L’Arena di Milano, il Filadelfia di Torino, il Testaccio di Roma e molti altri stadi avrebbero storie bellissime da raccontare. Storie di un calcio che non c’è più e che molti di noi non hanno mai visto. Se fosse possibile, per una volta, far rivivere gli stadi perduti…
ANTEFATTO
Sbarcato da clandestino sul finire dell’Ottocento, dopo essere stato a lungo imbucato nella stiva di chissà quale nave inglese, il pallone cominciò a rotolare tra gli italiani con l’umiltà e la circospezione dell’ospite indesiderato. Il concetto di sport popolare, inteso come distrazione dagli impegni lavorativi (il cosiddetto diporto non è che lo spostarsi altrove, il dedicarsi ad altro), non era ancora stato elaborato in un paese in cui la miseria e il bassissimo tasso di scolarizzazione rendevano un lusso inconcepibile l’idea stessa del “tempo libero”. Le società ginnastiche, sorte in molte città del Nord nel corso del XIX secolo – unica forma di associazionismo ricreativo -, erano in realtà consorterie ristrette assolutamente incapaci di svolgere una qualsiasi funzione aggregante. Cosa che invece riuscì fin dal primo momento a quel singolare aggeggio di cuoio, attorno al quale si strattonavano incuriositi i marinai di Genova, di Napoli, di Palermo.
Dovette aspettare a lungo, il foot-ball, prima di abbandonare la banchina. Le società ginnastiche storcevano il naso di fronte al giocattolo d’importazione così poco confacente alle compassate abitudini dei loro soci. Quando si decisero ad accoglierlo, gli attribuirono un ruolo marginale: un’arruffata baraonda nella quale si facevano coinvolgere di tanto in tanto podisti e ginnasti al termine dello loro – serie – esercitazioni. Il passatempo del passatempo. E dove invece nacquero – come a Genova – società calcistiche, fu per iniziativa di marinai o studenti inglesi, incapaci di sopravvivere lontano da casa senza il loro amato foot-ball. In questo modo comunque, il pallone abbandonò i porti e trovò i primi campi.
Niente a che vedere, sia chiaro, con i curatissimi prati inglesi: ci si doveva accontentare delle immense spianate delle piazze d’armi o dei terreni sconnessi e spelacchiati della periferia. Lo scarso pubblico, amici o aspiranti giocatori, si sistemava alla meglio attorno al campo: qualcuno portava la sedia da casa. Alla finale del primo campionato italiano di calcio, giocato a Torino in una sola giornata (l’8 maggio 1898) assistettero 153 persone, sistemate su una rudimentale tribuna di legno.
Cornice che divenne abituale nei primi vent’anni del nuovo secolo: chi non trovava posto sulla tribunetta seguiva la partita in piedi, a bordo campo. Solo una cordicella divideva il pubblico dai giocatori. Gli spogliatoi? Un capanno di legno, se c’era. Altrimenti si arrivava già vestiti di tutto punto, mutandoli e scarpe chiodate comprese. A Roma i pionieri della Lazio risolvevano il problema della doccia tuffandosi nel Tevere.
Quando la federazione ha la bella pensata di riunire i migliori giocatori italiani in una rappresentativa nazionale – 1910 – l’unico contesto adatto per accogliere un pubblico un po’ più numeroso del solito è l’Arena di Milano, monumento alla grandeur napoleonica, datato 1805. Solo negli anni Dieci sorgono impianti vagamente somiglianti a stadi, in grado di ospitare quattro-cinquemila spettatori (l’Inter si trasferisce al campo di via Goldoni, la Juventus in via Marsiglia, il Bologna allo Sterlino, la Lazio alla Rondinella): il calcio non è più un divertimento da dopolavoro.
CALCIO DI REGIME: NASCONO I COLOSSI
Ma è alla metà degli anni Venti, quando il regime fascista comprende quale valore può avere lo sport popolare come veicolo di propaganda, che il calcio diventa un fenomeno di massa. Tra il 1926 e il 1934, l’anno dei Mondiali italiani, sorgono i primi grandi stadi: il Littoriale a Bologna, il San Siro a Milano, il Filadelfia e il Comunale a Torino, lo stadio del PNF e quello di Testaccio a Roma, l’Ascarelli a Napoli, il Berta a Firenze. Accanto ai colossi, grazie a un piano di agevolazioni che prevedeva la costruzione di un campo da calcio e degli impianti per l’atletica alla modica cifra di 150.000 lire, proliferarono le piccole strutture sportive.
