Il gemello di Maradona, più bravo (e sfortunato)

Amici per la pelle, a 13 anni giocavano nella stessa squadra, Diego col numero 10 e Gregorio, che faceva i gol, col 9. Poi “el Goyo” s’è rotto un ginocchio… Un docu-film racconta la sua storia.


Diego Armando Maradona aveva come un fratello gemello, però più bravo di lui a giocare al pallone. Gregorio. Bambini, poi adolescenti, inseparabili: i campetti di polvere, pietre e miseria di Fiorito, che se non sei del quartiere è meglio stare lontano. Francisco Cornejo viveva lì, faceva l’allenatore e lavorava per un club importante, l’Argentinos Juniors: il giorno che decise di mettere su una squadra di ragazzini del posto, ciabattò dubbioso da un cortile all’altro, cercava talenti e tutti gli parlavano di quel fenomeno di Gregorio. Il piccoletto disse va bene, don Francis, ci sto: «Ma a un patto: posso portare un amico? Diego è un pibe que la rompe, uno che spacca. Un fratello, per me».

Don Francis non sapeva nemmeno che nome dare alla squadra, poi li guardò uno per uno: erano così magrolini, avevano 13 anni ma ne dimostravano meno. Decise di chiamarli Los Cebollitas, le cipolline: si aggiudicarono 140 partite consecutive, un torneo dedicato a Evita Perón e due campionati. La squadra più vincente nella storia del calcio argentino. Era il 1973. Diego indossava già la maglia numero 10. Gregorio, l’Altro Maradona, la numero 9. E fece quasi tutti i gol.

Vive ancora a Fiorito. Moglie, 6 figli. È un busca, come dicono qui, nel senso che ogni giorno cerca lavoro: oggi muratore, domani venditore ambulante, attacchino. Si arrangia. Gregorio Carrizo lo conoscono come el Goyo. El Diego, el Goyo. Lui non è diventato un campione, no. «È successo tutto dopo aver fatto un dribbling, uno di troppo: perché mi piaceva superare gli avversari, mi sembrava di volare. Invece all’improvviso ho sentito qualcosa che si rompeva, dentro il ginocchio. E mi sono fermato. Per sempre». Aveva 18 anni, stava per debuttare in prima squadra come l’amico, il gemello. Invece l’infortunio, l’operazione. Lui in un letto di ospedale, mentre l’altro cominciava a diventare grande.

«All’inizio Diego mi ha aspettato. Mi ha anche pagato le cure per la riabilitazione, la palestra. Però io ero troppo pigro, o forse troppo impaziente. Avrei dovuto continuare con gli esercizi per sei mesi, dopo 20 giorni m’ero già stufato». Il Goyo Carrizo ritorna sul campo, ma da quel momento è tutta la sua vita che si mette a zoppicare. «Mi dicevano: il tuo amico è arrivato in alto, tu sei migliore e devi raggiungerlo, come minimo. Tutti si aspettavano che facessi meraviglie, ma ero sempre con la borsa del ghiaccio sul ginocchio. Una partita in prima divisione, un altro infortunio. E allora ho cominciato a passare da una squadra e da una città all’altra: sempre più piccole, più lontane. Poi sono tornato qui».

Ezequiel Luka e Gabriel Amiel sono due giovani registi argentini. Anni fa avevano lavorato con Marco Risi al casting di Maradona. La mano de Dios. È stato allora che, dopo aver incrociato la storia del Goyo, hanno deciso di raccontarla attraverso un emozionante docu-film: cinque anni di riprese e di interviste, El Otro Maradona ha fatto incetta di premi in America Latina e ora è stato acquistato da un distributore italiano, Samarcanda Film. «In questa storia, Diego non c’è. Mai. C’è il suo fantasma, che tormenta la vita di Carrizo. Il passato che gli fa male ma al tempo stesso lo identifica. Un uomo che è quel che non è stato: l’Altro».

Insieme al Goyo viaggiano sui campetti da calcio di tutta l’Argentina, perché Carrizo ha fatto anche lo scopritore di talenti (come Gonzalo Martinez, stella del River Plate) , ha una particolare sensibilità nel riconoscere le qualità dei giovani calciatori. Un po’ come don Francis, tanti anni fa. «È un uomo onesto e sensibile, il Goyo. Modesto, umile. La gente parla di lui, lo presenta in pubblico (“Questo signore era più forte di Maradona, lo sapete?“) e lui abbassa lo sguardo. Confuso, triste. Se ne va in giro con un altro amico, piccole pensioni e autobus sgangherati, formano quasi una coppia donchisciottesca».

