E’ diverso da ognuno perché ogni cosa che fa la fa bene e la fa bella, e non risponde a nessuna programmazione. Ogni angolo del campo è il suo sito naturale, il suo piede sinistro cambia giocata all’ultimo secondo utile, quando sembra frenare scatta e quando sembra scattare frena. Va per gli stadi sfidando le leggi dell’ equilibrio e va per il mondo regalando felicità. Suscita fantasmi di sogni arcani e agli argentini ricorda il tango, perché è un “pibe de mil anos” che impiega arti nobili per riscattare il football dalla mediocrità.
PROLOGO
A Wembley, nello stadio-tempio del calcio, l’Argentina Campione del mondo va perdendo 3-1 quando il pubblico di Londra si alza in piedi ancora una volta per rendere omaggio agli arabeschi di un ragazzo ventenne piccolo e tarchiato, un viso scuro e gli occhi furbi da impunito sotto una massa di riccioli incolti, che vestiva una maglia biancoceleste. Confuso fra il pubblico, Enzo Bearzot, il commissario tecnico della nazionale italiana, un uomo che del calcio mondiale sa tutto, si alza lentamente e si unisce al coro. «Non mi succede spesso, diciamo mai».
E traccia per il pubblico italiano, un elogio che è un ritratto del ragazzo che solo ha vinto un mondiale giovanile, che nel ’78 è stato escluso dalla selezione argentina di Menotti, “el Flaco” (che aveva poi vinto il suo primo mondiale), e che di recente aveva scatenato intorno al suo nome un’asta mondiale: «E’ un giocatore eccezionale per rapidità di riflessi e tecnica individuale, per come si è calato nel calcio moderno, all’europea, senza perdere le caratteristiche di palleggio e fantasia del football sudamericano. Usa soprattutto il sinistro, ma gli basta e avanza. Tocco di interno, di esterno, uno shot molto forte e un tiro preciso. Vede il gioco, partecipa al movimento della squadra, sa arretrare a difendere pur prediligendo l’offensiva. Non è molto alto ma ha un valido stacco di testa grazie alla muscolatura forte, elastica. E’ sicuramente un asso».
E Menotti scomoda due ombre giganti per completare il ritratto: «Già mi ricorda Puskas e Pelé, e ha ancora margini di progresso. E’ un impasto delle qualità dei due, ma in realtà è soprattutto se stesso».
E’ soprattutto Diego Armando Maradona, nato in un barrìo di Buenos Aires, dove i padri escono di casa alle sei della mattina e rientrano alle dieci della sera perché il lavoro è scarso e mal pagato e condurre una vita appena dignitosa costa tempo e fatica. Bambini scalzi giocano a football fra pozzanghere putride e vedono in un pallone il simbolo che li distrae dalle disgrazie presenti e promette una via di fuga nel futuro.
In questa fabbrica di abilità Diego aggiunse negli anni la tecnica alla sua immaginazione (perché “non c’è genio senza tecnica” ci insegnò Picasso) e fin da molto giovane si mise a mostrare meraviglie.
DENTRO LE FAVELAS
La madre prese il treno affollato di gente dal volto triste un mattino del 1955; il padre la seguì qualche mese dopo, in battello trascinandosi dietro i pochi possessi e le casseruole di cucina che suonavano sballottate dalle onde.
Due sposi giovani con due bambine piccole provenienti da un paesino chiamato Esquina, nella provincia poverissima di Corrientes, settecento chilometri da Buenos Aires. Cercavano un futuro nella capitale, una testa gigantesca in un corpo economicamente nano che attirava da ogni angolo dall’Argentina i nullatenientes in cerca del decoroso benessere che il regime populista di Peron prometteva. Finivano tutti nelle favelas con le baracche fatte di assi e di lamiera e le strade di terra battuta con le fogne a cielo aperto, e il gas e l’elettricità lontani miraggi da conquistare con lotte di strada a cui partecipavano presto i bambini.
Qui approdarono i Maradona. Il luogo era Villa Fiorito, e la prima casa, faticosamente trovata in affitto, poteva sembrare una reggia con le sue mura di mattoni. Quella personale, di proprietà, don Diego Maradona, detto Chitoro, l’acquistò con i risparmi faticosamente messi da parte, facendo di volta in volta lo scaricatore di porto, l’operaio alle ferrovie e infine allo stabilimento Tritumol. Un posto fisso. Il sogno di ogni povero, una benedizione di Dio, con quella provvidenziale cassa mutua che permetteva di curare i bambini e magari ricoverare al Policlinico dona Dalma, la sua combattiva, orgogliosissima Tota, quando venne il tempo di partorire il quinto figlio. Nella mente della gente il Policlinico si chiamava ancora Evita (come l’amata moglie di Peron), anche se il nuovo potere golpista che aveva rovesciato l’amato Generale proibiva quel nome. Nell’ingresso c’era una stella disegnata sul pavimento e gli occhi di dona Tota si fissano su quel mosaico mentre scende dal taxi cercando rassicurazioni umane e divine al suo travaglio.