Si calcola che nel 1930 i campi costruiti dai comuni fossero circa 2.500. Di questo enorme progetto restano ancora oggi tracce visibili. Molti dei grandi stadi sorti in quel periodo sono tuttora utilizzati (si pensi a San Siro e agli stadi di Bologna e Firenze). Altri invece sono stati accantonati: quelli che non sono stati demoliti passano in silenzio le domeniche che una volta li vedevano protagonisti. Se fosse possibile, per una volta, riaccenderne il boato, avrebbero storie bellissime da raccontare.
Storie di un calcio che non c’è più e che molti di noi non hanno mai visto. Se fosse possibile, per una volta, far rivivere gli stadi perduti…
L’ARENA DI MILANO
II sogno di Napoleone
Costruito nel 1805, è il più antico impianto d’Italia e ha tenuto a battesimo la Nazionale. Ma prima delle giocate di Meazza ospitava corse di bighe e serate danzanti. E persino battaglie navali…
E’ il più antico stadio d’Italia. Più antico del calcio, persino. Quando Napoleone (capito bene, Napoleone Bonaparte) diede incarico all’architetto Luigi Canonica di mettere mano al progetto di un’arena, aveva in mente – con la modestia che gli era abituale – di ricreare le atmosfere perdute degli anfiteatri romani. E l’Arena Civica di Milano, inaugurata nel 1805, tenne fede alle aspettative dell’Imperatore. Così, tra i marmi bianchi e i colonnati neoclassici trovarono degna ambientazione parate militari, corse di bighe e addirittura naumachie, vere e proprie battaglie navali, possibili grazie all’allagamento della cavea centrale.
Dopo la Restaurazione, gli austriaci non disdegnarono il lascito napoleonico. Che nelle notti invernali si trasformava in un’enorme salone delle danze a cielo aperto in grado di ospitare favolose feste sul ghiaccio a ritmo di valzer. Solo agli albori del Novecento l’Arena diventa teatro di avvenimenti sportivi: il 30 maggio 1909 il primo giro ciclistico d’Italia approda proprio a Milano ed è l’Arena a incoronare il vincitore, Luigi Ganna. Un anno dopo, il 15 maggio 1910, scende in campo per la prima volta una rappresentativa Nazionale di calcio: la commissione tecnica della Federazione convoca 22 giocatori e sceglie i titolari nella maniera più semplice. Partitella a ranghi misti: chi vince gioca il match vero, che vede i “bianchi” (l’azzurro doveva ancora venire) opposti alla Francia. Partita senza storia: l’Italia vince 6-2 e i quattromila presenti applaudono l’eroe del giorno, il milanista Lana, autore di una tripletta.
Nel frattempo, a Milano il pallone comincia a rimbalzare in direzioni opposte: da una parte il Milan, dall’altra l’Internazionale, fondata nel 1908 proprio da un gruppo di milanisti dissidenti. I due club hanno i rispettivi campi e non utilizzano lo storico impianto napoleonico, giudicato fin troppo imponente per un gioco che all’epoca non richiamava ancora le grandi folle. Ma l’Inter, che ha il suo quartier generale prima in Ripa Ticinese e poi in via Goldoni, si trasferisce all’Arena per le partite più importanti. E anche quando, nel 1926, viene costruito il grande e moderno stadio di San Siro (capace di 35.000 posti), l’Ambrosiana – come venne ribattezzata durante il regime – continuerà ad alternare l’Arena al Campetto di via Goldoni, lasciando il colosso di fuori porta ai cugini rossoneri. Potere della superstizione, come no: quando, l’8 dicembre 1929, la Triestina batte a sorpresa i nerazzurri all’Arena, Meazza e compagni rifiutano anche il vecchio stadio di Napoleone.
D’ora in avanti – dicono — giocheremo solo in via Goldoni. Peccato che sei mesi dopo, il 15 giugno 1930, durante una partita col Genoa il crollo improvviso della tribuna causi il ferimento di un centinaio di persone e renda indisponibile anche la vecchia tana nerazzurra. Resta da giocare l’ultima gara interna di un campionato che sta per consacrare proprio l’Inter campione d’Italia. Ma si può tornare all’Arena per un match tanto delicato che non si può. Meglio accettare l’invito dei cugini ed esordire sul terreno di San Siro. Scelta giusta: il 2-0 sulla Juve vale il terzo scudetto.
