Uruguay Campeon
Ripetizione quindi della finale di Amsterdam, prodotto evidente della supremazia del calcio rioplatense e del magistero di quella scuola orientata sulla perfezione tecnica e il rispetto della geometria nella manovra. «Portenhi» e «orientales» si ritrovavano di fronte per la conquista del trono del pallone dopo tante battaglie dall’esito incerto in Coppa America, nelle Tacas Lipton e Newton, alle Olimpiadi per evidenziare una supremazia alla quale le opposte tifoserie ambivano tenacemente. L’incontro fu preparato minuziosamente dalle autorità di polizia di Montevideo. Da Buenos Aires furono richiesti 30.000 biglietti e gli organizzatori ne concessero 20.000.
Agli ingressi dell’Estadio Centenario militi della policia civil passarono a sommaria perquisizione migliaia di spettatori. Fu trovato di tutto, petardi, coltelli, revolver e la solerzia giunse a tal punto, che la terna arbitrale fu ammessa all’ingresso solamente dopo una accurata ispezione alle valigette. 20.000 tifosi argentini attraversarono il Rio della Plata su un centinaio di piroscafi che avevano attraccato al porto di Montevideo nelle 48 ore precedenti il match. L’attesa era enorme, la tensione causava incidenti significativi in ogni parte delle scalee ancora prima dell’avvio dell’incontro.
Langenus che era stato prescelto per dirigere la finale aveva accettato la designazione un paio d’ore prima dell’avvio dell’incontro. E accettò quando gli fu stipulata una congrua polizza sulla vita e assicurata l’assistenza garantita di almeno un centinaio di poliziotti. Al Prado la vigilia dell’incontro fu incrinata dalla rinuncia di Peregrino Anselmo, centravanti della «celeste» e grande rivelazione di quei campionati. Chiese di non essere schierato senza precisare i motivi che lo spingevano ad una tale richiesta e ci fu chi malignamente insinuò il sospetto di un irresistibile timore del «terrible» Monti. Con Petrone fuori forma, il compito di sostituire Anselmo fu affidato al «monco» Hector Castro, un giocatore carente sul piano tecnico ma dotato di una carica agonistica inesauribile. Uruguay dunque schierato dal prof. Supicci con: Ballestrero; Nasazzi Mascheroni; Andrade Fernandez Gestido; Dorado Scaron Castro Cea Iriarte. L’ambiente della «celeste» era teso, ma sostanzialmente conscio della propria forza e fiducioso nella vittoria.
In casa argentina al contrario regnava il caos più completo. Luisito Monti non voleva giocare, il pubblico gli aveva indirizzato ogni genere di contumelie, era stato oggetto di sarcastici e pesanti commenti sulla stampa locale e come non bastasse aveva ricevuto minacce telefoniche. Con Zumelzù infortunato e Chividini poco indicato per un incontro tanto importante, il responsabile Francisco Olazar fece venire da Buenos Aires due dirigenti del San Lorenzo per convincere Luisito ad accettare la designazione al ruolo. Varallo era infortunato e lo si mandò in campo ugualmente sperando in un miracolo, gli argentini nervosi e preoccupati per la loro incolumità fisica entrarono nel grande scenario alle 14,10 e al fischio di Langenus adottarono il seguente schieramento: Notasso; Della Torre, Paternoster; J. Evaristo, Monti, Suarez; Peucelle, Varallo, Stabile, Ferreyra, M. Evaristo.
Subito all’inizio gli argentini si spinsero in avanti evidenziando quello squilibrio fra reparto avanzato e difesa che è da sempre il tallone d’Achille dei «blanquicelestes». Gli uruguagi stentavano un poco, Andrade sembrava in trance e Nasazzi era costretto ad affannosi recuperi, ma al 12′ Scarone incrocia in velocità Paternoster e Suarez e smista la palla a Castro che la fa proseguire in direzione di Dorado in profondità sulla destra. Due passi in corsa dell’ala e botta secca radente che gonfia la rete dell’incolpevole Botasso. Fra le esplosioni di gioia degli uruguagi monta la furia argentina. Nasazzi e Mascheroni compiono autentici miracoli ma il pareggio è nell’aria. Al 20′ Monti manovra una palla per Stabile che serve Ferreyra, e il mezzo sinistra trattiene la palla richiamando su di sé l’attenzione dei difensori, poi con un «pase corto» serve l’accorrente Peucelle che con tiro incrociato a mezza altezza batte il «mal colocado» Ballestrero. Il gol d’ apertura ha come sgonfiato gli uruguagi; non riescono ad arginare le offensive arrembanti, le invenzioni geniali di Stabile e il controgioco d’attacco non riesce a superare la tre quarti avversaria.