La buona notizia arriva alle 7,05 del mattino, il 30 ottobre 1960, e ha il tono scherzoso di un medico che annuncia un maschio «tutto culo e piedi». Dona Tota lo ricorda ancora perfettamente, dice. Come quella stella disegnata sul pavimento all’ingresso dell’ospedale…
E’ il giorno della nascita, una domenica. E ricorda che eran nate tutte femmine quella notte, solo lui, solo Diego Armando Maradona junior, un maschio. E nel tempo altri aneddoti dalle origini incerte si aggiungono alla storia. Come il fatto che nel momento cruciale l’urlo della madre somigliasse a un «goooool».
ARRIVA DIEGO
L’infanzia del piccolo nel barrio è costellata degli stessi ricordi, gli stessi dolori, le stesse marachelle di cui potrebbero essere protagonisti i diseredati brasiliani nelle favelas di Rio, i negri negli slums americani, o gli scugnizzi napoletani. Una vita da comune della strada. Tutti insieme per divertirsi e per lottare contro le avversità. Non vi era possibilità di scelta per i bambini poveri nei sobborghi di Buenos Aires: o la scuola o il lavoro. Don Diego fece l’inverosimile perché i suoi figli studiassero, mentre dona Tona gettava anche l’anima per mandarli in giro doverosamente puliti. Anche nella povertà ci sono gradi diversi di afflizione. Quella della famiglia Maradona è una povertà privilegiata, dignitosa, dove il posto sicuro del padre scongiura l’incubo della fame più nera e il lavoro indefesso della madre mantiene l’apparenza del decoro.
E’ una famiglia unita quella di Diego, e anche questo è un lusso negli agglomerati mostruosi dove il degrado ambientale si accompagna spesso a quello familiare e morale. Diego scorrazza nei suoi sandali tra i piedi nudi dei più. Grandicello, consuma, per la disperazione della madre, un paio di preziosissime scarpe correndo dietro a un pallone, tutto il giorno. La prima palla gliela regala lo zio, a due anni, e lui se la porta a letto tenendola abbracciate tutta la notte. Crescendo comincia a seguire il calcio dei grandi. Come il padre diviene tifoso del Boca, e va con lui a vedere l’esibizione dei campioni celebri, alla Bombonera, nel cuore più italiano di Buenos Aires. Poi ritorna alla sua borgata e sul Campetto spelacchiato che si chiamava Estrella Roja dà libero spazio alla fantasia inseguendo i suoi sogni. E quando qualcuno gli chiede (come a tutti i ragazzi di questo mondo) cosa avrebbe fatto da grande, lui informa con sfrontata ingenuità: «Quiero ser campeon del mundo, con Argentina».
E già allora aveva un’abitudine che farà parte integrante della leggenda di Maradona: la lingua in fuori. Prima o poi a causa di quell’abitudine qualcosa gli sarebbe capitata. Scuoteva la testa la gente del barrio. E qualcosa gli capiterà. Molto tempo più tardi, ad un’altra latitudine, nel 1983, in Andalusia, in un incontro tra il Siviglia e il Barcellona, e gli costerà quattro punti di sutura. Anche il suo celebre soprannome ha una sua piccola storia dimenticata tra le viuzze di Villa Fiorito. Lo chiamavano, e ancora oggi lo chiamano, ‘Telusa”, perché da piccolo gli cresceva una peluria che non riusciva a trasformarsi in capelli. E il soprannome gli è rimasto.
LE CEBOLLITAS
Perché Maradona la sua infanzia se l’è sempre portata dietro, con i suoi pregi e i suoi difetti, i suoi slanci e i suoi rancori. E le sue abitudini. Forse una delle poche cose intatte da quando i soldi e la fama si son portati via l’intimità. Nonostante i suoi sforzi, ora patetici ora arroganti, per aggrapparcisi.
Cos’è che diceva el Flaco quel giorno a Wembley? «Speriamo che il ragazzo non cambi mai, sia sempre Dieguito. Che continui ad essere legato alla famiglia, che frequenti gli stessi amici di sempre, che si diverta ad essere sulla cresta dell’onda per curiosità, non perché gli piaccia realmente. Sarebbe triste vederlo cambiare».
Che rimanga sempre “Dieguito de la Paternal”, quello che il 5 dicembre del 1970 era diventato una cipollina. Il numero dieci delle “Cebollitas”, la squadra ragazzi dell’Argentinos Juniors di Buenos Aires. Non aveva dovuto faticare troppo per farsi accettare. Un fine novembre del 1970. Era piovuto e il fango rendeva impossibile palleggiare sul Campetto dove Francisco Cornejo provava di solito i ragazzi che dalle strade arrivavano a frotte inseguendo i loro sogni. “Las Malvinas” si chiamava il Campetto, e quella mattina pullulava di ragazzini. Il nuovo arrivato era piccolo, scuro, accompagnato dal padre. Anche a lui Cornejo dice di aspettare. Ma i ragazzi soffrono la noia dell’attesa, si cercano un angolo non troppo infangato e cominciano a palleggiare. Poi, man mano, ognuno smette e Diego resta solo nel circolo dei compagni. Anche Cornejo lascia tutto e si avvicina, incuriosito. Quel che vede lo lascia di stucco. Un ragazzino dal talento inimitabile. Cornejo non attende che il campo si asciughi per un provino rituale; né attende il giorno dopo per proporre al padre la firma di un contratto. Avviene tutto in un baleno.