Debitamente ristrutturata, l’Arena torna di moda nel 1933. Il 6 ottobre l’Ambrosiana prende in gestione l’impianto, impegnandosi a versare al comune di Milano il 5% dell’incasso di ogni partita più cento lire al giorno «quale contributo per le spese di riscaldamento delle docce e degli spogliatoi». L’Inter – messe da parte le superstizioni – ritrova il suo covo, dove rimarrà per tredici anni, fino al 1947, vincendo altri due scudetti e una Coppa Italia. Poi, inevitabile, il nuovo trasloco a San Siro.
Da allora l’Arena ha vissuto rari giorni di gloria: ha riassaporato l’atmosfera del grande calcio nel 1986, quando proprio in quel contesto hi presentato (con tanto di elicotteri ed effetti speciali) il primo Milan di Berlusconi. Intitolata al grande Gianni Brera nel 2002, attualmente è sede delle gare interne dell’Amatori Milano, storico club rugbistico cittadino.
IL FILADELFIA DI TORINO
II campo dei miracoli
Lo stadio che ospitò le imprese di Valentino Mazzola e del Grande Torino resta il luogo sacro del tifo granata, anche oggi che è stato demolito. Il sogno è di riportarlo a nuova vita
La tromba di Bormida, il capostazione, e le maniche di Valentino Mazzola, il capitano. Se è vero che le leggende si alimentano anche di piccole cose, quella del Grande Torino e del suo tempio, il Filadelfia, ha i colori vivaci delle immagini semplici. Dicono quelli che hanno potuto respirare l’aria elettrica del Filadelfia che la magia stava tutta in un quarto d’ora: la gente arrivava per tempo, si sistemava sulle gradinate spartane della “Fossa dei Leoni” e aspettava. Aspettava il quarto d’ora del Grande Toro, miracolo seriale, sacrificio inevitabile dei malcapitati avversari. Due lampi preannunciavano la tempesta: prima il capostazione suonava la carica mentre il mormorio dei trentamila si trasformava in silenzio d’attesa. Poi il capitano si rimboccava le maniche.
E allora capivano tutti: i giocatori granata, che cambiavano pelle. Gli avversari, che mandavano giù e si preparavano al peggio. I tifosi, che pregustavano il gran sabba. Tra il 31 gennaio 1943 (Torino-Juventus 2-0) e il 23 ottobre 1949 (Torino-Milan 3-2) il Toro giocò al Filadelfia 88 partite di campionato: ne vinse 78, ne pareggiò 10. Non perse mai. E quando arrivò la prima sconfitta, la squadra dei record non c’era più, cancellata di colpo nella più straziante tragedia che lo sport italiano ricordi: il disastro aereo di Superga.
Il Filadelfia e il Grande Torino sono stati una cosa sola: non a caso il tempio non è sopravvissuto più di un decennio alla scomparsa dei suoi sommi sacerdoti. Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Castigliano, Rigamonti, Grezar, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola: l’invincibile squadra dei cinque scudetti era anche l’anima della Nazionale. Dopo la loro morte, anche la tromba del Filadelfia tacque per sempre.
La storia era cominciata il 17 ottobre 1926. Per il match contro la Fortitudo Roma il Toro si trasferisce dal campo di Corso Sebastopoli al nuovo stadio, costruito a tempo di record (poco meno di un anno) per iniziativa dell’allora presidente, Marone, anche per rispondere alla Juve che da quattro anni si era stabilita nel nuovo impianto di Corso Marsiglia. Il progetto dell’ingegner Gamba era innovativo: nasceva uno stadio esclusivamente dedicato al calcio, con le tribune incollate al rettangolo di gioco. Capienza: 35.000 spettatori. Il nuovo stadio porta decisamente bene: la prima stagione disputata al Filadelfia si chiude col Torino campione d’Italia per la prima volta nella sua storia. Titolo revocato, però: lo scandalo Allemandi annulla il trionfo e costringe i granata a concedere il bis. Al termine della stagione ’27-28 il Toro è ancora lassù e stavolta lo scudetto è assolutamente regolare.
La Nazionale sbarca per la prima volta al Filadelfia il 17 aprile 1927 per un’amichevole col Portogallo (3-1), ma il match memorabile è un altro: 13 dicembre 1931, di fronte Italia e Ungheria in una gara valida per la Coppa Internazionale, una specie di campionato europeo dell’epoca. C’è un solo torinista in campo (Li-bonatti) e ben sei juventini. Poco male: per una volta la buona stella del Filadelfia assiste anche i cugini. Apre proprio Libonatti, ma a inizio ripresa pareggia l’ungherese Avar. Passano tre minuti appena e Orsi fa 2-1, ma non basta, perché quel diavolo di Avar trova ancora il gol del pari. 2-2: finisce così? Sembrerebbe, visto che ormai il cronometro fa novanta. Ma è qui che si colloca un’impresa destinata a passare dai campi da calcio alla galleria dei luoghi comuni. Proprio al 90′ lo juventino Renato Cesarini trova il gol della vittoria. Da allora tutti le reti in extremis saranno segnate in “zona Cesarini”.
