Alessandro Vitali, il destino dietro una curva

La sfortunata vita di Vitali. Un vero talento precoce rapidamente caduto in disgrazia.

E’ la notte del 26 agosto 1977. Alessandro Vitali e il suo amico Giorgio Lazzari, venti anni, calciatore della Centese, la squadra dilettanti della cittadina natale di Vitali, sono andati con altri amici a cena in un ristorante di San Giovanni in Persiceto. Prendono in prestito l’auto dell’amico Arrigo Fazzioli, un’Alfa Romeo 2000, per andare ad accompagnare a casa due ragazze ed ora stanno ritornando al ristorante per riunirsi al resto della compagnia. Sono le 2.15, l’auto sta viaggiando sulla statale 255 fra San Matteo della Decima e San Giovanni in Persiceto, ad una ventina di chilometri da Bologna. Dopo una curva, sulla destra, il veicolo — che procede a velocità sostenuta —, esce di strada andando a sbattere violentemente contro dei platani. I due occupanti vengono scagliati fuori dall’abitacolo: entrambi muoiono sul colpo.

Fino qui una fredda cronaca. Ma dietro la tragedia si nasconde una storia che merita di essere ricordata e riscoperta. Quella di Alessandro Vitali è stata infatti una vicenda, tanto esemplare da poter essere presa come possibile copione di teatro, di un talento del calcio sotto molti aspetti sprecato, tranne sotto quello puramente finanziario dei dirigenti di società. Pochi giocatori, infatti, movimentarono più di lui negli anni settanta il cosiddetto mercato della pedata. In un certo senso l’arte del gol di Vitali fece la fortuna di una squadra, il Lanerossi Vicenza, e in particolare di un abile presidente, Giussi Farina, che nel giro di due anni riuscì a vendere, ricomprare e rivendere, a cifre vistose in uscita, per pochi spiccioli in entrata, questo attaccante che veniva ogni volta proclamato unico possibile rivale del grande Gigi Riva.

Talento, s’è già detto. Sandro Vitali ne possedeva, in effetti. E proprio di Riva fu in un certo senso il «nemico» nel 1970, quando giunse secondo nella classifica dei cannonieri di campionato, e ne fu poi la «spalla» nel 1972, quando passò al fianco del bomber di Leggiuno nella prima linea del Cagliari, che sognava di mettere insieme, con i due, una vera fabbrica di gol. Ma Vitali aveva appiccicata un’altra e assai meno propizia dote, quella di lasciare prima o poi con la bocca asciutta e amara chi aveva troppo creduto in lui. Perfino con il Vicenza, in fondo, finì molto male, alla line del giochetto «vieni e vai» ideato dal furbo presidente Farina.

A Vicenza, del resto. Vitali, nato a Cento (Ferrara) il 6 marzo 1945, arrivò la prima volta nel 1968, a ventitré anni, proprio perché il Bologna si era stancato di credere in quel ragazzone cresciuto nel suo vivaio, sotto gli occhi del vecchio Amedeo Biavati (ma sì, l’ala destra campione del mondo 1938, quello del famoso passo doppio che ingannava gli avversari e incantava giustamente Vittorio Pozzo). Il Bologna aveva avuto da Biavati la garanzia che Vitali sarebbe stato pronto a far faville in prima squadra a vent’anni, forse meno. Ma la maturazione, per varie ragioni, tardava.

E Vitali venne anche mandato. come capita a molti giovani che «devono farsi le ossa», in prestito al Sud, in Serie B, prima al Catanzaro, dove fece anche benino, e poi al Catania. Ma nessuno osava più scommettere su di lui, e il Vicenza se lo portò a casa per pochissimi milioni: una vera svendita. Poi venne quel campionato 1970, con i 17 gol di Vitali (l’unica stagione in cui abbia passato la quota di 5 o 6), e di colpo fu la fortuna. La Fiorentina lo acquistò per 700 milioni, una cifra spaventosa, superata solo dal famoso miliardo di Savoldi nel 1975.

A Firenze fu un disastro. Con quel centravanti che in tutto l’anno segnò appena 6 gol, la Fiorentina rischiò la retrocessione, e rispedì Vitali a Vicenza. Dopo breve parcheggio, l’abile Farina lo vendette al Cagliari, per mezzo miliardo. E a Cagliari, anziché legare con Riva, Vitali fece nuovamente fiasco, e mise insieme la miseria di tre gol, uno ogni otto partite, e se finì sui giornali fu soltanto per una clamorosa faccenda di «lolite», di minorenni accusatrici, di giudici che furono costretti a indagare su come alcuni giocatori del Cagliari impiegassero il tempo libero.

Rispedito a Vicenza, ormai Vitali non ritrovò più lo slancio per ripartire. Nemmeno il fiuto per gli affari di Giussi Farina poteva fare miracoli. L’unica giornata di fama venne a Vitali soltanto da una squalifica per ben otto giornate, nel ’71, dopo un furioso battibecco con l’arbitro Branzoni. E alla fine, nell’agosto del 1977, la rottura definitiva: il Vicenza gli offrì un contratto a gettone, 200 mila lire a partita, come si usa con i limoni ormai spremuti. Un insulto. E Vitali, sbattendo la porta, tornò a Cento, la cittadina in provincia di Ferrara in cui era nato, e che era sempre stato il solo punto fisso della sua vita di giramondo.

Ora nella sua terra Vitali, talento calcistico sprecato, nazionale mancato e cannoniere per una sola stagione, aveva intrapreso un’attività commerciale. Viveva in una palazzina del centro. Ma il movimentato e perfino buffo romanzo della sua vita aveva un finale tragico: un anno prima sua moglie era morta cadendo da una finestra, ed era stata avanzata — non si sa con quale fondamento — l’ipotesi di un suicidio. Sandro Vitali era rimasto solo con la figlia Micaela di nove anni. Pensava di poter giocare ancora, sia pure per divertirsi soltanto, tra i dilettanti, lui che era stato un uomo da centinaia e centinaia di milioni. Pensava di avere ancora tutta una vita davanti a sé. A trentadue anni uno può essere un calciatore finito ma è ancora un uomo giovane. Il destino lo aspettava a una curva.