Qualche giorno dopo Dieguito sale per la prima volta sul furgoncino targato 578391, che Yoyo Trotta guida su e giù per la provincia, portando a destinazione le sue “cipolline”. E’ una covata eccezionale, un gruppo di ragazzini che nel loro piccolo scrivono un pezzo di storia e entrano di diritto nella mitologia del quartiere. In tre anni vincono cento, forse centocinquanta partite, senza perdere mai, e nel dicembre 1973 segnano l’impresa più ambita, una clamorosa vittoria sulla Banda Roja del River Plate, i giovani del club più ricco e potente della capitale. Vincono 5-4 e la partita la risolve Maradona superando sette avversari sette, prima di depositare il pallone in rete. Si divertiva un mondo allora, Dieguito, anche se già diventava famoso, anche se a dodici anni gli avevano fatto la sua prima intervista televisiva.
TUTTO SUBITO
Quand’è che tutto ha preso a cambiare? Chissà. Forse tra l’ottobre del ’77 e il gennaio del ’79.
“Immaginate tutto quello che mi è accaduto: il debutto in Prima divisione, dieci giorni prima di compiere i miei sedici anni. E quattro mesi dopo la convocazione in nazionale, contro l’Ungheria. Quando entrai in campo e sentii l’ovazione del pubblico credetti che tutte le grida fossero per me. La verità è che nessuno si era accorto della mia presenza, probabilmente. Ma a me piaceva crederlo…. E poi il Venezuela con la nazionale giovanile, e di nuovo nella nazionale maggiore, quando la stampa mi chiamò “il Pelé bianco degli argentini”. E la delusione quando fui escluso dai mondiali del ’78. Piansi di rabbia, quella volta. Volevo spaccare il mondo e abbandonare il calcio. Mi salvò mio padre. E poi di nuovo nella nazionale maggiore, per aprire un nuovo ciclo, dice Menotti; aprirlo con me. Non credo che a molti sia capitato lo stesso“.
L’adolescenza è parola priva di senso, per Maradona. Ha dovuto crescere presto.
“…ho dovuto capire in gran fretta cose che avrebbero richiesto più tempo. Nel calcio sono stato costretto a vedere cose che non mi piacevano. L’invidia per esempio. Io non sapevo cosa fosse. Mi chiudevo in una stanza e piangevo. Non ho molti amici io….“
E poi sono arrivati i primi contratti pesanti. Quelli cambiano tutto naturalmente.
“…no, cioè sì. Certo qualche cosa è cambiato. Io ho sempre avuto un solo pantalone, lo tenevo da conto per il sabato, poi, di colpo ho potuto comprarmi di tutto, camicie, scarpe. Il guardaroba si è fatto ricco. E poi è venuta la fidanzata, Claudia, che ho conosciuto quando da Fiorito mi sono trasferito alla Paternal. E poi, più importante di tutto, ho potuto finalmente offrire ai miei questo…“.
“Questo” è una spiaggia di Atlantida, in Uruguay, dove si svolge il campionato giovanile sudamericano. A sette mesi dal mondiale giovanile che si svolgerà in Giappone. “Questo” sono le prime vacanze che dona Tota e Chitoro abbiano mai fatto in vita loro («Sapesse quanto abbiamo lottato mio marito ed io! Non avrei mai immaginato questi giorni»). Diego ha affittato una casa per i suoi e una per l’amico Jorge.
“…io non dimentico le mie origini. Villa Fiorito è sempre il mio presente, non è il passato. Dispongo di più soldi? Meglio. Prima riesco a sistemare la mia famiglia, meglio è. Ma io non firmerò mai un contratto pubblicitario, se con esso volessero impadronirsi della mia vita…“
Il gennaio 1979. Sotto l’abile regia di Jorge Cyterszpiler, il ragazzino poliomielitico amico d’infanzia che si era improvvisato giovane manager, feroce custode dell’immagine e degli interessi di Diego, avevano creato la Maradona Produciones. Non ha vent’anni, e, senza mai aver vinto neanche una scudetto, il giovanotto che la vox populi ha da tempo indicato come l’erede di Pelé, si avvia a diventare quello che la ragione sociale della nuova società promette (o minaccia, fate voi).
UN UOMO, UN IMPRESA
“…se dovessi accorgermi, quando avrò compiuto i ventidue anni che il calcio ha smesso di appassionarmi, abbandonerei tutti. Non metterei piede neppure per un solo minuto in un campo da gioco se dovesse venirmi meno la voglia di giocare…“
Ma qualche volta ti sfiora l’angoscia che il mondo è più forte di te, che in qualche modo ti sta fagocitando. Nell’aeroporto di Lagos, in Nigeria, i calciatori del Boca Juniors bivaccavano stanchi, in attesa del viaggio estenuante che li avrebbe riportati in patria, in un giorno d’ottobre del 1981. Era stata una settimana massacrante. Una trasferta in Costa d’Avorio senza senso e mal organizzata, per giocare un quadrangolare ad Abidjan.