Intanto Stabile fa impazzire i difensori e al 37′ Nasazzi si fa sorprendere da un lungo lancio di Monti scoccato da quasi metà campo, «el filtrador» è ben piazzato ad aggira il capitano della «celeste» e non appena Ballestrero accenna l’uscita lo anticipa con un tocco beffardo che termina in rete. Il vantaggio eccita i portenhi, sospinti dal caldo incitamento dei 20.000 supporters gli argentini insistono in avanti alla ricerca del gol della sicurezza, ma Nasazzi, Mascheroni e Ballestrero fan diga molti-plicando le energie e al 57′ su un lungo lancio di Fernandez, Scarone fa da torre per Cea e il tiro del «peon» è imprendibile per Botasso. Il pareggio è come una medicina salutare, Andrade ritrova l’agilità di sempre, Fernandez specialista del controgioco può armare i suoi lanci precisi in avanti Scarone riprende le redini del gioco e per la difesa argentina aperta ed invitante cominciano i dolori.
Le incursioni offensive di Scarone e Iriarte mettono in avaria la difesa avversaria e al 68′ Mascheroni scende veloce e indisturbato sul centro e appoggia a Iriarte. L’ala finta il passaggio su Scarone e invece lascia partire un gran fendente che si spegne nell’angolo alto alla destra di Botasso. Pur vulnerabile nei reparti arretrati l’Argentina si getta in avanti portando trambusto e panico nella tifoseria uruguagia, specialmente quando Nasazzi è costretto a strattonare vistosamente Evaristo e Andrade sulla linea di porta con Ballestrero battuto, riesce a cacciar via una palla indirizzata a rete da Varallo. Ma il pareggio non arriva e gli ampi spazi concessi alle incursioni di Dorado e Iriarte portano la quarta segnatura ad opera di Castro, che interviene con la testa su una centrata di Dorado. E’ notte per le ambizioni argentine, la Coppa del Mondo finisce nelle mani di Nasazzi a concludere un decennio di dominio sul football mondiale. Agli uomini di «Nolo» Ferreyra, alla tifoseria e alla stampa argentina non rimane che l’inutile arma della polemica.
La Federazione argentina perde addirittura la testa e rompe ogni e qualsiasi rapporto con la consorella uruguayana. Luisito Monti fu oltraggiato lungamente; dopo averlo accusato per lungo tempo di «brutalidad», gli appiopparono ora l’appellativo «conejo» imputandogli un comportamento pauroso nel corso della finale. Giocatori che pur nei limiti tattici del calcio «portenho» offrirono grandi spettacoli di gioco sul terreno del «centenario» vennero definiti «codardes».Le cause che portarono alla sconfitta non erano imputabili alla valutazione dei singoli, che sul piano della classe pura le due squadre si equivalevano, il divario dei valori scaturiva dalla diversa concezione tattica delle due scuole. Sebbene Carlo Peucelle abbia recentemente scritto nei suoi ricordi che «non si parlava di tattica, ognuno saliva a giocare e sapeva cosa doveva fare» e Carlos Martinez Moreno, giornalista uruguayano confermò scrivendo «la verità è che non si usavano giocate diagrammate sulla lavagna», è pur vero che il gioco argentino era tutto orientato all’offensiva senza particolari attenzioni alla difesa e per contro gli uruguagi di Nasazzi, manovravano più raccolti sulla loro trequarti per colpire in controgioco con incursioni veloci in profondità.
Questa caratteristica gli derivava fino dal 1924 dalle peculiarità di Pedro Petrone che aveva sostituito José Piendibene al comando defila prima linea «celeste» e rivoluzionato la figura del centravanti, dotato come era di potenza e capacità di tiro surrogate da una notevole velocità. Per questa caratteristica «Perucho» Petrone che verrà poi in Italia alla Fiorentina, gradiva i lanci negli spazi aperti in cui avventarsi in velocità ed usare al meglio l’arma del tiro. E con il centravanti in condizioni di forma piuttosto precarie il prof. Supicci scelse Hector Castro affidandogli i compiti che nel passato «Perucho» aveva così bene espletato. E il risultato gli diede ampiamente ragione.