CANE’ – CARECA – CEREZO – CESARINI – CHARLES -CINESINHO – CLERICI – CUCCHIARONI
Aspettavano un nuovo Pelé, i tifosi napoletani. Ma Faustinho esordì in maniera catastrofica, e per tutta la stagione ’62-63 le cose non migliorarono.
Il Napoli retrocesse, i dubbi su Canè si moltiplicarono. Un fotografo lo immortalò accanto a un pastore tedesco, e su un quotidiano la foto in questione uscì corredata da una didascalia impietosa: «Cane o Canè?». Dalla stagione successiva, il riscatto. Due anni per riportare il Napoli in Serie A a suon di gol, la nuova vita in azzurro accanto a talenti come Sivori e Altafini e poi, dopo il ritorno, nel “miniboom” di Vinicio. In tutto tredici stagioni italiane, dieci delle quali sotto il Vesuvio con una breve parentesi a Bari. A trentasei anni, quando chiuse la carriera, Canè era diventato un idolo. «Didi, Vavà, Pelé, site ‘a guallera ‘e Canè», cantavano in coro i tifosi partenopei. “Guallera”, in gergo, significa cinto erniario. Insomma, ci siamo capiti.
In Italia, Careca arrivò nella stagione ’87-88, accompagnato dalla fama di grande realizzatore che si era costruito in Brasile e ai Mondiali 1986 in Messico (5 reti, secondo miglior realizzatore del torneo dopo Lineker). Il Napoli aveva lo scudetto cucito sulle maglie e Careca trovò subito un feeling eccezionale con Maradona. E non solo con lui: il tridente d’attacco formato da Maradona, Giordano e Careca (“MaGiCa”, nel cuore dei tifosi) funzionò a meraviglia realizzando 36 gol. Nonostante questo, il Napoli riuscì a regalare al Milan un campionato già vinto. Lo scudetto, il secondo del club partenopeo, sarebbe arrivato due anni dopo. Sei stagioni sotto il Vesuvio, la gioia del tricolore, della Coppa Uefa ’88-89 e della Supercoppa Italiana ’90-91. Il suo gioco era semplice e implacabile: efficacissimo il dribbling, potente il tiro, addirittura mortifero il diagonale in corsa, un autentico castigo per i portieri. Nei momenti di gran forma, il secondo centravanti al mondo dopo Van Basten.
Quando arrivò alla Roma, nel 1983, qualcuno dubitava anche dei suoi ventott’anni. Perchè Toninho era nato in una famiglia di clown girovaghi che attraversavano in lungo e in largo il Minas Gerais. Chissà quando sarà stato registrato all’anagrafe, si diceva. I soliti sospetti. Sta di fatto che con l’aiuto del connazionale Falcão, Cerezo dimenticò in fretta la saudade e prese per mano il centrocampo giallo-rosso per tre stagioni.
E quando l’avventura romana finì, ne iniziò una ancora più bella con la Sampdoria. A Genova conquistò uno storico scudetto nel ’90-91, una Coppa delle Coppe e due volte la Coppa Italia. Il motore del gruppo, ecco cos’era Toninho Cerezo. Motore dai piedi buoni e dal cervello ispirato, una specie di uomo di gomma (il molleggiato del pallone) capace di fare di tutto: assist, gol, tackle. Un campione completo (anche di simpatia) che ha continuato a funzionare, e bene, in Brasile: al San Paolo (due Coppe Intercontinentali, una a spese del Milan), al Cruzeiro, all’Atletico Mineiro. Con la maglia verde-oro Cerezo ha disputato 74 incontri segnando 7 reti. Ha giocato i Mondiali di calcio in Argentina nel 1978 e in Spagna nel 1982 saltando per infortunio quelli del 1986.