L’ultimo luogo sulla faccia della terra dove disputare un incontro di calcio, avevano pensato tutti. L’ultimo angolo al mondo dove trovare tifosi e cacciatori d’autografi. Invece Diego Armando Maradona, 21 anni, unico titolo al suo attivo un campionato del mondo giovanile, aveva trascorso tutte le ore passate lontano dallo stadio chiuso in una stanza dell’Hotel lntercontinental. Aveva dovuto farlo, per sfuggire all’assedio cominciato appena lui aveva messo piede in terra africana. Neanche i pesanti manganelli dei poliziotti avevano potuto nulla contro l’orda umana che si era riversata all’aeroporto e sulle strade per vedere il ragazzo argentino venuto da Villa Fiorito.
Così quel giorno d’ottobre, all’aeroporto, mentre aspetta il volo del ritorno, qualcosa si rompe nell’animo del campione. «Voglio mollare», confessa di punto in bianco al giornalista amico che gli siede accanto. Lo dice con la tranquillità apparente che rende forza e verità all’argomento più assurdo.
«Voglio mollare il calcio. Lo so, mi dirai che sono impazzito, ma non è vero. Ho maturato la decisione durante questa trasferta. Sono stanco, desidero che la gente si dimentichi di Maradona, che i giornali non ne parlino più, che mio padre non debba sopportare insulti quando è allo stadio, e che a me non vengano gridate parolacce sulla strada a causa di quello che pubblicano i giornali. E tante altre cose… Sembra che io sia colpevole anche delle recenti inondazioni. E allora lascio il professionismo».
Solo quello però. Perché all’altro calcio, quello che si gioca nelle strade, nei campetti di periferia e ha per protagonisti i bambini Diego dice di non voler rinunciare mai. Non è il pallone che lo ha nauseato, né l’entusiasmo della gente sulla strada («l’affetto dei negri mi ha toccato l’anima»), ma le critiche in patria.
ANIMA FRAGILE
Perché Maradona non ha mai sopportato le critiche. Le critiche sono l’inverso dell’amore, quello che aveva da bambino prodigio, e da adolescente povero ma vezzeggiato da un quartiere prima, da una nazione poi. Le critiche sono la cattiveria del mondo, sono senza senso. Lui non ne ha colpa. E’ un momento particolare.
Da un anno ha lasciato l’Argentinos per il Boca Juniors, il grande club cittadino che aveva vinto la concorrenza di Barcellona, Napoli e Juventus, anche grazie a una sollevazione nazional-patriottica per mantenere in patria il giovane talento. E naturalmente i suoi vecchi tifosi non l’avevano presa bene. Per di più il Boca è una potenza calcistica nazionale, e soffre dunque l’accesa rivalità del River Plate e dell’Indipendiente. Una rivalità che, da quando si gioca al calcio, sotto tutti i cieli, si sfoga sul giocatore avversario.
Il Boca con Maradona si avvia a vincere il campionato, l’entusiasmo dei tifosi è alle stelle, ma le casse della società sono vuote, disastrate da un acquisto che non avrebbe mai potuto permettersi. Così prima o poi Maradona dovrà emigrare in Europa. Lo sa lui, lo sa la società e lo sanno i tifosi, che naturalmente sono in effervescenza. Il padre viene insultato per la strada, la madre litiga con le vicine di casa. E tutti sono trattati da traditori. Anche questo è la norma. Ogni calciatore professionista lo sa. Ma Maradona è un genialoide istintivo che non ha mai avuto molto del professionista. Uno per cui il calcio è passione. E l’amore gli è dovuto. Qualche volta lo rende. O sembra renderlo.
IN SPAGNA TRA BARÇA E MUNDIAL
Bacia la terra del Camp Nou, quando infine approda in Spagna, alla vigilia dei mondiali, un anno dopo lo sfogo in terra d’Africa. Bacia la terra come un conquistatore. O come uno che è finalmente arrivato a casa.
Ai giornali, e ai tifosi da quest’ultima versione. I catalani vanno in visibilio. Aspettano il nuovo Cruijff per mettere fine al dominio dell’odiato Real Madrid. Maradona indossa per i fotografi la maglia blaugrana, prende visione del lussuoso albergo dove avrà la sua temporanea residenza in attesa della villa faraonica, e poi riparte a raggiungere il ritiro della nazionale argentina.
La spedizione ai mondiali non è molto fortunata. Quella di Diego è un fallimento. Lui che aveva pianto di rabbia quattro anni prima perché Menotti gli aveva impedito di diventare campione del mondo alla stessa età di Pelé, ora piange per il trattamento di Gentile, per il delitto di leso calcio che il difensore italiano commette sui campi di Spagna. Perché in fondo lui pensa quel che da tempo gli argentini scrivono: «Maradona è il calcio». La rabbia la sfoga contro i brasiliani, con un fallo gratuito che non è nel suo stile, sempre estremamente corretto in campo. E si becca un’espulsione.