Il Goyo spiega che gli piace, insegnare il football ai bambini. «Dovete essere rispettosi. Non guardare mai alle cose materiali. Il Paese dipende da voi» dice loro, e si commuove. «È bello scoprire le loro capacità, stimolarli a crescere. Ma perché diventino delle persone migliori. Oggi si lavora solo per il successo, invece bisogna anche pensare che il ragazzo potrebbe anche non farcela». Come me, vorrebbe confessare. Però proprio non ci riesce. «Io ci sono stato male. Tanto. Non ero preparato, al fracaso, il fallimento. Il tempo passava, vedevo mio figlio che giocava anche lui al pallone: ma scalzo, perché non avevamo i soldi per comprargli le scarpe. Ho pensato di uccidermi. A un certo punto avevo paura a uscire di casa. La depressione. Ho fatto delle cose brutte, ho sbagliato. Non voglio che succeda anche agli altri».

Muri screpolati, una televisione mezza rotta e un quarto d’ora a lottare con l’antenna prima di trovare un po’ di segnale: alla televisione trasmettono in diretta un match dell’Argentina e inquadrano Diego Armando Maradona, che assiste in tribuna. Carrizo, che muove le labbra cantando l’inno nazionale, all’improvviso lo vede. Si emoziona. Uno dei suoi figli lo ha chiamato come lui: «Era il ’99, per 10 secondi il cuore si è fermato – ricordate l’overdose? – poi grazie al cielo si è ripreso, e contemporaneamente è nato il mio bambino: Diego Armando, appunto».

Gregorio e Diego, i due «fratelli gemelli» nati nel 1960, nello stesso barrio e a nove giorni di distanza l’uno dall’altro, dopo quel dribbling di troppo – e la rottura dei legamenti, del destino – si sono rivisti solo in poche occasioni. «L’ultima è stata quasi 10 anni fa, lui era il commissario tecnico della Nazionale e sono andato a trovarlo al termine di un allenamento». Poche parole, sorrisi imbarazzati, forse nemmeno una stretta di mano. Dicono che a suo tempo Maradona gli abbia offerto un aiuto economico, una casa migliore dove andare a vivere insieme alla sua famiglia. Ma il Goyo – orgoglioso – è rimasto a Fiorito. Il tempo ha fatto il resto.

Nel quartiere c’è ancora la canchita, il campetto dove loro due hanno cominciato a giocare. Polverosa come allora, forse peggio: in un angolo hanno rovesciato una montagna di calcinacci, le porte sono arrugginite e una traversa è tutta piegata. Ma c’è una strana atmosfera, e pare quasi di sentire l’eco delle grida di bambini. «Era un piccolo terreno di mio padre, che lo aveva preparato solo per noi: ci aveva buttato sopra della terra, poi con delle canne aveva fatto la porta, comprato le reti. Qui sognavano di vincere i mondiali di calcio». È la terra dei Carrizo, spiega: «Per me questa è terra santa: perché è qui che ho conosciuto Diego. Perché qui eravamo imbattibili. E quando abbiamo smesso di giocare qui, è come se l’anima avesse abbandonato il mio corpo».

Le Cipolline. Tanti anni fa, Francis Cornejo gli ha lasciato una vecchia fotografia sbiadita che conserva come una reliquia. Cinque bambini seduti, la maglietta bianca e le case di Fiorito sullo sfondo. C’è una dedica: «Il miglior reparto d’attacco che ho mai allenato: Silvano, Claudio, Goyo, Diego e Polvora: los Cebollitas. Don Francis».

Gregorio Goyo Carrizo ha una scatola piena di ritagli e immagini, quasi tutti in bianco e nero. Articoli che parlano di lui. E dell’Altro. Di quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Dice che ogni tanto la sera, quando non riesce a dormire, se li legge. «O forse è perché li leggo, che non riesco a dormire. Ma in fondo, sono contento così. Ho fatto felici tante persone, perché senza di me non ci sarebbe stato Maradona: quel giorno ho detto a don Francis che avrei portato un fratello, uno bravo. Avevo ragione. Era lui, il campione».