Era il 13 dicembre del 1931, si giocava Italia-Ungheria a Torino. Finì 3-2 per gli azzurri, grazie a un gol di “Ce” segnato al 90′. Il giornalista Eugenio Danese parlò di gol segnato in “zona Cesarini”, e consegnò alla storia il bohemienne Renato. Che, prima di tornarsene oltreoceano, regalò alla Juve anche lo scudetto numero undici: lo fece da allenatore, insieme a Carletto Parola, nella stagione 1959-60.
Dentro quel fisico gigantesco c’era un’anima nobile. Passò alla storia del derby della Mole per un gesto di cavalleria. Era la prima stracittadina di King John. Lanciato a rete, atterrò involontariamente con una gomitata il difensore granata Brancaleoni. Invece di tirare dritto, calciò la palla fuori e si fermò a soccorrere l’avversario, riscuotendo applausi.
Un “apelido” che gli affibbiarono quando ancora era un bambino, per via di quei tratti somatici che lo facevano assomigliare a un orientale, piuttosto che a un sudamericano. Il ragazzino di Rio Grande scalò in fretta i valori del calcio brasiliano. A diciannove anni era già in Nazionale (dove collezzionerà 17 presenze per sette reti), esordiente accanto a promesse che si chiamavano Garrincha, Vavà, Zagallo.
Arrivò in Italia nel 1962: una stagione al Modena e due al Catania, prima di approdare a trent’anni alla Juventus, dove si rivelò come la preziosa bussola del centrocampo bianconero, il lampo di genuina classe e fantasia nel “movimiento” del ginnasiarca Heriberto Herrera che riportò la Juventus allo scudetto dopo sei anni di digiuno.
Tre ottime stagioni alla Juve, e poi una seconda giovinezza al Lanerossi Vicenza, di cui divenne l’indiscusso leader, grazie al suo magistero di grande regista, giocando ad alto livello fino a trentotto anni. Si ritirò dalla scena nel 1972, intraprendendo una poco fortunata carriera di allenatore.
A Lecco restò sette anni, il centravanti paulista. Due stagioni in A con molte ombre e rare luci, quattro tra i cadetti, un crescendo continuo culminato con la promozione. Poi un’eredità pesante a Bologna, dove la piazza lo attendeva per sostituire Harald Nielsen. Operazione fallita, e avanti con Atalanta, Verona, Fiorentina. Fino alla favola bella di Napoli, al successo definitivo arrivato a 32 anni in una città che si innamorò di questo brasiliano atipico, così poco sudamericano nel temperamento per quanto inconfondibile nel gioco: il dribbling a rasoiate zigzaganti, il caracollare da pistolero d’area sempre pronto a sparare in porta. Ancora Bologna, ancora al posto di una bandiera rossoblu. Sergio Clerici, ormai noto come “Gringo”, rimpiazzò Beppe Savoldi, degnamente. Nel ’77-78, gli ultimi voli all’Olimpico, con la maglia della Lazio. Diciotto anni: praticamente una carriera da italiano.
Ha giocato cinque stagioni nel Tigre e una nel Boca Juniors, non è un ragazzino ma trova subito un buon feeling con Schiaffino. Ha stile, sa incantare i tifosi con finte e invenzioni da campione. La sua prima stagione rossonera gli regala lo scudetto.
Dopo la seconda prende la strada di Genova. Dove il presidente della Sampdoria, l’ar-matore Alberto Ravano, sta costruendo una squadra di vertice rigenerando giocatori altrove considerati “finiti”. Gente come Guido Vincenzi (dall’Inter) “Spanna” Bergamaschi e, appunto, Tito Cucchiaroni, che insieme chiudono il loro capitolo milanese.
Idea vincente: la Sampdoria di Ocwirk e di Cucchiaroni diventa una squadra pericolosa per chiunque. Tito fa in tempo a giocare con Boskov e Veselinovic, con Da Silva e Toro, prima di chiudere la carriera italiana nel ’62-63. A Genova gli intitoleranno un club ultras blucerchiato. Morirà poco tempo dopo, in patria, durante un allenamento.