«Alfredo, lei è stato espulso molte volte?», aveva chiesto il giovane “pibe de oro” un giorno d’ottobre del 1980 ad Alfredo Di Stefano. Era mezzogiorno, e il sole giocherellava sui tetti delle case basse del rione Villa del Parque, a Buenos Aires. Loro due sedevano nella saletta accogliente del ristorante “La Ronda”, il mito del calcio argentino che aveva fatto grande il Real Madrid e il giovane che in altre forme per altre vie già ne aveva raccolto l’eredità.
«Lei è stato espulso molte volte, Alfredo?».
«No, in verità poche. Mi ricordo una volta, sul campo del River, quando giocavo in quarta divisione. Mi arrabbiai tanto con l’arbitro che finii con l’applaudirlo».
«Incredibile, è successa la stessa cosa anche a me, in Settima divisione. La partita era finita. Mi avvicinai all’arbitro, lo applaudii e gli dissi: “Le faccio i miei complimenti, continui così e diventerà un arbitro internazionale”».
Aveva quindici anni. Era la fine del campionato, e la squalifica la scontò la stagione seguente, in Prima divisione, perché nel frattempo l’Argentinos lo aveva chiamato in prima squadra. Un singolare inizio. Un inizio alla Maradona.
CATALOGNA TERRA AMARA
Anche l’esordio nel campionato spagnolo porta i segni classici di Diego, i segni del genio. Gol folgoranti e invenzioni geniali sull’erba del Camp Nou che di arte calcistica si intende. Poi il giocattolo comincia a incrinarsi, fra insofferenze e incomprensioni. E inopinatamente si rompe. Un’epatite virale lo tiene tre mesi lontano dai campi di gioco. Diego è disastrato. Dunque anche gli dei si ammalano. Quando riprende fa ancora in tempo a regalare pièces di rara bravura. E una Coppa di Spagna, strappata al Real Madrid.
Ma non arriva lo scudetto. E questo aggiunge fuoco al malumore che intanto cova sotto la cenere. Perché gli orgogliosi catalani, che avevano strappato a suon di miliardi la nuova meraviglia del pallone a concorrenti del calibro di Gianni Agnelli, non si accontentano di meno. Anzi avrebbero voluto qualcosa di più. Dall’uomo che è costato come nessuno mai nella storia del calcio si aspettano un replicante di Johann Cruijff. E non solo su un campo di calcio. Invece Diego è tutto ciò che l’altro non è mai stato: umorale, appassionato, caciarone, prepotente, volgare.
«Qui noi abbiamo visto re, presidenti, Primi ministri. Ma uno come lui…», la voce di Francisco Molina, alla reception dell’Avenida Palace, uno degli alberghi più esclusivi di Barcellona, si perde in un nulla che sottintende un mare di storie inconfessabili alle orecchie dei giornalisti che lo interrogano. Diego ha requisito tutto il primo piano per farne il quartier generale della sua corte, durante quattro mesi. Quattro mesi di intollerabile tumulto per le sale di marmo e di stucchi dorati, e la sensibilità raffinata del personale. «E’ uno che viene da molto basso, credo. E si prende per più che un re». Tutto il resto, le bravate, le risse, le orge di cui la città sussurra, il signor Molina signorilmente le tace.
La società all’inizio lo difende. Lo accontenta in tutto, anche nel cambio dell’allenatore: via Lattek, e arriva Menotti. Il vicepresidente Casas dice di amarlo come un figlio, per questo è così amareggiato quando deve gettare la spugna: «E’ cambiato. Tanto. Lui è come un albero che ha bisogno di un tutore per rigare dritto. Ma non gli si può più parlare, circondato com’è dal suo clan». Il suo famigerato clan, per il mondo. La sua famiglia, per lui. E, come dice mamma Tota, «se arrivano i soldi, è naturale, è bello, farne partecipare la famiglia».
La famiglia non si conta all’anagrafe. La si raccoglie nelle suade polverose del quartiere, quello dove non abiti più, e magari la cerchi anche più lontano, a settecento chilometri da Buenos Aires, dove, seguendo le orme di tuo padre, mantieni legami con la gente di Esquina, con “o Soldadito” che ti ha seguito in Spagna. E con “el Mudo” un giovane che hai cercato in ogni modo di far parlare portandotelo a Buenos Aires perché aveva bisogno di cure continue.
ln ogni modo Barcellona non ama Diego. E Diego non ama Barcellona, questa città così diversa, così lontana dall’anima latina che lui pensava di trovare. E’ che i catalani sono il Nord della Spagna, una sorta di Lombardia, ricca, cosmopolita, laboriosa. E di gusti raffinati. Figuriamoci cosa può pensare degli amici argentini di Diego, quelli che eran cresciuti con lui nelle favelas, e la sua villa che fa tanto Hollywood! E così Diego diventa inquieto, sognando altri lidi, altri amori.
