Antonio Bacchetti: tra Paradiso e Inferno

La straordinaria e tragica storia del calciatore friulano: dall’essere idolo dei tifosi del Napoli al diventare maestro di giovani talenti, fino al drammatico epilogo che segnò la sua fine.

Ci sono storie nel calcio che vanno oltre il semplice sport, che parlano di umanità nella sua forma più cruda e contraddittoria. La vicenda di Antonio Bacchetti è una di queste: la parabola di un uomo che toccò il cielo come idolo dei tifosi del Napoli e finì la sua vita dietro le sbarre per omicidio. Un paradosso vivente, capace di scoprire e lanciare talenti straordinari mentre la sua esistenza scivolava verso l’abisso.

La sua storia inizia nei campetti polverosi di Udine negli anni Venti, dove un ragazzino nato nel 1923 mostrava già di avere nei piedi qualcosa di magico. Antonio Bacchetti era “un dio del calcio“, come lo ricordavano i suoi coetanei, uno di quelli che “col pallone sapeva fare quello che voleva“. Ma già allora emergeva il carattere difficile che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita: la lingua tagliente, l’orgoglio ferito facilmente, quella personalità spigolosa che a volte può aiutare e altre no.

L’idolo del Napoli

Il destino di Bacchetti sembrava scritto nelle stelle quando nel 1950 arrivò al Napoli. Aveva già giocato in Serie A con l’Atalanta dopo essere tornato dalla guerra, dove aveva combattuto come partigiano, poi aveva militato nella Lucchese e persino nell’Inter. Ma fu a Napoli che esplose definitivamente, regalando ai tifosi partenopei una stagione indimenticabile.

Dieci gol e una classe cristallina che fece innamorare un’intera città. Bacchetti non era solo un calciatore, era uno showman ante litteram. Le sue “mattane” fuori dal campo erano leggendarie quanto i suoi numeri in campo. Chi non ricorda l’episodio in cui si rifiutò di scendere in campo perché, nonostante fosse titolare, il suo nome non era stato annunciato allo stadio? O quella partita in cui, prima di segnare, si voltò verso la tribuna cercando lo sguardo del presidente a cui aveva chiesto un aumento di stipendio?

Il suo talento era tale che persino Totò, il principe della risata napoletana, lo omaggiò in uno sketch diventato celebre. “Napoli-Inter, cosa mettiamo? Bacchetti gioca? Allora metti uno!”, diceva il grande comico, sintetizzando in una battuta il valore di quel calciatore straordinario.

Le ombre del passato

Il Napoli 1950/51. Bacchetti è il secondo in piedi da sx

Ma proprio quando la carriera di Bacchetti sembrava al suo apice, il passato bussò alla sua porta con il pugno di ferro della giustizia. Nel dicembre del 1951, mentre indossava ancora la maglia del Napoli, venne processato insieme al fratello e ad altri due ex compagni partigiani per l’uccisione di un uomo avvenuta nel marzo 1945.

Il processo di Udine si concluse con un verdetto di non luogo a procedere: l’omicidio c’era stato, ma era stato compiuto in “condizione di necessità con il pieno assenso del locale C.L.N. di Pradamano“. La guerra partigiana aveva le sue regole spietate, e Bacchetti ne era stato un soldato. Tuttavia, il danno alla sua carriera era ormai fatto. La seconda stagione a Napoli fu compromessa, e da quel momento iniziò un pellegrinaggio calcistico che lo portò all’Udinese, al Torino, sempre in fuga, sempre inadatto a fermarsi più di una stagione nella stessa squadra.

Il carattere difficile che lo aveva reso unico in campo si rivelava un ostacolo insormontabile nella vita. Era come se Bacchetti fosse destinato a bruciare tutto quello che toccava, incapace di trovare pace.

Il Maestro di talenti

Eppure, quando sembrava che il calcio avesse finito con Antonio Bacchetti, fu lui a reinventarsi nel modo più inaspettato. Tornato a Udine negli anni Sessanta, divenne il deus ex machina dell’Esperia, una piccola società di quartiere che sotto la sua guida si trasformò in una fucina di campioni.

Bacchetti aveva trovato la sua vera vocazione: scoprire talenti. Girava per il Friuli con la sua Fiat 600 multipla, cercando ragazzini nei campetti di periferia, organizzando provini che richiamavano i dirigenti delle più importanti squadre italiane. Giuseppe Meazza veniva per l’Inter, Paolo Mazza si scomodava dalla Spal. “Se lo dice Bacchetti, vale la pena“, era il motto che girava negli ambienti calcistici.