Dieci anni dopo il Filadelfia sarebbe diventato la Fossa dei Leoni, quei leoni granata che dominarono l’Italia del pallone tra il 1943 e il 1949. Poi, di colpo, si spense la luce, sul Torino e, lentamente, anche sul Filadelfia. Nel 1959 i granata scivolarono addirittura in Serie B: troppo per il campo dei trionfi. Che vide l’ultima partita il 5 giugno 1960 (Torino-Modena 3-1), prima di avviarsi a un lento e malinconico disfacimento. Nel 1997 le ruspe hanno demolito gran parte delle tribune e da allora i torinesi aspettano che il Filadelfia risorga per essere la tana dei leoni di domani. Non era, non sarà mai un campo qualsiasi.
IL TESTACCIO DI ROMA
Asso di cuori
I giallorossi ci hanno giocato solo undici anni, dal ’29 al ’40. Eppure di quel piccolo stadio all’inglese, completamente in legno, con le tribune dipinte di giallo e rosso, resta un ricordo indelebile
Tra via Monte de’ Cocci e via Zabaglia, a Roma, oggi ci sono un’officina e una rimessa per camion. Sessant’anni fa – chissà se lo sanno i meccanici che lavorano lì – c’era il cuore della Roma. Il campo di Testaccio non richiama alla memoria dei romanisti trionfi strepitosi: il primo scudetto giallorosso arrivò nel 1942 quando ormai la Roma giocava allo stadio del PNF. Eppure, resta un luogo epico, come accade spesso alle cose che si possono solo raccontare. Qualche rara foto, pochi ritagli ingialliti dei gionali dell’epoca e poi soltanto i ricordi dei vecchi: Ferraris IV e Bernardini, le tribune di legno dipinte di giallo e di rosso, la sagoma della chiesetta di Testaccio sullo sfondo. Lì, su quel campo, è nata la Roma e forse è per questo che nessuno lo ha dimenticato.
Era stato tale Foschi, presidente della Fortitudo a comprare il terreno e ad avviare il progetto. Progetto insolito, all’inglese: uno stadio di proprietà del club, concepito esclusivamente per il calcio. L’ingegner De Bernardinis, cui fu affidata la realizzazione dell’opera, confessò che si sarebbe ispirato allo stadio del Liverpool, niente meno. I lavori cominciano nell’estate del 1928, quando la Fortitudo si è ormai fusa con Alba e Roman per dare vita alla Roma. Sarà la nuova società ad ereditare lo stadio che viene ultimato in quindici mesi al costo di 1.647.161 lire dell’epoca.
Ventimila posti, interamente in legno, Testaccio debutta il 3 novembre 1929: Roma-Brescia 2-1. Il primo gol lo segna il fiumano Rodolfo Volk, che con 42 reti sarà il marcatore più prolifico nella storia dello stadio. Due anni dopo, il 15 marzo 1931, il giorno di gloria: scende a Roma la Juve capolista e i giallorossi si scatenano. Finisce 5-0 con doppietta di Fulvio Bernardini e gol di Lombardo, Volk e Fasanelli. Un risultato talmente sensazionale da ispirare un film (Cinque a zero, appunto) in cui alcuni giocatori della Roma recitano come comparse.
Campo caldo, quello di Testaccio. La Lazio dovrà aspettare dieci anni prima di espugnarlo: il 2-0 del 15 gennaio 1939 fu l’unica vittoria biancoceleste sul campo della Roma. Che in quel periodo, però, cominciava a scricchiolare, e non in senso metaforico: le tribune ondeggiavano in modo sinistro quando la folla esultava. Nel 1938 viene demolito e ricostruito in cemento il settore dei distinti, ma il restauro non basta. Gli altri settori restano pericolanti e ventimila posti sono sempre troppo pochi per contenere il popolo romanista. Così, il 2 giugno 1940 va in scena l’ultimo atto della struggente commedia umana ambientata a Testaccio: Roma-Novara 3-1. Poi toccherà al più moderno e capiente stadio del PNF ospitare le imprese dei giallorossi, mentre in due giorni – in soli due giorni – Testaccio viene demolito. Resta l’officina, il deposito per i camion e l’eco sempre più lontana di antiche passioni. Come se il cuore della Roma battesse ancora.