La seconda stagione comincia male. Si lamenta che i compagni lo boicottano (era già successo al Boca, succederà ancora, a Napoli). Diserta gli allenamenti, e anche questo è un ritornello nella sua vita. Era ancora bambino, e già la detestava quella clausura inutile che nulla aggiungeva al suo talento e ledeva la sua dignità, tenendolo intanto lontano dalla famiglia. Il “Goicoicidio”, così un giornale chiamerà l’entrata assassina di Goicoetchea che frattura il malleolo e strappa i legamenti di Diego Armando Mozart Maraviglia Maradona (eran prodighi, almeno, di fantasiose espressioni gli spagnoli), si consuma al Camp Nou il 23 novembre 1983. Il recupero è lento e penoso, il ritorno per niente esaltante. Il Maradona spagnolo sembra aver perso la magia. E allora le critiche fino ad allora sussurrate nei salotti e per le ramblas diventano un turbine che investe l’orgoglio luciferino di Maradona. Perché ormai sfociano nel razzismo. Scomparsa la magia del calciatore resta solo il sudacas, il sudamericano, che i catalani disprezzano.
APPRODO AL GOLFO
E’ tempo di cercare altri lidi, altri porti, su altri mari. Anche perché lo esigono le finanze che le spese folli di Diego e gli investimenti sballati di Jorge Cyterszpiler hanno ridotto in uno stato pietoso. L’approdo è il Golfo più famoso del mondo. Lo vede una sera di luglio, il 4 luglio 1984. Su uno yacht in navigazione tra Capri e Mergellina firma il contratto che lo lega al Napoli per un miliardo e mezzo di ingaggio annuo, due miliardi come percentuale sul trasferimento, il 25 cento sugli incassi, premi doppi. Il resto, cioè il più, verrà da innumerevoli contratti pubblicitari. Ci sono Ferlaino e Gianni Punzo per il Napoli, e i fratelli Jorge e Silvio Cyterszpiler a curare gli interessi di Diego. Quando tutto è fatto, e le tre copie del contratto firmate, Diego si allontana da tutti, si stende su una lunetta dell’imbarcazione e rimane a guardare la città illuminata che come un miraggio si avvicina e si allontana.
La realtà lo colpisce il 5 luglio, a mezzogiorno. E barcolla sotto il peso di una passione primordiale che sessantamila persone gli riversano addosso allo stadio San Paolo. Sessantamila persone accorse solo per assistere alla presentazione di un calciatore.
Non si era mai visto nulla di simile. Barcolla e si appoggia alla donna che lo accompagna. «Aiutami Claudia!. Aiutami a sopportare quest’onda d’amore. Aiutami a non deluderli. Aiutami, perché son così simili a me»! Le facce indistinte imparerà a conoscerle nei giorni a venire, fuori dallo stadio, in ritiro, in pizzeria, nelle bisbocce notturne, nelle arterie eleganti e nei vicoli della città vecchia. Anzi, li riconosce. Perché li ha visti da sempre, nelle strade polverose di Villa Fiorito, nei ritrovi argentini dove va a ballare il tango, nella miseria di Esquina. Per un lungo momento sereno il tarlo che lo rode si placa dentro. Finalmente è arrivato a casa.
Casa è dove ti cantano «Oh! mamma, mamma, mamma, sai perché mi batte il corazon. Ho visto Maradona, innamorato son». Casa è dove vive gente afflitta da mille problemi che cerca di scordarli al suono di un mandolino. Gente allegra, gente generosa, gente disperata, gente disprezzata. Com’è che diceva quello striscione sugli spalti di San Siro? «Hitler, ti sei dimenticato dei napoletani!». Faceva il paio con quei cori razzisti in quel di Verona. Dio, che rabbia. Non era stato zitto Diego, in nessuna occasione, mai. Quelle, in fondo son sempre state le battaglie che preferisce. Con un po’ di vittimismo, forse, e un po’ di astuzia.
SOLO CONTRO TUTTI
L’astuzia la usa sapientemente durante i mondiali del 1990 quando porta in finale una disastrata Argentina. E piange di rabbia quando l’arbitro regala ai tedeschi la vittoria. Piange per quei fischi al suo inno che piovono giù dalle gradinate di quello stadio faraonico che è costato una barca di soldi. Si erano rifatti il trucco gli italiani, e si sentivano nel primo mondo. La sua Argentina invece l’avevano trattata peggio del Camerun. Al San Paolo no, però. Al San Paolo per lui piovono solo applausi. E qualche fischio per gli italiani. D’altronde dove mai avrebbe potuto battere i superfavoriti azzurri se non al San Paolo? Avevano gridato allo scandalo, al delitto di lesa patria, dato la colpa alla diplomazia sporca di Maradona. E allora? Cosa aveva detto mai di falso? Cosa hanno mai in comune gli yuppies eleganti della squadra italiana con i ragazzotti dei bassi di Napoli? Lui, Diego, è molto più napoletano di tutti loro.
Lo è diventato in quei primi mesi precari in cui si è installato all’Hotel Royal, sulla via Partenope, e la sera va in pizzeria, sempre la stessa. Dicono, hanno detto poi, che i giorni e le notti li passava tra le orge e la droga. Ma le donne di poca virtù e di molto cuore che frequentano le vie del quartiere raccontano altre storie. «Cenava e poi veniva a cercarci perché gli tenessimo compagnia. Non era questione di orge. Piuttosto si discuteva tutta la notte. Un ragazzo gentile, che aveva paura della solitudine».