La sua parola aveva un valore assoluto perché Bacchetti, per quanto controverso, era un uomo di cui fidarsi nei rapporti professionali. Il portiere Silvano Martina, ex Genoa, Torino e Lazio, nonché futuro agente di Gianluigi Buffon, lo ricorda con commozione: “Mi portava al ristorante a mangiare carne e nervetti perché ero debole fisicamente, mi riaccompagnava a casa dopo ogni partita percorrendo 60 chilometri con la sua 600 multipla. Era generoso e mi insegnava a non fare le cazzate che aveva fatto lui durante la carriera“.

L’Esperia di Bacchetti era organizzata come una società professionistica: allenatori ex Serie A, viaggi in autobus, divise sempre nuove. Una delle sue formazioni arrivò ad un passo dal titolo nazionale Allievi, sfornando talenti che finirono alla Juventus, all’Inter, al Bologna, alla Spal. Giorgio Battoia, venduto alla Juve, racconta ancora oggi commosso di come Bacchetti si presentò a casa sua “in un paesello in mezzo alle valli, con un soprabito che gli andava sotto alle scarpe“, convincendo i genitori diffidenti a far giocare il figlio nell’Esperia.

La caduta

Ma il destino di Antonio Bacchetti sembrava segnato da una tragica coerenza. A 51 anni, il suo mondo crollò di nuovo. Malato di tubercolosi, senza un soldo risparmiato, non riusciva a curarsi dignitosamente. La malattia lo stava consumando e la disperazione lo stava accecando.

Fu in questo stato d’animo che in una mattina di metà anni Settanta entrò nel negozio di articoli sportivi di Armando Lorenzutti, presidente del club con cui l’Esperia aveva fatto una fusione. Non era la prima volta che Bacchetti andava da quell’uomo a chiedere denaro che riteneva gli spettasse per alcune cessioni di giovani calciatori. Ma quella mattina qualcosa si spezzò definitivamente.

La discussione iniziò nel negozio, poi si spostò nel retrobottega. Le voci si alzarono, la tensione esplose. Bacchetti, esasperato, tirò fuori la pistola che si era portato con sé e uccise Lorenzutti sul colpo. Non scappò. Aspettò l’arrivo dei carabinieri con le mani alzate, consegnandosi a un destino che in fondo aveva sempre saputo lo stesse aspettando.

L’epilogo

Il carcere che Bacchetti aveva già sfiorato in passato questa volta lo inghiottì definitivamente. I suoi ex ragazzi, diventati calciatori affermati, andavano a trovarlo quando potevano. Giorgio Battoia, nonostante avesse solo 18 anni, volle andare a fargli visita. Bacchetti lo rimproverò in dialetto friulano: “Quelli non sono posti adatti per un ragazzo come te“. Anche dietro le sbarre, continuava a essere un educatore.

I polmoni già devastati dalla tubercolosi furono attaccati da un cancro. Il 9 maggio 1979, Antonio Bacchetti morì a Udine. Erano passati cinque anni da quel gesto sconsiderato che aveva spezzato due vite: quella di Lorenzutti e la sua. Ai suoi ex calciatori che andavano a trovarlo ripeteva sempre la stessa frase: si era pentito.

Fernando Fino, storico dirigente del calcio giovanile udinese, lo ricorda ancora oggi come un maestro: “Era avanti anni luce rispetto a tutti gli altri. Lo vedevo dare indicazioni per giocare senza libero o togliere i suoi calciatori migliori per evitare che la squadra sommergesse di gol gli avversari. I ragazzi dell’Esperia andavano sempre a complimentarsi con i rivali, in anni in cui il fair play era di là da venire“.

Bacchetti era fatto così: pieno di contraddizioni che nessuno riusciva a spiegare, nemmeno lui stesso. Sapeva amare i suoi ragazzi come un padre, ma non riusciva a tenere a bada la rabbia e la disperazione che lo rodevano dentro.

Non è facile inquadrare un tipo come lui. Assassino? Educatore? Genio? Disperato? Probabilmente era tutto insieme, senza che una cosa escludesse l’altra. Era umano, nel modo più scomodo e difficile da accettare.