IL COMUNALE DI TORINO
L’eroe dei tre mondi
Costruito per i Mondiali del 1934, è andato “in pensione” alla vigilia di quelli del ’90 prima di rinascere a vita nuova per le Olimpiadi Invernali del 2006: da Orsi a Platini a Del Piero, ha visto cambiare il calcio.
Da Orsi a Platini a Del Piero. La storia del Comunale di Torino è racchiusa tra le imprese, così lontane nel tempo eppure così simili nella portata, di tre grandi campioni. Quando fu costruito, nel 1933, la Juventus stava completando un ciclo sensazionale. Aveva cominciato a vincere nel 1931 e non si era fermata più: campione d’Italia anche l’anno successivo, nel 1933 aveva lasciato l’Ambrosiana-Inter indietro di otto punti. L’approdo al nuovo stadio era stato festeggiato con altri due scudetti: in tutto, cinque di fila. In porta c’era l’intramontabile Combi, con Rosetta e Caligaris terzini e Monti centromediano. In prima linea Cesarini, Borel, Ferrari e, appunto, Orsi.
Lo stadio Comunale, allora intitolato – con somma originalità – a Benito Mussolini, era lo scenario più adatto per le mirabolanti imprese della Signora. Edificato in previsione dei Mondiali del 1934, era il più imponente del Paese, con una capienza di 65.000 posti. Un bel cambio di prospettiva per una squadra abituata alle anguste tribune del Campetto di via Marsiglia. «La vasta costruzione» precisava un comunicato ufficiale dell’epoca «è tutta in cemento armato e sorge nel mezzo di un campo sportivo, ove sono altri terreni di gioco, piscine, palestre. L’architettura è di stile razionale».
C’erano quasi sessantamila persone, l’11 febbraio del 1934, per l’esordio della Nazionale nel nuovo impianto: esordio sfortunato contro il Wunderteam austriaco che passeggia (4-2) sugli azzurri di Pozzo. Poco male: l’Italia si rifarà pochi mesi dopo nella semifinale mondiale, avviandosi a vincere la Coppa Rimet. Un Mondiale, quello del 1934, nel quale Torino recita una parte secondaria. Al Comunale si giocano un ottavo (Austria-Francia 3-2) e un quarto (Cecoslovacchia-Svizzera 3-2): per la finale di consolazione viene preferita Napoli.
Saranno comunque altre le pagine memorabili nella lunga storia del Comunale.
Umiliata dall’Inghilterra (0-4), proprio a Torino nel 1948, l’Italia sullo stesso campo saprà prendersi la rivincita sui Maestri in due occasioni. Nel 1973 un 2-0 in amichevole firmato da Anastasi e Capello. Sette anni dopo agli Europei è un gol di Tardelli a regalare agli azzurri una vittoria decisiva. Se la Juve si era accasata fin dall’inizio nel nuovo stadio, il Torino abbandonerà il Filadelfia solo nel 1960. Da allora il Comunale diventerà l’unico teatro dei derby. Storici quelli del ’75-76, quando con un doppio 2-0 alla Juve, il Toro strappa ai bianconeri, campioni in carica, i punti necessari per bruciare i cugini nello sprint scudetto.
Dai gol di Bettega alle giocate di Platini: negli anni Ottanta la Juve continua a vincere (nel 1986 arriva anche la prima Coppa dei Campioni), mentre il Torino scivola irrimediabilmente verso la Serie B. E il vecchio stadio di tanti trionfi, nato per un Mondiale, viene mandato in pensione da un altro Mondiale, quello del 1990, che porta in dono alla città di Torino il freddo e scomodo Delle Alpi, sgradito ai tifosi e alle due società.
La terza vita del Comunale arriva in occasione delle Olimpiadi Invernali di Torino del 2006. Il progetto di ristrutturazione, affidato a due studi di architettura veronesi Giovanni Cenna Architetto e Arteco, ha conservato le strutture esistenti, sottoposte al vincolo della Sovrintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici, ed ha aggiunto nuove strutture verticali per reggere la copertura di tutto l’impianto, e un terzo anello di gradinate, continuo e strutturalmente collaborante alla copertura. Dalla stagione 2006/07 Juventus e Torino sono ritornate a giocare nel “nuovo” stadio, ora chiamato Olimpico.