Non c’è solitudine a Soccavo, nel centro sportivo del Napoli, dove le camionette della polizia devono stazionare in permanenza per sedare i tumulti e dirigere il traffico. Una folla a seguire non l’allenamento ma semplicemente ogni mossa dell’uomo del destino. Quello che dovrà invertire il corso della storia e sovvertire le analisi di certa “sociologia” che vuole Napoli costituzionalmente incapace di inserirsi nel terreno di caccia riservato alle grandi società del Nord. Il primo anno è un deludente 8° posto, addolcito dal raggio della speranza l’anno successivo: terzi.
RE DI NAPOLI, MA A CHE PREZZO?
Lo scudetto, il primo scudetto della storia del Napoli, arriva nel 1987, alla fine di una stagione trionfante con Diego che ha preso letteralmente per mano la squadra. E’ il leader indiscusso, naturalmente. Lo è diventato un giorno di gennaio 1985 quando torna da una vacanza ristoratrice nella sua terra, con la sua famiglia, e trova il Napoli in ritiro a Vietri sul Mare. Dal martedì alla domenica. Uno di quei ritiri che si fanno quando le cose non vanno bene. Quei ritiri che per Maradona hanno sempre avuto il sapore dell’immeritata punizione.
Li odiava anche il sedicenne che l’Argentinos aveva appena aggregato alla prima squadra. Ora è maggiorenne, ricco e famoso. E le fortune della squadra dipendono da lui. Può dunque fare la voce più grossa e non permette a nessuno di calpestare la sua dignità, non rinuncia alla sua libertà, neanche per tutte le Mercedes e le Ferrari di cui Ferlaino gli va riempiendo il garage. Quel ritiro è un insulto alla dignità umana. Così parlò Maradona. E ogni discorso di ordine pratico passa in seconda linea. Che importano le colpe della squadra e i motivi dei dirigenti? Per Maradona è sempre stato giusto quello che gli sembra giusto. Magari quello che gli fa comodo credere giusto. I compagni osannano, i dirigenti ingoiano, e i tifosi appoggiano. Sempre.
Ma Maradona, il miglior Maradona, quel che prende rende. Rende in termini di vittorie. Lo scudetto appunto. E subito dopo la coppa Italia. Alè Napoli. Il vento è cambiato. Alè. Gli scricchiolii, o almeno le loro avvisaglie, arrivano l’anno seguente. E’ un secondo posto intriso di veleno il campionato 1987-88. I cinque punti che il Napoli vanta sui più immediati inseguitori a cinque giornate dalla fine si stanno liquefacendo sotto lo sguardo incredulo dei più. Sfumano nelle faide di spogliatoio, nelle fughe di Maradona, nelle divisioni di una squadra che è in maggioranza con Diego, ma che in qualcuno comincia ad avvertire il disagio di un modo di fare che è un insulto ad ogni civile convivenza.
Ma nel momento cruciale, nella sfida diretta con il Milan, che può decidere tutto, nel San Paolo che assiste attonito al vantaggio dei rossoneri, Maradona, solo con se stesso, con un pallone tra i piedi e una punizione da battere, ritrova per un momento il bambino che giocava giocava. Una punizione che può valere uno scudetto, che può cancellare tante terrificanti ipotesi. Concentrato, raccolto, Diego esita un attimo, poi la rincorsa breve, ed è gol. Il gol del pareggio, il gol dell’illusione. Poi verrà il diluvio dei gol rossoneri, e, a seguire, l’incredibile sconfitta interna col Verona, e quella disgraziata trasferta di Firenze alla quale Maradona si rifiuta di prendere parte accusando acciacchi che altre volte non lo hanno mai fermato, abituato a scendere in campo nelle occasioni che contano, quelle care al suo cuore, gonfio di iniezioni e di analgesici.
ACCUSE E TRADIMENTI
E allora fioriscono le accuse prima, le ipotesi poi. Le accuse dei tifosi in questo caso dicono sempre “tradimento”. Quelle del pentito Pugliese raccontano di un Maradona nelle mani di una camorra che aveva troppo da perdere, con le scommesse clandestine, da una vittoria del Napoli. E così decide, e ordina, di regalare lo scudetto al Milan di Berlusconi. Racconta pure, il pentito Pugliese che, dopo la sconfitta col Verona, Diego e Ciro Ferrara volarono in Germania per festeggiare l’apertura di un locale notturno di un amico camorrista.
Si rincorrono le accuse in questa stagione italiana del fango e dei veleni dove pentiti veri si aggiungono a pentiti fasulli e la verità è un enorme buco nero. C’è la verità delle fotografie, quelle che ritraggono Maradona con noti camorristi, nei loro locali, alle loro feste di nozze, ai loro battesimi. E c’è la verità della gente, degli irriducibili della curva e degli intellettuali del Te Diegum che su una cosa almeno concordano: quali che siano state le colpe e le frequentazioni di Maradona, lui mai avrebbe venduto una partita, tradito il calcio. Perché il calcio è la parte migliore di sé, quella che assorbe e batte tutte le altre.
