1931 all’ aprile 1933 l’Austria guidata da Cartavelina (che in tedesco suona der Papierene) raccoglie una serie impressionante: 16 partite, 12 vittorie 2 pareggi e solo 2 sconfitte, 63 reti segnate, 20 subite. Il Mondiale in Italia è alle porte e il nazismo è imperante, si aprono i primi lager con gente come Sindelar finita in un angolo e tanti altri ebrei nei campi di sterminio, dopo espropri, umiliazioni, privazioni. In quell’epoca Matthias pensa solo a tenere sotto controllo il ginocchio destro (che portava fasciato) e dribblare gli avversari.

Così lo ha raccontato Vladimiro Caminiti:«Era cresciuto senza scarpe e soffrendo la fame. Kalman Konrad lo aiutò a diventare il finissimo rapsodico del calcio. Uno stelo appeso a due occhi azzurri che saettava come una freccia verso i gol più meravigliosi».
«Sindelar era imprendibile. Monti non ce la faceva proprio con quel diavolo», così lo vedeva Angiolino Schiavio nella semifinale del Mondiale. È il 1934, San Siro, l’Italia scopre il calcio: le tribune traboccano di spettatori, è una partita memorabile che esalta le doti di Combi portiere e la prontezza di Guaita che al 19′ del primo tempo realizza il gol-partita. Quello che lancia l’Italia verso il primo titolo iridato e che consacra Sindelar. Il Mozart del calcio (come lo chiamava Hugo Meisl, la guida di quella nazionale) non gioca la finale per il terzo posto e un’Austria in grandi ristrettezze economiche perde con la Germania 3-2. In campo Sindelar c’è, invece, nel famoso 8-2 sull’Ungheria, qualche tempo prima – quando Matthias segna 3 gol e fornisce tutti e 5 gli assist ai compagni per le altre reti – e ancora in quel 3 aprile 1938, a Vienna. Nella capitale si «festeggia la pacifica annessione» del Paese. Ovunque bandiere con la svastica a benedire l’Anschluss.

Il Prater, lo stadio che adesso sta a fianco della ruota panoramica, è in festa per la partita coi «fratelli tedeschi». La propaganda del regime di Hitler crede nello sport, come dimostrano le Olimpiadi (estive e invernali) organizzate nel 1936. La Germania, che 4 anni prima era di bronzo – si pensa -, con l’inserimento dei più forti giocatori austriaci, a cominciare da Sindelar, può puntare alla Coppa Rimet, che di lì a poco si giocherà in Francia. L’Austria, che quel giorno va in campo per l’ultima volta con la sua maglia biancorossa, sa già che non potrà disputare il Mondiale. L’annessione ha escluso Sindelar e compagni da quell’ appuntamento, ci sarà solo la Grande Germania.

I tempi sono cambiati, vanno di moda le camicie brune, alcuni club ebraici sono già stati chiusi. All’Austria Vienna verrà imposto di cambiare nome (in Ostmark, provincia orientale). E mentre i giocatori non vengono toccati, molti dirigenti di origine ebraica sono rimossi dai rispettivi incarichi.
Sindelar non ha paura di esporsi e si rivolge così al vecchio presidente ebreo: «Il nuovo fuhrer dell’Austria Vienna, ci ha proibito di salutarla, ma io vorrò sempre dirle buongiorno, signor Schwarz, ogni volta che avrò la fortuna di incontrarla».

Sindelar non si smentisce neppure in campo quel 3 aprile 1938. Ubriaca i tedeschi in campo e li sfida fuori: segna il decisivo 2-1 e disputa una delle sue partite più belle. Alla fine il rigido protocollo impone il saluto ai gerarchi presenti in tribuna. Non tutti alzano il braccio teso davanti agli occhi: Sindelar e Karl Sesta rifiutano.
Sepp Herberger, l’allenatore della Germania, capisce che il ginocchio non c’entra nulla quando Matthias gli aveva detto che non avrebbe cambiato maglia. «Mi accorsi – racconterà anni dopo il tecnico tedesco – che c’erano altri motivi per cui non voleva giocare e io decisi di lasciarlo in pace, anche se sapevo che era ancora il più forte». Dietro quel no si sta per chiudere anche la vita di Sindelar: alcuni compagni ebrei scelgono di giocare con la Germania, ma dopo il rovescio francese (eliminazione negli ottavi da parte della Svizzera) scappano all’estero.

Per Mathias c’è l’ultima partita a Berlino, l’ultimo gol, l’ultimo mese di vita, prima di un presunto suicidio il 23 gennaio del 1939, a neppure 36 anni. Accanto a lui trovano una giovane ebrea italiana, Camilla Castagnola, che aveva incontrato qualche giorno prima (morirà dopo pochi giorni senza aver mai ripreso conoscenza). La versione ufficiale fornita è «avvelenamento da monossido di carbonio». Ma la tesi appare dubbia: qualcuno ha parlato di suicidio, altri di omicidio (da parte della Gestapo), altri ancora di incidente. Comunque la polizia austriaca archivia il caso in fretta. Dopo la guerra sparisce anche l’incartamento legato alla vicenda Sindelar. Restano i suoi gol, il suo genio calcistico, il suo fiero rifiuto di piegarsi alla violenza e all’arroganza del nazismo.

Restano per sempre i giorni nei quali “cartavelina” entrava nell’area avversaria, perfetto nella sua figura quasi scheletrica, intangibile, destinato al gol o al tocco smarcante

Testo di Gian Luca Pasini

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