Forse Napoli, una certa Napoli, lo ha aiutato a sbagliare, forse in un altro ambiente, tra diverse genti, i vizi dell’uomo non avrebbero avuto così clamorosamente la meglio sulle sue virtù. Forse sarebbe stato meglio se si fosse allontanato al termine della prima stagione gloriosa, quando a circondarlo erano ancora gli amici d’infanzia e non la fauna innominabile che ad essi si è sostituita poi. E’ un sussurro timido che corre nei vicoli di Napoli, subito soffocato dalle ragioni dell’amore e delle cifre. Le cifre parlano ancora di un secondo posto nell’89. E quella coppa Uefa vinta a Stoccarda che resto l’unico trofeo internazionale nella bacheca della società partenopea. Nella città dei miracoli il campione dei miracoli fece in tempo anche a rivincere uno scudetto, nel 1990. E poi anche la Supercoppa di Lega. Sono gli ultimi momenti felici.
La ragnatela di vizi, pericoli e minacce si va ormai chiudendo intorno a lui. Ne sfugge la sera di Pasqua del 1991, la cocaina rintracciata nelle sue urine al termine di un Napoli-Bari di qualche settimana prima gli ha procurato una lunga squalifica. Si imbarca a Fiumicino, nella notte, e in Italia non tornerà più. Lascia un figlio non riconosciuto, cui è rimasto in destino di chiamarsi Diego Armando e di avere addosso fotografi e telecamere fin dai primi vagiti col pallone; lascia una marea di rimpianti e tante polemiche. Forse i tentacoli marci della città minacciavano davvero la sua vita, come disse all’arrivo in Argentina. Certo l’altra Napoli ha messo il lutto per quella perdita…
PAURA DEL DOPO
Il dopo, è una lunga catena di strappi sul drappo sempre più lacero del campione. L’arresto per droga, dopo il suo ritorno in Patria, il recupero agonistico col Siviglia, le nuove polemiche e il nuovo rientro in Argentina, nel Newell’s Old Boys, da cui fuggirà dopo qualche mese. E l’invocato ritorno in Nazionale, per regalare con una magia in assist nello spareggio con l’Australia l’approdo al Mondiale di Usa 94. Infine, il Mondiale. Diego torna sulla scena da giocatore disoccupato, tirato a lucido, ferocemente calato di peso in poche settimane per consumare una disperata vendetta. L’urlo inumano nella telecamera dopo lo splendido gol alla Grecia e le prodezze contro la Nigeria sono solo il preludio a una nuova squalifica: viene cacciato dal Mondiale per doping assunto in funzione dimagrante.
Altri quindici mesi, quindi altri ritorni, in panchina, nel Mandiyù e poi nel Racing, infine in campo coi colori del Boca, per nuove polemiche e confessioni a base dell’eterna polvere bianca. Con la fedelissima Claudia sempre al fianco e le figlie Dalmita e Giannina ad accompagnare il suo susseguirsi di declini e risalite. Ma questa, come detto, è tutta un’altra storia, la storia che ci piace, che amiamo, quella di Maradona giocatore e incantatore finisce qui.
E il cuore non può che gioire nel vedere che l'”altro” Maradona, quello del dopo-calcio, dopo aver sfiorato e forse toccato il baratro, ha superato il suo diavolo più pericoloso, la droga.
UN DIO DEL CALCIO
Maradona era un piccolo Mozart, capace di trasformare in musica divina i percorsi del pallone, tenendolo incollato al suo piede sinistro contro ogni legge di gravità. Per lui vale quello che Gertrude Stein raccontava di Picasso: «Era nato facendo disegni; e non disegni da bambino, ma disegni da pittore» . Cosa vuole dire? Significa che Diego Armando Maradona non ha mai imparato da nessuno le cose fenomenali che faceva vedere in campo. Baciato da una scheggia di infinito, se l’ è ritrovate addosso, nel Dna. E poi, molto semplicemente, le trasformava in palleggi, dribbling, assist, veroniche e gol. «Quando stavo bene, in campo, sapevo di poter fare qualunque cosa», ripete ancora adesso Maradona. E non sta barando. C’è anche una conoscenza che nasce dal montaggio di pezzi di vita, e brandelli di prodezze, sminuzzati e rimessi assieme.
Alla fine del lavoro, resta evidente una cosa: Maradona non è stato un esempio di vita, ma un dio del calcio, questo sì. Si placava entrando in campo, mettendosi a giocare, divertendosi come un bambino. Quello era il suo modo di sospendere il tempo, lasciare il mondo da parte e mettersi in tasca l’immortalità. Fosse stato per lui non avrebbe mai smesso. Il campo era il suo elemento, là la sua sindrome di onnipotenza aveva un riscontro tangibile. Fuori era tutta un’ altra cosa. Era ed è: come togliere una foca dall’acqua e vederla muoversi lenta, inadeguata e pesante sulla terra ferma che, invece, è l’habitat più frequentato dagli umani. Stessa cosa.